Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 06/07/2011, a pag. I, l'articolo di Daniele Raineri e Luigi De Biase dal titolo " Citofonare bin Laden ". Dalla STAMPA, a pag. 16, l'articolo di Paolo Mastrolilli dal titolo " La Cia: Shahzad ucciso dai servizi pachistani ".
Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - Daniele Raineri, Luigi De Biase : " Citofonare bin Laden "


Daniele Raineri, Luigi De Biase
“E quando sembrava che la notizia proprio non potesse essere migliore di così… è diventata ancora meglio! Osama bin Laden è stato ucciso nella città pachistana di Abbottabad. Cosa? Abbottabad? Ma vi rendete conto? Abbottabad è esattamente il nome di fantasia che qualsiasi newyorchese avrebbe scelto come luogo dove avrebbe voluto sorprendere Osama bin Laden. Sai che c’è? Ti dico io come risolverei la situazione! Dammi un fucile, paracadutami su Abbottabad e gli faccio vedere io che Abbottabingo!”.
Jon Stewart, The Daily Show, 2 maggio 2011
“I servizi segreti del Pakistan annunciano la loro completa collaborazione con le forze degli Stati Uniti per l’imminente raid top secret di droni contro al Qaida domani alle 5:23 am sulla piccola città di Ramzani nel Waziristan del nord”.
Titolo del quotidiano satirico The Onion, 9 giugno 2011
Ad Abbottabad la presenza di militari dappertutto – militari davanti, militari dietro e militari sui lati – rende l’autista pachistano nervosissimo. Gulam Hussein – ma lui si fa chiamare GH, gi-eich – non è di queste parti, di questa città dove due mesi fa i Navy Seal della marina americana hanno ucciso nella sua camera da letto il capo di al Qaida, Osama bin Laden. GH viene dalle montagne e qui si orienta a malapena, ma una cosa la capisce benissimo: i circuiti sono sovraccarichi, meglio non fare scemenze. “Meglio se non chiediamo più indicazioni alla gente sir”; “Mettere via la fotocamera sir”. All’ennesimo posto di blocco dei militari, quando gli si chiede di fare un’elegante inversione a U con l’automobile e di provare a reimmettersi con nonchalance nel traffico cittadino, si pianta rumorosamente contro il marciapiede. Da sopra gli stalli di cemento, i soldati guardano perplessi. Gi-eich è gigantesco ma rimpicciolisce, stringe il volante tra le nocche con uno sguardo disperato, disincaglia la macchina e non scende nemmeno a controllare i danni. A sinistra, oltre a un prato e a una fila di alberi che ne nasconde la vista, biancheggia la macchia di cemento della casa in cui viveva l’ex uomo più ricercato da Washington.
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Abbottabad sonnecchia nel Pakistan del nord, lungo la strada che porta alle cime dell’Hindu Kush. E’ una città di soldati e montagne, e due scritte enormi sulle colline orientali ricordano se ce ne fosse bisogno che questa è la terra di Balochi e Pifferai, due reparti militari conosciuti in tutto il paese. Le caserme, i magazzini e i campi da tiro sono ovunque, ma Abbottabad non ha l’aspetto marziale delle fortezze: la gente del posto preferisce parlare di scuole e campi da golf – le insegne delle strutture private che preparano agli esami per le facoltà di medicina e ingegneria sono ovunque nei bazaar – e consiglia agli stranieri di vedere la casa del colonnello Abbot, l’ufficiale che, alla fine dell’Ottocento, portò la legge britannica in questa provincia bellicosa. La dimora di Abbot è una specie di ossessione per il Pakistan, appena si pronuncia la parola magica, “Ab-tahbad”, qualcuno attacca con la storia del museo. “Volete andare a vedere i reperti?”, domanda il proprietario di un albergo a Islamabad quando gli viene chiesto di organizzare un viaggio in città. “Scommetto che siete venuti per quello”, dice un garzone mentre cerca due bottiglie d’acqua nel fondo di un freezer. Ma il museo chiude verso mezzogiorno, i vecchi che prendono fresco seduti sotto il suo portico azzurrino non sembrano avvezzi alle visite e gli stranieri che s’avventurano sin qui sono attratdi Daniele Raineri e Luigi De Biase ti da una casa diversa, poco distante ma ben più famosa: quella in cui i Navy Seal hanno trovato Osama bin Laden.
