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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Foglio Rassegna Stampa
13.07.2011 Afghanistan, sarebbe un errore ritirarsi adesso
Analisi di Carlo Panella, Daniele Raineri, Mattia Ferraresi

Testata:Libero - Il Foglio
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Mattia Ferraresi
Titolo: «Due colpi in testa al fratello di Karzai e alle trattative con i talebani - La violenza oscura il mito obamiano della riconciliazione con i talebani»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 13/07/2011, a pag. 1-17, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Altro italiano ucciso in Afghanistan ma dobbiamo restare ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Due colpi in testa al fratello di Karzai e alle trattative con i talebani ", a pag. 4, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " La violenza oscura il mito obamiano della riconciliazione con i talebani ".
Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : " Altro italiano ucciso in Afghanistan ma dobbiamo restare "


Carlo Panella

Nel giorno della morte del 40° militare italiano in Afghanistan, l’assassinio del fratello del presidente afghano Hamid Karzai indica che “c’è qualcosa di marcio”nella stessa testa politica del Paese. Ieri mattina il primo caporalmaggiore, Roberto Marchini dell’8° reggimento del genio Folgore di Legnago, impegnato nelle operazioni di sminamento, appena sceso dal blindato, nel distretto di Bakwa, nella provincia di Farah, è incappato su un ordigno ed è stato ucciso. Poche ore dopo, nella lontana Khandahar, Ahmad Wali Karzai, fratellastro del presidente afghano, è stato ucciso da Sardar Mohammed, frequentatore abituale e fidato del fortino nel centro della città e comandante di una postazione di sicurezza meridionale di Karza, zona d’origine della famiglia del presidente. Ahmad Wali Karzai aveva iniziato il classico rito orientale del ricevimento dei clientes e dei postulanti e stava ricevendo, da solo nel suo studio, Sardar Mohammed di cui aveva totale fiducia, tanto che gli affidava la responsabilità della protezione di Hamid Karzai quando arrivava a Khandahar. All’improvviso però, Sardar Mohammed ha estratto la pistola e ha sparato due colpi alla testa del fratello di Karzai. Le sue guardie del corpo hanno fatto irruzione, hanno ucciso l’as - sassino ma non hanno potuto fare nulla per la vittima.
Un assassinio politico più che inquietante, perché proprio attraverso Ahmad Wali Karzai e il suo assassino Saradar Mohammed, Hamid Karzai stava conducendo da tempo le sue trattative con i talebani “moderati”, in vista del progressivi ritiro delle forze occidentali. I talebani hanno rivendicato l’azione, (rivendicazione a cui non tutti danno credito), anche se non è impossibile uno scenario che spesso si è ripetuto proprio quando queste trattative stavano producendo risultati.
La grande frattura tra i fondamentalisti
È possibile cioè che i talebani intransigenti, legati alla confederazione tribale degli Haqqani, abbianousato Sardar Mohammed per eliminare il terminale governativo della trattativa e fare saltare l’accordo. Resta il fatto che Ahmad Wali Karzai, governatore della provincia Pashtun di Khandahar, era il principale simbolo della corruzione e del malaffare che circondano Hamid Karzai. In uno dei file rivelati da WikiLeaks l’invia - to Usa Frank Ruggiero, nel settembre 2009, lo descriveva come «corrotto e trafficante di stupefacenti» mentre il New York Timeshascritto che è stato pagato dalla Cia da anni per servizi che includevano il reclutamento di milizie afghane per combattere i talebani. Quelle voci stonate nella maggioranza Il tributo di sangue sempre più pesante da parte dei militari occidentali e italiani e anche l’opacità crescente che circonda i vertici di Kabul, non possono comunque giustificare alcun ripensamento sull’utilità della missione afghana. L’uccisione da partedei NawySeals di Osama Bin Laden ad Abbottabad ha confermato che il terrorismo islamico al qaedista, in tanto ha agibilità politica e può colpire, anche in occidente, in quanto trova protezione e aiuti in quel groviglio afghano- pakistano di cui i talebani sono il baricentro. Se si abbandonasse a loro l’Afghanistan, il terrorismo islamico lo trasformerebbe di nuovo in un “santuario terrorista” per organizzare attentati in Europa e negli Usa, come fece prima dell’11 settembre, tesi ribadita con forza da Frattini, come da Napolitano e dalla maggioranza, nel rendere omaggio al caporalmaggiore Marchini. Per questo appaiono stonate le richieste di ritiro dei nostri soldati dall’Afghanistan, avanzate non solo da Di Pietro, Vendola e Bolelli dei Verdi, ma anche da Storace e i leghisti Stefani e Zaia, governatore del Veneto.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Due colpi in testa al fratello di Karzai e alle trattative con i talebani "


