Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 06/07/2011, a pag. 16, l'articolo di R. A. Segre dal titolo " La rabbia araba porta un autunno di rivolte ". Dalla STAMPA, a pag. 1-14, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " In Piazza Tahrir: Ci hanno rubato la rivoluzione ", a pag. 15, la sua intervista a Mohammed Abdel Koddos, esponente dei Fratelli Musulmani dal titolo " Ma noi non ci saremo Adesso serve stabilità ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " La rabbia araba porta un autunno di rivolte "

R. A. Segre
Il voto di venerdì in Marocco per cambiare la costituzione e trasformare il potere da regime autoritario-religioso a monarchico-costituzionale (mantenendo re Mohammed VI a capo della religione e devolvendo a un primo ministro eletto il potere esecutivo) è un tentativo di salvare tradizione e innovazione nella rivolta araba che ha perduto il profumo di «gelsomino» con cui era iniziata in Tunisia nel gennaio scorso. Tentativo tardivo ma non necessariamente fallimentare dal momento che le dinastie arabe, oltre ad essere più legittime agli occhi delle masse, si dimostrano più flessibili dei regimi «repubblicani» laici o islamici. L’Egitto - storico leader del mondo arabo - ne è in questi giorni la prova.
Con mille feriti nello scontro fra manifestanti e esercito giovedì al Cairo la rivoluzione ha mostrato l’altro «volto della Piazza Tahrir». È il volto brutale della contro rivoluzione condotta dai militari che non sono al governo in forme diverse in tutto il mondo arabo da mezzo secolo ma con radici profonde nella storia del potere islamico: la pirateria «statale» ottomana in Nord Africa, governanti mamelucchi e poi albanesi di Mohammed Ali, milizie tribali beduine in Giordania, Irak e nella Penisola araba.
De Gaulle diceva che non ci sono lealtà o amicizie permanenti in politica. Solo interessi permanenti. Quelli che la rivolta araba sta mettendo in gioco - e in questo senso si tratta di una vera rivoluzione - non sono soltanto più gli interessi dei petrolieri - indigeni e stranieri - ma quelli storici dei militari. In questo senso è una rivoluzione che ha nulla in comune con quella bolscevica del 1917 o con quella democratica prodotta dalla caduta del muro di Berlino nel 1989. Ricorda piuttosto nei suoi slogan la rivoluzione francese del 1789: libertà, uguaglianza fraternità/dignità. Come alla presa della Bastiglia nessuno dei manifestanti della prima occupazione di Piazza Tahrir sembrava sapere cosa voleva salvo l’abbattimento di un regime di cui per disprezzo e fame accumulata avevano perduto la paura. In maniera e tempi molto differenti da quella francese e per l’assenza - per il momento - di un nemico esterno capace di cristallizzarla, la rivoluzione araba sembra ovunque entrata nella fase della contro rivoluzione. Condotta dalle forze militari in esitante e sospettosa collaborazione con vecchie opposizioni islamiche e nuove aspirazioni moderniste, questa controrivoluzione si sviluppa in barba a tutte le promesse fatte nell’entusiasmo delle prime giornate di rivolta.
La storia naturalmente non si ripete. Inutile cercare in questa fase della «primavera araba» qualcosa di comune con l’universalismo illuminista francese o con il riformismo napoleonico. L’unica possibile accostamento sta nella violenza repressiva della contro rivoluzione, unita ad una situazione economica e sociale che sta diventando insopportabile. Questo prepara inevitabilmente una nuova ondata rivoluzionaria ben diversa da quella del 1848 in Europa se non altro per la mancanza nel mondo arabo di una classe borghese, laica e liberale.