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Bin Laden ha passato i suoi ultimi giorni in un quartiere di contadini alla periferia della città. Per arrivare servono pazienza e fortuna: le strade sono strette e coperte di ghiaia, i soldati sono ovunque e chi vive qui non vuole seccature. Nei giorni immediatamente successivi all’operazione Geronimo, diversi giornalisti hanno raggiunto questo villaggio con il permesso di effettuare riprese e interviste. Oggi la polizia sorveglia l’area in modo militare e deve avere anche istruito i cittadini della zona, perché non c’è modo di avere informazioni sul “compound”. Non bisogna essere sorpresi: il raid dei Seal ha messo in evidenza tutti i limiti dell’esercito pachistano, una macchina dotata di armi nucleari che non riesce neanche a impedire un attacco sul proprio territorio. E’ naturale che ora ci sia un po’ di tensione nella zona. Se si chiede a un passante di indicare il luogo in cui viveva Bin Laden, non si ottiene altro che un cenno del capo, oppure uno sguardo che significa più o meno: “Me lo state chiedendo davvero o è una candid camera?”. La casa è in una zona tranquilla della città. L’unica voce che si sente nell’aria è quella dei bambini in uniforme azzurra che escono di corsa della scuola Montessori (“Metodo di apprendimento intelligente”, dice una bella scritta colorata all’ingresso dell’edificio). Nei campi ci sono decine di persone, soprattutto donne, chine a raccogliere insalata. Altre in piedi che osservano il lavoro, e tre ragazzi fermi accanto a un carretto cercano clienti per la frutta dei loro orti. Le case hanno al massimo due piani, sono bianche e protette da recinzioni basse. L’autista dice che non ci sono ricchi da queste parti, ma sembra di essere nel quartiere più sicuro di tutto l’oriente, pare che qui non accada nulla da almeno cent’anni. Mettere un piede fuori dal taxi, tuttavia, sarebbe un errore senza rimedio. A pochi metri dalla scuola Montessori, nascosto dietro un albero, un soldato tiene gli occhi sui passanti e le mani sul fucile automatico. Più avanti altri militari stanno all’ombra sotto una tenda e hanno l’aria di quelli abituati a chiedere i documenti solo dopo avere aperto il fuoco. Dal loro accampamento parte un sentiero che raggiunge un insediamento lontano un centinaio di passi: si trova lì, guardato a vista da decine di uomini armati, l’ultimo rifugio di Osama.
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Lungo la main road che taglia in due la città si capisce che quel “oh che spiacevole sorpresa, non avremmo mai immaginato che Osama fosse nostro ospite”, è una balla immensa. La casa non è soltanto a cinquecento metri dall’Accademia militare di Kakul, da dove, dice Jon Stewart al Daily Show, i soldati avrebbero potuto prendere Bin Laden con un grosso magnete, come nei cartoni”, ma è incastonata tra terreni militari, anzi, è stata costruita essa stessa su terreni dell’esercito venduti a privati – ma l’atto del passaggio di proprietà, misteriosamente, non salta ancora fuori. E’ posata su un fondovalle ed è chiusa, assieme ad altre poche case con orti, da caserme davanti e dietro. Dalla grande insegna dell’Accademia, con un carro armato verniciato in verdenero mimetico e i fiori al bivio con il viottolo che conduce a casa Bin Laden – così stretta che può passare un veicolo alla volta – non c’è più di un minuto d’auto. Da quel punto, già è visibile il posto di blocco con le barriere di cemento e il casotto in vetro antiproiettile che protegge l’ingresso all’Accademia. Gran sobbalzo quando ci si ferma per raccapezzarsi tra tutte le installazioni militari: dietro il muro che costeggia la strada c’è il poligono di tiro per i cadetti, scariche di fucile una dietro l’altra, ma i passanti non ci fanno caso. Il controllo in città è asfissiante. Se si prova a fare una foto all’insegna all’Abbottabad Golf Club, poco dietro e riservato ovviamente ai militari, escono i soldati dal cancello e dicono di no. Se si prova, un chilometro più indietro, a scattare una foto alla chiesa cristiana di San Luca, protetta da un muro di cinta in pietra, un uomo con kalashnikov seduto su una sedia di plastica accanto al cancello chiuso fa di nuovo segno di no. La città respinge i curiosi. A meno che, naturalmente, non arrivino con gli elicotteri.