Daniele Raineri, Ahmed Wali Karzai

Roma. Le trattative con i talebani decisamente non sono ancora a buon punto se ieri il fratellastro giovane del presidente Hamid Karzai, Ahmed Wali Karzai, è stato abbattuto nel suo ufficio con due colpi di pistola alla testa da una guardia del corpo e i guerriglieri hanno rivendicato l’uccisione. A parte le considerazioni sul disastrosicurezza – e se la guardia del corpo avesse aspettato un incontro tra i due parenti e avesse ucciso con due colpi in più anche il presidente dell’Afghanistan? – e il fatto, centrale nella saga afghana, che Ahmed Wali era il signore e padrone del sud, l’uomo più importante e influente di Kandahar, a uscire indebolita è più in generale l’idea che i talebani siano impegnati in trattative concrete con gli americani per trovare una soluzione politica alla guerra in Afghanistan. Ieri il presidente afghano, che poi è corso giù a Kandahar con una coda di collaboratori e dignitari, ha incontrato il presidente francese Nicolas Sarkozy che, parlando del prossimo ritiro del contingente di soldati mandato da Parigi e della possibilità di una soluzione negoziata al conflitto, ha detto: “Bisogna sapere finire una guerra”. Poi la parola è passata a Karzai, che però ha guardato mesto i giornalisti e ha soltanto detto: “Non ho nulla da aggiungere alle parole di Sarkozy, ogni famiglia in Afghanistan ha conosciuto la sua quota di dolore”. E’ stata una rappresentazione dolorosa della direzione che sta imboccando la guerra. Il francese che annuncia ritiro militare e riconciliazione politica e il presidente a cui hanno appena detto che il fratello è stato ucciso da un infiltrato, verosimilmente appartenente alla controparte dei “negoziati”. Chi lascia il paese e chi è costretto a restare. A chi toccherà dopo? Wali Karzai si fidava della propria guardia del corpo, Sardar Mohammed. Era un uomo vicino alla famiglia da almeno vent’anni, da quando il padre dei Karzai – leader carismatico e riverito, anche lui ucciso dai talebani – era ancora vivo, poi è diventato comandante del posto di polizia che sorveglia la strada che dalla villa fortificata del signorotto di Kandahar porta alla villa di un altro fratello Karzai e infine è stato preso come guardia personale, anzi di più, come confidente, negli ultimi sette anni. Non si è capito con certezza perché ieri mattina, mentre nella villa aspettavano sessanta tra postulanti e capi locali – tutti afghani che vivono questo tempo di guerra “seduti sulla staccionata”, in attesa di vedere chi è il più forte nella lotta tra governo centrale, occidentali e talebani – ha chiesto al capo un incontro faccia a faccia nel suo ufficio privato e lo ha ammazzato a pistolettate. C’è chi tira in ballo i traffici del Karzai minore, signore del traffico di droga e capo di quel “cartello Karzai” che – ha scritto il Times di Londra – grazie ai contratti con gli occidentali per le costruzioni, i rifornimenti e la protezione dei convogli destinati alle truppe Nato riesce a incassare un miliardo di dollari ogni anno. Ma questa versione non torna. Sardar è stato subito ucciso dalle altre guardie del corpo, il suo corpo trascinato per le strade legato con una corda dietro a un pick up e poi appeso alla balconata del secondo piano. Non poteva non sapere a che cosa stava andando incontro. Per questo non pare un omicidio collegato alla mafia degli affari militari afghani o al suo parente pure tollerato, il