Due cose potrebbero caratterizzala. La prima, la capacità di quella parte della popolazione giovane e istruita - si tratta di milioni di uomini e donne - di organizzarsi e imporsi come legittima e indispensabile partecipante a un potere (laico o religioso) deciso a far uscire la società araba dal suo torpore anti modernista e vittimista. La seconda, la necessità - persino per la ricca Arabia Saudita - di disporre di liquidità per tacitare nell'immediato la rabbia delle masse. Gli unici quattrini disponibili in tempo di crisi finanziaria mondiale, sono quelli che i militari dispongono per l'acquisto e la manutenzione di prestigiosi armamenti. Nel caso della Siria, dell’Egitto, degli Hezbollah libanesi, dei sauditi, dei giordani e dei palestinesi di Hamas questo potrebbe indurre a riflettere sull’inutilità di perseguire la lotta contro Israele anche se sostenuta e finanziata dall’Iran. Non è detto che succeda. Ma il fatto che da sei mesi l’interesse per il conflitto palestinese sia collassato nei media arabi è significativo. Anche se non garanzia di progresso nella pace.
La STAMPA - Francesca Paci : " In Piazza Tahrir: Ci hanno rubato la rivoluzione "

Francesca Paci
Ormai succede spesso, non capisco davvero» commenta un guardiano del Museo Egizio, tradendo insofferenza per la rivoluzione permanente. Stavolta almeno la polizia non ha sparato lacrimogeni, ma il traffico tornato alla normalità non annulla le tende bruciate, le ambulanze, 47 feriti.
I figli del 25 gennaio sono cresciuti in fretta nella Cairo post dittatura. A cinque mesi dalla cacciata di Mubarak la delusione per un cambiamento giudicato troppo lento ha sostituito l’euforia iniziale, e gli scontri di domenica sono l’estrema profanazione dell’un tempo esemplarmente pacifico palcoscenico di Tahrir.
Cosa resta della rivoluzione oltre alla frase del presidente americano Obama affissa all’aeroporto del Cairo, «Dobbiamo crescere i nostri figli come il giovane popolo egiziano»? Tra le mille voci dei protagonisti si perde l’unità corale del principio.
«La gente ha recuperato fiducia, ma ora abbiamo paura che gli uomini di Mubarak tornino a controllare la politica» ammette l’ingegnere trentenne Ahmed Maher, leader del movimento 6 aprile. Per questo e per chiedere che i responsabili degli 846 morti della rivoluzione, a cominciare dall’ex ministro dell’interno El Adly, siano processati per direttissima, il popolo di Tahrir tornerà in piazza venerdì 8 luglio. «L’idea è restare a oltranza, andarsene il 13 febbraio è stato un errore» rilancia il blogger Wael Abbas, certo che dopo la condanna a 3 anni di prigione dell’amico Maikel Nabil, reo d’aver criticato il Consiglio militare alla guida della transizione, la vita degli attivisti sia perfin più dura di prima.
Chi resiste accampato tra le mummie e l’imperterrito cantiere del Nile Hilton, come l’avvocato ventinovenne dell’Unione Rivoluzione Egiziana Ismail Islam, predica perseveranza: «Poliziotti in borghese ci hanno aggredito anche domenica, ma se molliamo adesso abbiamo perso tutto». Eppure, nonostante Facebook, l’appello a serrare le file della piazza popolata oggi soprattutto da disoccupati diffidenti anche degli stranieri suona meno persuasivo di quando sul fronte avverso c’era un nemico unico e comune.
Le adesioni raccontano la difficoltà di volgere l’energia in progetto politico. «Io ci sarò, la violenza degli ultimi giorni è estranea al 25 gennaio, dobbiamo difendere il dialogo con l’esercito contro il sabotaggio dell’ex regime» afferma Tamer el Lesi, 33 anni, programmatore e liberale. Nei caffè intorno a Tahrir e nel fast food Arzak al Qawther cresce il dibattito. L’ingegnere ventisettenne Khaled Said, elettore di sinistra, è ottimista: «È il momento dell’escalation: le riforme tardano, il processo del 3 agosto a Mubarak è finto, l’esercito, interessato ai propri rapporti con l’America e Israele, si è alleati con i più potenti, i Fratelli Musulmani». Tante paure quante le sigle che le esprimono. Così Nihad Abul Komsan, direttrice del Centro egiziano per i diritti delle donne, un edificio vicino all’ospedale militare in cui morì Sadat nel quartiere di Maadi, ammette di non aver deciso: «Non sono delusa, bisogna ridurre le aspettative, attenderò giovedì per vedere cosa farà il Consiglio che di solito concede qualcosa in extremis, come quando ha sciolto i consigli locali controllati al 90% dall’Ndp, il partito di Mubarak».