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Il ristorante al Zar gode di fama indiscussa in città. La cucina si trova all’ingresso, cosicché i clienti, passando per strada, possano vedere il lavoro dello chef e decidere se è il caso di fermarsi o di tirare dritto sino alla prossima mensa. Nessun uomo cresciuto in Europa rimane indifferente di fronte a questo spettacolo, e non è soltanto per il numero di mosche che s’aggirano fra scodelle unte di grasso e piatti ammucchiati in terra – gli stessi che, presumibilmente, finiranno sui tavoli dei clienti. Due forzuti prendono polli spennati dai ganci alla loro sinistra e li immergono in un liquido giallo. Poi separano la polpa dalle ossa, la tagliano a pezzi e la friggono nella tikka, una tazza di terracotta colorata. Avviene più o meno lo stesso con il montone, ma questa volta il cuciniere arrotola palle di carne nelle spezie piccanti, le infilza nello spiedo e le lascia sulla braci per qualche minuto. C’è anche una variante agli spinaci che si chiama palak. Prima di sedere a tavola, i clienti si puliscono in un lavandino posto accanto alla cassa. Il cameriere fa gli onori di casa con un piatto di verdura fresca e una scodella di yogurt, mentre un ragazzo sale le scale con una pila di pane caldo. Fra i tavoli di al Zar ci sono mercanti, studenti e poliziotti in divisa. Quando una donna entra con i tre figli e chiede un tavolo per sé e per i pargoli, un cameriere la guida lontano dalla finestra e tira una tenda fra la famigliola e il resto dei clienti. Il ristorante si trova all’ingresso del gran bazaar, sul lato della moschea Jamia, le cui cupole spuntano all’improvviso fra le case basse del quartiere. Al momento della preghiera il mercato è quasi deserto e i pochi garzoni rimasti fra i banchi di carne e di frutta hanno sguardi per nulla ospitali contro i passanti: gli stranieri, da queste parti, hanno portato soltanto problemi.
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La letteratura sui servizi segreti dell’esercito pachistano e sul loro doppio gioco con l’America da una parte e i terroristi di al Qaida e i talebani dall’altra è ormai alta parecchi volumi. Uno dei primi capitoli riguarda proprio il nascondiglio di Osama. L’ex capo dell’intelligence afghana, Amrullah Saleh, già nel 2004 parlava chiaro. Il capo di al Qaida non si nasconde nelle aree tribali di confine, ma è sceso più in profondità dentro il Pakistan. Grazie a centinaia di contatti e interrogatori, Saleh sosteneva con cinque anni di anticipo che il nascondiglio di Osama fosse nella città di Mansehra: 27 chilometri a nord di Abbottabad, dove poi effettivamente è stato trovato. Uno degli ultimi capitoli è una storia di fuga di notizie: gli americani hanno avvisato i colleghi pachistani di essere sul punto di arrivare ad alcune fabbriche di bombe dei terroristi, ma questi, avvisati, sono riusciti in almeno quattro occasioni a dileguarsi prima. Il capitolo di ieri riguarda il giornalista pachistano Syed Saleem Shahzad, ucciso il mese scorso a Islamabad: secondo il New York Times, che ha contatti nell’intelligence americana, Shahzad è stato assassinato dai servizi pachistani. Lo scoop è l’ennesimo colpo americano alla credibilità del suo alleato nel sud dell’Asia.
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Se si parte dalla capitale Islamabad, venti minuti dopo aver lasciato il centro in direzione di Abbottabad e quindi di Bin Laden, a destra c’è convenientemente l’uscita autostradale per il quartiere residenziale di Golra Sharif. Dietro i muri bianchi e anonimi che rendono la sua villa una copia quasi uguale del rifugio del capo di al Qaida – del resto il modello architettonico ha retto per cinque anni, perché cambiarlo? – vive un altro dei grandi capi del terrorismo, amico fedele di Osama. Fazlur Rehman Khalil è considerato un po’ una riserva della Repubblica dal Pakistan, anche se ha una lista di peccati lunga chilometri, non ultima la conferenza stampa in cui annunciò nel 1998 “per ognuno dei nostri che morirà, ammazzeremo cento americani”, e poi tirò fuori il grande classico delle minacce guerrasantiere ispirate al Corano: “non troveranno nemmeno un albero dietro a cui nascondersi”. Funziona così: ogni volta che il governo ha un problema con gli estremisti di casa, gli agenti vanno a prendere FRK dalla sua villa e lo portano a mediare, perché nella sua lunga carriera di capo dell’Harkat ul Mujaheddin è diventato un archivio vivente, e un venerato maestro, della violenza pachistana e non. Durante la crisi della Moschea rossa nel luglio 2007, quando a due passi dai palazzi che contano un’intera moschea con i suoi occupanti armi in pugno annunciò battaglia al resto del paese, fu chiamato lui. Quando nell’ottobre 2009 una squadra di al Qaida penetrò nel quartier generale dell’esercito della città guarnigione di Rawalpindi, il luogo in teoria più sicuro del paese – tenerne conto, quando si parla di nucleare e Pakistan – fu caricato su un volo speciale dell’esercito per farlo arrivare prima possibile a trattare con i terroristi. In entrambi i casi il carismatico FKR non è stato molto d’aiuto, è finita in strage, ma si sa che quando questo tipo di missioni vengono lanciate non si può più essere richiamati indietro. Una settimana fa il New York Times ha fatto lo scoop: gli analisti della Cia che stanno frugando nella mole di materiale presa dai Navy Seal la notte dell’incursione a casa Bin Laden hanno trovato su uno dei telefonini dei suoi corrieri i numeri degli uomini di FKR. Ricapitolando: un terrorista e amico di Osama che vive ancora adesso in un compound sotto la protezione innegabile dei servizi segreti pachistani era in fresco collegamento telefonico con i corrieri di Osama, che vivevano anch’essi nascosti in un altro compound. Non è ancora la pistola fumante che collega direttamente i servizi segreti pachistani a Bin Laden, ma poco ci manca. A destra, oltre il ciglio dell’autostrada e i venditori di cocomeri: sembra una villa di città uguale a mille altre, ma è una montagna di guai alta come l’Hindu Kush in attesa di franare.
