Due articoli di Carlo Panella su Gheddafi, la 3a e ultima parte della biografia dal FOGLIO, e da LIBERO l'analisi della sentenza della Corte internazionale.

Libero-Carlo Panella: " Mandato d'arresto per Gheddafi. Ora che è finito "

Perché la Corte Penale Internazionale haemesso unordine d’arresto per il Colonnello Muammar Gheddafi (oltre al figlio Seif al-Islam e al capo dell'intelligence Abdullah al-Sanoussi) e non ha neanche iniziato l’istruttoria a carico del siriano Bashar al Assad che ha ucciso il triplo dei suoi concittadini, rispetto a quelli che il raìs libico ha ucciso prima dell’inizio della guerra? La risposta è semplice: perché la Cpi è una istituzione bislacca, che funziona male, che nonpuò chefunzionare maleed è illusorio pensare che possa mai funzionare bene. La Cpi non ha mai colpito un potente, un dittatore nel pieno dei suoi poteri ma ha sempre perseguito, a volte anche giudicato e condannato chi aveva già perso, o che era sul punto di perdere, come oggi il Colonnello di Tripoli. Così è stato per Slobodan Milosevice per i boia serbi e croati, così per il Ruanda. L’uni - ca eccezione conferma la regola: due anni fa la Cpi ha emesso un ordine di cattura internazionale per il dittatore sudanese Omar al Beshir, responsabile di alcune decine di migliaia di morti nel Darfur. Bene: da allora Omar al Beshir se ne gira liberamente e impunemente per tutti i Paesi islamici che gli hanno espresso indignata solidarietà, per una ragione solidissima: è ben saldo al potere. Ma non basta: è stranoto che la Cpi ha terminato non da mesi, ma da anni l’istruttoria a carico dei responsabili dell’omicidio di Rafik Hariri, ucciso in un attentato a Beirut il 14 febbraio 2005 (sei anni fa!). Ma i mandati di cattura non vengono emessi per una sola ragione, vergognosa: colpiscono la massima dirigenza di Hezbollah e parenti stretti di Bashar al Assad. Ma Hezbollah oggi controlla il nuovo governo di Beirut e il dittatore siriano mette a ferro e fuoco le città siriana, saldo al potere. A dimostrazione di quanto sia scandalosa e vergognosa questa omissione d’atti della Cpi, si pensi che il figlio di Rafik Hariri, Saad Hariri, anche lui expremierlibanese, è costretto a vivere oggi tra Parigi e Ryad nella certezza che se tornasse a Beirut verrebbe ammazzato dagli stessi assassini libanesi e siriani del padre. Dunque, una giustizia sghemba e opportunista, ma comunque meglio che niente, perché con le condanne dei macellai bosniaci, serbi e croati, così come dei macellai ruandesi, la Cpi e le altre strutture internazionali di giustizia hanno almeno consolidato un messaggio chiaro: i macellai dei popoli non hanno garantita l’immunità. Non è molto, maè già abbastanza, a patto però che non si pensi che si possa fare di più, che si possa un giorno arrivare a sostituire le guerre con dei semplici mandati di cattura della giustizia internazionale, utopia spesso accarezzata dall’ottimo Marco Pannella e dai radicali. Ma non esisterà mai un governo mondiale, investito di una sovranità riconosciuta anche solo dai popoli dei paesi democratici. Le vicende dell’Ue sono definitive. Non c’è nulla da fare. Anche su questo terreno, l’unica strada realisticamente percorribile è quella della “riduzione del male”. Infine, lasciatecelo dire, proviamo vergogna nel leggere che gli evviva e gli hurrà del segretario della Nato Rasmussen e dei leader impegnati nella guerra di Libia per questo atto di giustizia, accompagnano la notizia che la Nato ha centrato con due missili il van blindato del raìs. Questa non è giustizia, è caccia al cinghiale, è tentato omicidio, sia pure del tiranno. Che la Nato almeno abbia il coraggio di ammetterlo, e che la smetta con queste manfrine sulla guerra umanitaria. Anche perché, lo ripetiamo, la vera emergenza umanitaria oggi è in Siria, ma la Nato, l’Ue, l’Onu e la Cpi non se ne occupano, né se ne preoccupano, se non a parole.