La confusione è grande sotto il cielo, ma non è detto che la situazione sia eccellente. «E’ probabile che l’8 luglio i socialisti ci siano ma con le proprie richieste, la soluzione non è stare in piazza con tante voci mentre la nuova finanziaria ricalca quelle di Mubarak destinando alla salute e all’istruzione solo il 4% e mantenendo le pensioni minime a 500 pound (50 euro)» osserva il giornalista ventisettenne Mustafa Mohi, membro del partito dei lavoratori. La rivoluzione ha galvanizzato gli operai che in sei mesi hanno organizzato 158 scioperi e 259 proteste. Ma i 300 mila posti persi in 4 anni gravano sulla disoccupazione balzata all’11,9%, di cui il 40% composto da under 25 e laureati.
«L’economia è vitale, prima si vota meglio è» nota l’imprenditore tessile Ala Arafaa. Da gennaio il mercato si è contratto del 7% e il turismo del 46%. Cambia poco che la World Bank abbia promesso un miliardo di dollari per il rientro dei capitali stranieri. Secondo Hani Tawfik, presidente degli investitori internazionali, la querelle sulle elezioni prima della Costituzione o viceversa è sterile: «Urge un parlamento perché solo un governo popolare può fare scelte impopolari. Il 75% dell’economia egiziana dipende dai privati e neppure i Fratelli Musulmani possono ignorarlo».
I Fratelli Musulmani, già. I più pragmatici al momento. Mentre piazza Tahrir paga la perdita dell’innocenza col disinganno, gli antichi nemici del regime si sono ripuliti e contano sul verdetto positivo delle urne. «L’attenzione Usa nei nostri confronti è un riconoscimento» dice Mohammad Gozlan dai piani alti del neopartito Giustiza e Libertà, dove lo sdoganamento internazionale va di pari passo con l’istituzionalizzazione. Secondo il collega Khairat al Shalter, una volta stabilito il parlamento «ci saranno 8 anni di transizione seguiti da trent’anni di ricostruzione».
I giovani del 25 gennaio dubitano sempre più dell’alleanza tacita tra i signori delle moschee e i militari. La frattura tra la vecchia generazione della Fratellanza e la giovane, legata alla piazza, testimonia una crisi. Il farmacista quarantenne Ahmad Rami la minimizza glissando però sull’8 luglio: «Purtroppo faccio parte del sindacato farmacisti e quel giorno sarò altrove». Ma Mohammad Abbas, giornalista, 27 anni, ci sarà: «C’è divergenza di punti di vista, alla fine i grandi sapranno inglobare le nostre idee».
Il calendario incalza. Le elezioni parlamentari sono previste per settembre, al termine di quel Ramadan che Nihad Abul Komsan teme favorisca la propaganda dei partiti religiosi, Fratelli Musulmani e salafiti. Sebbene Il Cairo brulichi di seminari sulla democrazia, i ragazzi di piazza Tahrir rivendicano ancora come una forza che il movimento sia privo di leadership. Guai a parlar loro di formare un partito. «Sarebbe come tradire il popolo, meglio insistere nel premere sul Consiglio per una perestrojka sul modello russo» insiste la militante ventottenne Rasha Azab.
L’esercito supervisiona, sospettato ora di doppiogiochismo da alcuni e considerato ancora un garante da altri, come nota il direttore del giornale copto Watani Youssef Sidhom: «Islamisti e caos fan paura a tutti, ma i militari vigilano sulla democrazia». L’8 luglio a Tahrir la rivoluzione mostrerà la giovinezza: alla maturità per ora pensa l’antico paladino dei diritti Saad Eddin Ibrahim che con il suo Centro Ibn Khaldoun sta formando 15 mila giovani osservatori elettorali chiedendo a ciascuno di far da trainer ad altri due per le presidenziali. E così via di voto in voto. «Alla fine del 2012 vorremmo avere un milione di testimonial della democrazia» spiega Ibrahim. Il fumo degli scontri di piazza Tahrir vela il tramonto, il sole brilla rosso ma il tempo stringe.