La STAMPA - Paolo Mastrolilli : " La Cia: Shahzad ucciso dai servizi pachistani"

Syed Saleem Shahzad
Altro che Al Qaeda, o la vendetta del sottobosco estremista: Saleem Shahzad, 40 anni, collaboratore pachistano de «La Stampa», lo hanno ammazzato i servizi segreti di Islamabad. Che poi è difficile capire la differenza, visto che le prove di collusione tra certi apparati del governo e i terroristi continuano a montare. La denuncia viene dall'intelligence americana, che l'ha passata al New York Times, e promette di complicare le relazioni già difficili tra Stati Uniti e Pakistan.
Il 29 maggio scorso, circa un mese dopo il raid che aveva eliminato Osama bin Laden, Saleem era sparito davanti alla sua casa di Islamabad. Qualche giorno dopo il suo cadavere era stato ritrovato in un canale, a circa sessanta miglia dalla capitale. Secondo il dottore Mohammed Farrukh Kamal, uno dei tre autori dell'autopsia, aveva 17 ferite provocate da un corpo contundente, il fegato spappolato e due costole rotte. Una tortura, prima che un omicidio.
In un paese dove dall'11 settembre 2001 ad oggi sono stati ammazzati 37 giornalisti, secondo le statistiche del Committee to Protect Journalists, i sospetti si erano subito concentrati sul Directorate for Inter-Services Intelligence, ossia il potentissimo e famigerato Isi. Nulla si muove in Pakistan senza il volere di questo servizio segreto, accusato tra l'altro di aver sostenuto i taleban per fare i propri interessi in Afghanistan e nella regione.
Un portavoce dell'Isi, però, aveva seccamente smentito: «Queste accuse sono totalmente infondate. La morte di Saleem Shahzad è stata una tragedia, e non andrebbe usata per colpire e malignare contro l'agenzia di sicurezza del nostro paese».
La Cia non si è accontentata di questa risposta. Ha indagato, ha raccolto prove e documenti classificati, ed è arrivata alla conclusione che l'uccisione del nostro collaboratore è stata ordinata proprio dall'Isi, per tappargli la bocca: «Un atto barbarico e inaccettabile. Tutti gli indizi - ha dichiarato la fonte dell'intelligence Usa al New York Times - dimostrano che si è trattato di un omicidio premeditato. Lo scopo era scioccare la comunità pachistana dei giornalisti e la società civile».
Cosa aveva fatto Saleem per meritare tanto? L'ultimo sgarbo in ordine di tempo lo aveva commesso pochi giorni prima del suo rapimento, quando aveva rivelato in un articolo che Al Qaeda era responsabile dell'attacco di sedici ore lanciato il 22 maggio contro la base navale pachistana di Karachi. Il problema, per gli apparati di sicurezza, era che aveva svelato anche le profonde connessioni esistenti tra i militari e i terroristi. L'attacco, infatti, era la rappresaglia per l'arresto avvenuto pochi giorni prima di dieci marinai, che appartenevano ad una cellula di Al Qaeda. Un rappresentante del gruppo terroristico, Abdul Samad Mansoor, aveva negoziato a lungo con la Marina per ottenere il loro rilascio: quando aveva ricevuto risposta negativa, aveva ordinato l'attacco, guidato da elementi interni alla base.
Saleem sapeva di essere minacciato anche prima di questo ultimo scoop, e ce lo aveva detto in varie occasioni. Pochi mesi fa aveva mandato una mail ad Ali Dayan Hasan, capo di Human Rights Watch in Pakistan, chiedendogli di rivelarne il contenuto se gli fosse accaduto qualcosa. Il messaggio parlava di un incontro avvenuto il 17 ottobre scorso nella sede dell'Isi, in cui aveva ricevuto minacce aperte. L'ammiraglio Adnan Nazir gli aveva detto che era stato appena arrestato un terrorista con una lista di complici: Se ci trovo il tuo nome, certamente te lo farò sapere.
Nei prossimi giorni l'amministrazione Obama deciderà come informare il governo pachistano delle prove trovate contro l'Isi. Inutile continuare a chiedersi perché, la notte del raid contro bin Laden, Washington non avvertì Islamabad.
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