traffico di droga. Il motivo dell’operazione suicida sembra piuttosto più ideologico e legato – come accade con frequenza sempre maggiore – all’incessante serie di attacchi da dentro, a tradimento, contro le istituzioni afghane e le forze occidentali. I talebani confermano: “Avevamo chiesto da tempo a Sardar di uccidere il fratello di Karzai, e oggi (ieri) c’è riuscito. Per adesso è l’operazione di maggior successo della nostra campagna Badr”, ha detto un portavoce riferendosi all’offensiva di primavera. I guerriglieri tentano di disarticolare i vertici locali del governo. La lista degli assassinati include il vicesindaco di Kandahar, il vicegovernatore della provincia, il capo provinciale della polizia, il capo distrettuale di Arghandab (uno dei distretti più contesi tra governo e talebani). Del resto, fanno notare alcuni analisti, perché attribuire ai talebani tutta questa voglia di negoziare? Non lo hanno fatto quando erano a pezzi nel 2002, cacciati dal paese e dispersi sotto i bombardamenti americani e davanti all’avanzata degli storici nemici dell’Alleanza del nord. Perché dovrebbero trattare ora che si sentono a un passo dalla vittoria? Sono gli stessi talebani a negare che ci siano trattative in corso, anche se potrebbe trattarsi di un espediente per non demoralizzare le truppe – nessuno vuole essere l’ultimo a morire in una guerra. E, ancora, sono gli stessi talebani a dire che i loro padrini politici dentro l’establishment militare pachistano insistono a voler protrarre il conflitto, come se dieci anni da sommare alle precedenti guerre civili non fossero abbastanza. E’ difficile negoziare con una parte che non ne ha voglia e che si sente in vantaggio e che potrebbe sfruttare i negoziati come paravento per coprire l’obiettivo finale e mai dimenticato, la riconquista totale del paese, la supremazia dei pashtun sulle altre etnie e la tanto sospirata vendetta contro l’Alleanza del nord. I riferimenti alla tattica legittimata dal Corano della “taqqiya”, la dissimulazione, che consentirebbe ai talebani di fingersi disposti a negoziare per poi tradire il patto subito dopo (in questo caso, subito dopo il ritiro già calendarizzato dei soldati occidentali), si sprecano. L’assassinio di Ahmed Wali Karzai ha un peso pari all’uccisione del capo dell’Alleanza, Ahmad Shah Massoud, nel settembre 2001 – anche se il primo era un boss corrotto sopportato dagli americani soltanto per l’influenza che sapeva esercitare, e l’altro era invece il leone del Panshjir, un capo nobile della resistenza antisovietica. Entrambi hanno aperto un vuoto di potere che anticipa l’arrivo di lotte violente e di turbolenze. Ieri il comandante uscente dei soldati in Afghanistan, il generale David H. Petraeus, ha parlato con accenti ottimistici di una stabilizzazione “fattibile” e del rallentamento del numero di attacchi degli insorti. Ma questa volta è ancora troppo presto, non si può parlare di una replica del successo in Iraq. Amrullah Saleh è invece stato capo dei servizi segreti dell’Afghanistan per otto anni, prima di essere cacciato dal presidente Hamid Karzai perché è contrario ai negoziati con i talebani. Ieri ha detto: “I talebani e i loro alleati di al Qaida e i pachistani non avranno nessuna pietà per gli afghani, uccideranno tutti i loro leader uno a uno”. Nel 2005 aveva azzeccato la reale posizione del nascondiglio di Osama bin Laden con una precisione di 25 chilometri.