La STAMPA - Francesca Paci : " Ma noi non ci saremo Adesso serve stabilità"
Chissà che Hillary Clinton non legga le dichiarazioni di Mohammed Abdel Koddos, intervistato da Francesca Paci. Forse le saranno utili per comprendere quanto sia impossibile considerare i Fratelli Musulmani un interlocutore credibile e quale sarà il futuro di sharia per l'Egitto se nessuno bloccherà la loro ascesa.
Ecco l'articolo:

Fratelli Musulmani
C’ è odore di pittura fresca al quartier generale dei Fratelli Musulmani. La palazzina di Manial, sede storica del gruppo, ospita oggi il neopartito Giustizia e Libertà. L’ultrasessantenne dottor Mohammed Abdel Koddos, veterano dello stato maggiore, segue il programma dei mesi che mancano alle elezioni. Due custodi adagiati sul divano guardano la partita di calcio tra l'Ali, campione del Cairo, e la squadra di Alessandria.
L’8 luglio i Fratelli saranno in piazza Tahrir?
«No».
Come mai, se lo spirito è quello del 25 gennaio?
«Non ci saremo».
Più d’uno, tra i giovani di piazza Tahrir, diffida dei Fratelli Musulmani temendo che vogliano accaparrarsi la rivoluzione. Cosa risponde?
«Non è vero. Noi vogliamo la stabilità, per questo siamo favorevoli ad andare al voto al più presto. Non capisco perché i laici siano contrari».
Chiedono la nuova Costituzione prima delle elezioni, una garanzia per chi dovesse perdere. Non è d’accordo?
«Il popolo egiziano, attraverso il referendum, si è espresso per il voto subito e solo dopo la Costituzione. È strano che i laici siano già sicuri di perdere e nonostante ciò avanzino pretese. Comunque se i Fratelli Musulmani ottenessero la maggioranza avrebbero tra i propri obiettivi anche il bene della minoranza».
Esiste una spaccatura tra la vecchia e la nuova generazione dei Fratelli Musulmani? Questi ultimi, per esempio, saranno in piazza...
«La differenza di opinioni è stata enfatizzata dai media. E comunque solo una decina di giovani sono fuoriusciti. Faranno un partito loro, ma non funzionerà».
Qual è il suo bilancio della rivoluzione?
«Il risultato più positivo è che per la prima volta un popolo ha consegnato il proprio dittatore a un tribunale normale. L’aspetto negativo è il caos di queste settimane, ma andava messo in conto: ogni rivoluzione ha dei nemici. I principali problemi oggi sono la resistenza di pezzi dell’ex regime e del Ndp, il partito di Mubarak, le divergenze tra la corrente islamica e i laici che non condividono la visione del futuro e le mille realtà dei giovani di piazza Tahrir. A creare confusione poi ci sono i “baltagy”, 250 mila persone secondo il ministero della Giustizia pagate 5mila pound (500 euro) ad azione. Ma con il nuovo Parlamento tutto si aggiusterà».
Fino a ieri l’esercito era il nemico numero 1 dei Fratelli Musulmani. Cos’è cambiato?
«I Fratelli Musulmani rispettano l’esercito egiziano perché è stato a fianco del popolo durante la rivoluzione: l’esempio libico e siriano ci suggerisce cosa sarebbe accaduto in caso contrario. Comunque nessuno vuole i militari al potere dopo le elezioni».
L’altra novità è l’avvicinamento tra i Fratelli Musulmani e Washington. Suona strano, non è così?
«È normale che gli Usa cerchino il dialogo con i Fratelli Musulmani che sono al momento il potere politico più strutturato d’Egitto. Non ci vedo nulla di male, purché i contatti avvengano alla luce del sole».
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