Il Foglio-Carlo Panella: " Alle spalle di Gheddafi "

La strage di Lockerbie, nel 1988, due anni dopo la vendita delle quote libiche in Fiat, segnò l’apogeo della strategia destabilizzante del colonnello libico Muammar Gheddafi, mostrandone il volto più feroce, al limite della paranoia. Il 21 dicembre del 1988 una bomba esplose su un Boeing 747-121 della Pan Am in volo sulla cittadina scozzese di Lockerbie, dilaniando i 259 passeggeri, i membri dell’equipaggio e undici abitanti rimasti schiacciati dal relitto precipitato al suolo. Le indagini di Scotland Yard portarono dritte a due agenti di Gheddafi, Abdelbaset Ali Mohamed al Megrahi e al Amin Khalifa Fhimah. Gheddafi si rifiutò di consegnare i due sospettati e la Libia dovette subire le dure sanzioni economiche deliberate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu (inclusa la chiusura totale dello spazio aereo libico). Il rais resistette alla risoluzione delle Nazioni Unite numero 748, del 15 aprile 1992, sino a quando, a fronte delle gravissime conseguenze sull’economia del paese, cedette e consegnò, nel 1999, i due terroristi al tribunale scozzese (che si riuniva per ragioni di sicurezza a Camp Zeist, in Olanda): il 24 gennaio 2001 al Megrahi fu condannato all’ergastolo, Fhimah fu prosciolto. Subito dopo, il governo di Massimo D’Alema fu il primo a correre a Tripoli per portare a frutto la normalizzazione seguita alla revoca delle sanzioni Onu: il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Marco Minniti, fu il primo membro di un governo occidentale a incontrare Muammar Gheddafi, a Tripoli, il 30 agosto del 1999, avviando intense relazioni bilaterali che portarono alla definizione di una “bozza” di trattato tra i due paesi. Nei mesi successivi, D’Alema fu il primo premier occidentale a stringere la mano a Gheddafi e Romano Prodi – con eccessivo entusiasmo – fece balenare ufficiosamente la prospettiva di un invito del rais a Bruxelles, ospite della Commissione, eventualità subito accantonata a causa delle polemiche. Lo scopo dell’intensa attività diplomatica avviata da D’Alema, ripresa con impegno ancora maggiore nel biennio 2006-2008 in cui fu ministro degli Esteri, era naturalmente quello di favorire i contratti energetici – peraltro mai cessati – con l’Eni in una solida posizione privilegiata in Cirenaica, in Tripolitania e nel Fuezzan. D’Alema però voleva arrivare soprattutto a un trattato italo-libico che definisse il contenzioso aperto da Gheddafi con Roma, per rimborsare i danni del nostro passato coloniale. Risulta, a chi scrive, che D’Alema vide la firma del trattato sfumare tra le sue mani a causa del suo carattere troppo sussiegoso: Gheddafi si irritò per alcune sue frasi puntute – che comprese perfettamente ben prima che l’interprete le traducesse – e quindi si alzò, voltò le spalle, lo piantò in asso mentre ancora parlava da dentro la sua solita tenda, a Tripoli. Sul piano interno Gheddafi, che sin dal 1979 aveva abbandonato formalmente ogni carica pubblica o istituzionale – era la guida della rivoluzione –, nei primi anni Novanta affrontò e represse un’insurrezione fondamentalista sulla “montagna verde”. Nell’agosto 1993 allontanò bruscamente dal potere il suo braccio destro Abdessalam Jallud, sospettato di avere tramato l’ennesimo complotto militare di generali dell’aviazione per eliminare il rais. Questa svolta segnò l’inizio di un lento sgretolamento della politica di mediazione tra le varie tribù libiche, vero baricentro del potere nel paese. Alti esponenti della confederazione tribale dei Warfalla (la più grande del paese) furono costretti a dimettersi dai vertici militari. Con l’arresto di Jallud, la tribù dei Magharia – il cui ex braccio destro era il più potente esponente nel regime – fu esclusa dal potere. La successiva visita a Roma di Gheddafi, alla fine dell’agosto del 2010, sembrò segnare l’apogeo della traiettoria dell’ormai anziano colonnello – anche a causa di una eccessiva indulgenza della Farnesina nell’assecondare lo spirito di un rais ormai incline a uno stile apertamente pop. Non fu così: allo straordinario rafforzamento sul piano internazionale, o forse proprio a causa della distorsione di eccessivi fondi per gli investimenti esteri (a discapito di quelle generose spese per il welfare che erano sempre servite a “comprare” l’assenso delle tribù), è seguito un improvviso, verticale sgretolamento del potere e del consenso interno. A favorirlo c’erano le incertezze di una successione ormai imminente al vecchio patriarca e le tensioni fra i suoi figli: Saif al Islam, favorevole a una via “riformista” e dialogante è stato più e più volte sconfitto dal fratello Khamis, capo delle forze armate che ancora difendono il rais. I gerarchi della Cirenaica che Gheddafi aveva cooptato nel governo durante l’ultimo decennio hanno approfittato del contagio della “rivolta dei gelsomini”, che già aveva abbattuto i regimi della Tunisia e dell’Egitto, per organizzare un