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " La violenza oscura il mito obamiano della riconciliazione con i talebani "


Barack Obama, Mattia Ferraresi

New York. L’assassinio di Ahmed Wali Karzai, fratellastro del presidente afghano Hamid, è soltanto l’ultimo segno del fatto che l’Amministrazione americana è in mezzo a un guado strategico in Afghanistan; il rischio di trovarsi con l’acqua alla gola senza più le forze per raggiungere l’altra sponda o tornare indietro è alto. Il presidente americano, Barack Obama, ha iniziato a ritirare i trentamila soldati del surge nella convinzione che la loro missione fosse compiuta: con un surplus di forze siamo riusciti a creare una situazione di relativa stabilità nel sud del paese, la culla dei talebani, e dunque possiamo permetterci di iniziare il processo di transizione della sicurezza all’esercito afghano, ragionava il presidente. Wali, fulcro dell’equilibrio precario della regione, è stato ucciso a Kandahar, nel cuore del surge; nei mesi scorsi è stato ucciso il capo della polizia della città, così come il governatore della provincia di Takhar, nel nord, e il comandante della sicurezza del settore settentrionale. Un anno fa il vicesindaco di Kandahar è stato ucciso durante la preghiera del venerdì; al suo predecessore era toccata la stessa fine nell’apparente sicurezza della sua casa. La notte del 28 giugno un gruppo di terroristi suicidi è entrato nell’hotel Intercontinental di Kabul e ha ucciso undici civili e due guardie giusto qualche ora prima che i governatori delle province si riunissero nell’albergo, rifugio apparentemente sicuro per i visitatori internazionali e vip locali. L’ultima volta che i talebani si erano arrischiati ad assaltare un luogo così esposto era nel gennaio 2008, quando un commando con vestiti rituali e cinture esplosive ha fatto irruzione nella palestra del lussuoso hotel Serena. Fra le otto vittime c’era anche un cittadino americano. Abbracciare con un solo sguardo la striscia di violenza e il progressivo ritiro delle forze americane dall’Afghanistan è un’operazione destabilizzante per gli uomini della sicurezza di Obama che negli ultimi anni hanno insistito sulla strategia della “reconciliation” con i talebani: come ci si riconcilia con chi torna alla carica ogni volta che il presidente spiega al mondo che la pressione militare ha una data di scadenza? “Innanzitutto bisogna dire che la riconciliazione non è un happy ending in cui si approva una Costituzione, una legge elettorale e alla fine americani e talebani si prendono per mano”, dice al Foglio Brian Katulis, analista del Center for American Progress, think tank vicino all’Amministrazione Obama. “Una strategia credibile per stabilizzare la regione deve almeno riconoscere che i nodi del potere talebano, specialmente nel sud, sono intimamente collegati al crimine. Vogliamo la riconciliazione? Bene, per farlo bisogna trattare con chi controlla le armi e i soldi. Il denaro in Afghanistan lo gestisce chi controlla la mafia e i traffici di droga, quindi qualunque strategia realistica deve tenere conto che il processo di riconciliazione è una cosa sporca, non una magica conversione di terroristi che odiano l’occidente”, dice Katulis. Come nota anche Steve Walt, professore di Relazioni internazionali ad Harvard, Washington non può pensare di avviare un negoziato senza avere i partner giusti all’interno del delicato scenario afghano. “Due anni fa – continua Katulis – Holbrooke ha lanciato una grande campagna contro i trafficanti di droga in Afghanistan. L’obiettivo era seguire il flusso del denaro per capire il funzionamento del potere locale e sfruttare questi snodi a nostro vantaggio. Questo sforzo ora è stato totalmente dimenticato. L’altro giorno ne parlavo con l’ambasciatore della Nato in Afghanistan, e nemmeno lui ne sapeva nulla”. Alcuni ufficiali di Obama già da tempo hanno mostrato scampoli di scetticismo fra le pieghe della strategia ufficiale. Leon Panetta, da poco nominato segretario della Difesa, una anno fa diceva che “non abbiamo prove che i talebani siano davvero interessati alla riconciliazione, che davvero vogliano alzare le braccia, che davvero vogliano denunciare i membri di al Qaida e abbiano intenzione di far parte di una società diversa. Finché non saranno davvero convinti che gli Stati Uniti possono sconfiggerli, non credo che accetteranno un serio processo di riconciliazione”. Parole che si sovrappongono perfettamente a quelle pronunciate qualche mese fa dal suo predecessore al Pentagono, Bob Gates, che nei corridoi di Washington ha spesso raffreddato l’entusiasmo trattativista dei suoi colleghi: “I talebani devono sentire la nostra pressione militare; devono essere certi di non potere in nessun modo vincere questa guerra per accostarsi in modo credibile a una trattativa”. Nel guado dell’Amministrazione, l’inizio del ritiro delle truppe è una sveglia per i talebani, che dimostrano di essere capaci di colpire un asset strategico degli Stati Uniti come il fratellastro di Karzai proprio nell’area su cui Obama ha lavorato per 18 mesi; e in più il nemico è tornato a mettere sotto pressione le forze della coalizione nell’ovest del paese. A Washington lo chiamano “whack-a-mole”, il gioco del luna park in cui bisogna martellare tempestivamente la sagoma di cartone che spunta ora da un buco, ora da un altro. In Afghanistan il nemico sta dimostrando che la strategia della riconciliazione è un finale romantico che piace ai politici in campagna elettorale e ai tagliatori di spesa che sono tentati da un baratto pericoloso: la sconfitta in Afghanistan in cambio di qualche miliardo.

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