putsch. Il primo riuscito – quasi – contro il colonnello. E’ questa una storia poco nota, anche a causa dell’informazione distorta e zeppa di retorica insufflata dai media arabi – in primis da al Jazeera, il cui proprietario, l’emiro del Qatar, ha subito stipulato un vantaggioso contratto petrolifero col governo ribelle di Bengasi. I fatti, però, sono noti e riscontrabili: a fine gennaio Gheddafi dà disposizione al ministro degli Esteri, Musa Kusa, che per anni aveva diretto i servizi segreti libici, di formare una “Unità di crisi” che monitorasse la situazione, soprattutto in Cirenaica e a Bengasi, per evitare il contagio della rivolta araba, peraltro sollecitato dai generali egiziani che ormai controllavano il potere al Cairo. La prima riunione dell’“Unità di crisi”, il cui responsabile militare è il ministro dell’Interno e della Sicurezza, Abdel Fattah Younis al Obeidi, e a cui partecipa anche il ministro dell’Economia, Mohammed al Hwueji, si tiene a Bengasi il 3 febbraio 2011. Il 17 febbraio le manifestazioni per il quinto anniversario della strage del 2006 segnalano la piena ripresa del movimento secessionista in Cirenaica. Fattah Younis al Obeidi si reca a Bengasi assieme a 1.500 uomini delle unità speciali (Saiqa) delle forze di sicurezza comandate dal generale Abdallah Saniussi. Ne risulteranno violenti combattimenti nelle strade. Il 19 febbraio Saadi Gheddafi, il calciatore, che si era recato nella città con la pretesa di proclamarsi sindaco, è costretto dalla furia dei manifestanti a una precipitosa fuga in elicottero, mentre le Saiqa del generale Saniussi ripiegano sotto il fuoco di reparti dell’esercito che sono passati dalla parte della rivolta. Il 21 febbraio, arriva da Tripoli la notizia del “rapimento del generale Abdel Fattah al Obeidi da parte dei ribelli”. Passano soltanto cinque giorni e la verità emerge: il 24 febbraio il ministro della Giustizia, Mustafa Abdel Jalil, che si era recato a Badia per sedare la rivolta – godeva della piena fiducia di Gheddafi, era stato denunciato più volte da Amnesty International per le sue responsabilità nelle torture e nelle esecuzioni sommarie – riunisce per la prima volta il Consiglio nazionale di transizione. Il 27 febbraio, arrivato a Bengasi, Jalil proclama la nascita di un Consiglio nazionale transitorio dei ribelli: comandante militare è Fattah Younis al Obeidi. La sera stessa, a testimonianza della connivenza nelle nefandezze del regime, alcuni rivoltosi hanno dato alle fiamme la sua lussuosa villa di Bengasi. La successione degli avvenimenti, la rapidità più che sospetta con cui i ribelli hanno formato un governo provvisorio – soltanto sette giorni dall’inizio delle manifestazioni popolari, con una cinquantina di morti nelle strade – e soprattutto la misteriosa contemporaneità delle defezioni dei futuri membri del Consiglio nazionale transitorio non danno adito a dubbi: è stato, se non un golpe, un “pronunciamento” concordato e coordinato da tempo. Basta ricordare che nell’arco di poche ore hanno dichiarato la secessione non soltanto Jalil e al Obeidi, ma anche il governatore della Banca centrale di Tripoli, Farhat Omar Bengdara, e l’ambasciatore libico all’Onu Ibrahim Dabbashi. La vicenda tragicomica del commando delle Forze speciali inglesi, arrestato dagli stessi ribelli i primi giorni di marzo 2011, fa intuire un “interessamento” di Londra nell’operazione in corso già da tempo. Un interessamento confermato dalla successiva “fuga” a Londra del ministro degli Esteri Musa Kusa (responsabile della Unità di crisi contro la ribellione), una volta falliti i suoi tentativi di convincere il rais, in raccordo con l’Italia, a una mediazione col Cnt di Bengasi. Nonostante sia stato responsabile dei servizi segreti per anni, e sicuramente compromesso con molti atti di terrorismo (probabilmente anche dell’attentato di Lockerbie), Musa Kusa non è stato perseguito dalla giustizia inglese. Anzi, ora ha piena libertà d’azione e di movimento sul suolo britannico. Vi è stato dunque un fondamentale “pronunciamento”, maturato nella prima fila dei collaboratori di Gheddafi, progettato a freddo, che ha tentato di capitalizzare sulla rivolta popolare sin dalla sua fase iniziale, contando che buona parte delle tribù avrebbe subito abbandonato Gheddafi. Il calcolo, come si è visto, è risultato errato. Anche la forza militare del Cnt si è rivelata, alla prova dei fatti, inesistente. Sulla scena internazionale, invece, il calcolo è stato perfetto: grazie alla fretta avventurosa di Parigi e Londra, il Cnt è riuscito a schierare dalla sua parte addirittura l’Onu e la Nato. Rimane un grande problema irrisolto: Gheddafi continua a controllare larga parte della Tripolitania, dopo più di cento giorni di guerra e ben 10 mila missioni Nato, molte delle quali mirate alla sua eliminazione.
(3. Fine. Le puntate precedenti sono state pubblicate martedì 21 e giovedì 23 giugno)
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