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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-Il Manifesto Rassegna Stampa
25.06.2011 Siria, in fuga verso la Turchia
Ma per Michele Giorgio Assad 'ha risposto in modo troppo limitato'

Testata:Il Foglio-Il Manifesto
Autore: La redazione del Foglio-Michele Giorgio
Titolo: «Damasco spara sulle proteste, Ankara rinvia lo scontro (per ora)-Se la rivolta diventa etnica e religiosa»

Continuano i massacri in Siria, come riportanto ampiamente quasi tutti i giornali, oggi 25/06/2011. Fa eccezione l'analisi del MANIFESTO, a pag.9, con il titolo "Se la rivolta diventa etnica e religiosa ", nella quale Michele Giorgio, abbellisce le stradi di Assad, riprendendo fin dall'inizio la bufala della blogger lesbica a Damasco, non si capisce perchè citare una notizia già da archivio, una perla è la frase " il presidente Bashar Assad ha risposto in modo troppo limitato alla giusta richiesta dei siriani di libertà e diritti " un modo troppo limitato ? che delicatezza, caro Giorgio, certo che averne tessuto per anni le lodi è un po' dura parlarne male oggi. Meno male che a fine articolo anche Giorgio riconosce che i Fratelli Musulmani sono un pericolo. Ma non era il cattivo Mubarak che li perseguitava ? Ah, questi comunisti sopravvissuti alle lezioni della storia, chissà quale funzione credono ancora di rappresentare.
Ecco gli articoli, il primo dal FOGLIO di oggi, 25/06/2011, a pag.3, seguito dal MANIFESTO, a pag.8. 

Il Foglio-" Damasco spara sulle proteste, Ankara rinvia lo scontro (per ora) "


In fuga al confine fra Siria e Turchia

 Roma. “Ratti di tutto il mondo unitevi!”: con questo striscione, irrisoria citazione delle maledizioni lanciate dal colonnello Gheddafi contro i rivoltosi libici, primo segnale di creatività e ironia in tutta la rivolta araba, ieri un corteo di 15 mila persone ha occupato l’autostrada che collega Damasco ad Aleppo; durante il percorso sono state bruciate bandiere iraniane, russe (a causa dell’appoggio che Mosca continua a dare al regime siriano) e di Hezbollah. Tra gli slogan più sentiti: “Urlate al mondo che Bashar è privo di legittimità”, “Il popolo vuole la caduta del regime”, “Bashar non è più il mio presidente”. Nel centunesimo giorno della protesta le truppe della Quarta divisione di Maher el Assad hanno sparato a Irbil, Barza, al Qadam, al Ghota e al Shams, quartieri della periferia di Damasco, segno che ormai tutta la cintura della capitale è mobilitata e che il regime riesce a mantenere il controllo solo del centro città, così come accade ad Aleppo (dove però giovedì sono stati arrestati 120 studenti). Cortei con sparatorie anche a Hama, a Latakia e anche a Homs, dove un corteo ha occupato per ore tutta la centrale piazza Assi. Nel complesso sono una ventina le vittime del sedicesimo venerdì della protesta, tra di loro anche Rateb al Orabi, un bambino di 12 anni, colpito dagli agenti nel corso di una protesta a Shammas nella periferia di Homs. Sul piano politico, oltre la conferma della capacità del movimento di resistere alla repressione più dura e alla totale mancanza di presa delle promesse “riformiste” ribadite da Assad, la notizia di maggior rilievo è l’ammutinamento di alcuni reparti del Primo battaglione, che secondo al Arabiya si sono schierati con i manifestanti e si sono scontrati con la polizia che li stava attaccando ad al Kiswah, a sud di Damasco. La notizia è stata smentita dalla televisione di stato, ma – se non certa – è sicuramente attendibile perché ormai da un mese, a iniziare da Daraa, la città che ha dato inizio alla rivolta, si susseguono notizie di diserzioni, di passaggio di campo soprattutto di soldati sunniti, a fianco dei dimostranti e di loro scontri a fuoco con i lealisti. Queste defezioni sono state confermate anche dalla testimonianza video del colonnello Hossein Harmouch dell’Undicesima divisione, profugo in Turchia assieme agli sfollati di Jisr al Shughur, difesi dal suo battaglione ribelle dalla razzia di Maher el Assad in uno scontro a fuoco in cui sono morti 120 militari dalle due parti (sepolti poi dalle truppe del regime in fosse comuni senza testa e senza documenti per impedirne l’identificazione). Si è un po’ stemperata la tensione tra Turchia e Siria, dopo che giovedì il governo di Ankara aveva reagito con proteste informali all’avvicinarsi minaccioso di carri armati e truppe siriane a ridosso del confine presso la cittadina turca di Giuvecci. Dopo aver convocato d’urgenza nella notte l’ambasciatore siriano ad Ankara e dopo un concitato colloquio col suo omologo siriano Moallem, il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davoutoglu, ieri ha proclamato una posizione di prudente attesa: “Speriamo che la Siria riesca a rinnovarsi in una maniera tranquilla e che esca da questa situazione ancora più forte: noi faremo tutto il possibile per assisterla nell’attuazione di riforme che la rinnovino nella stabilità rendendola più forte”. Queste parole sono ben più attendiste di quelle pronunciate nei giorni scorsi dal premier Recep Tayyip Erdogan, che aveva definito “assolutamente deludente” il discorso di Assad che prometteva riforme. Ma non bisogna dimenticare che Davutoglu è l’ideatore di una dottrina, ora piuttosto in crisi, basata sul principio “nessun problema con i vicini”: ora si trova a ospitare decine di migliaia di profughi siriani nei campi della Mezzaluna Rossa e ha ben presente che da qui a poco la Turchia – che peraltro è l’unico paese che fornisce ospitalità e aiuti alle organizzazioni dei dissidenti siriani – rischia di trovarsi in conflitto non soltanto con la confinante Siria, ma anche con la Repubblica islamica d’Iran che, attraverso Hezbollah e i pasdaran, gioca un ruolo di prima fila nella repressione della rivolta siriana.

Il Manifesto-Michele Giorgio: " Se la rivolta diventa etnica e religiosa"

 
Fratelli Musulmani                                Assad

Notizie incerte continuano ad arrivare dalla Siria dove ieri, secondo i resoconti fatti da attivisti locali, sarebbero state uccise una quindicina di persone in varie località del paese. Le fonti ufficiali davano un bilancio più basso e attribuivano una parte delle uccisioni al fuoco di «bande armate». La stessa difformità si è registrata riguardo a una spaccatura che sarebbe avvenuta all’interno della prima divisione dell’esercito siriano, prontamente smentita dalla tv di stato. Così come resta un mistero il numero reale dei partecipanti alle proteste e quello dei siriani che, al contrario, prendono parte alle manifestazioni pro-Assad. Da settimane si va avanti così, senza avere la certezza di quanto accade sul terreno, a causa anche del divieto per la stampa estera di accedere al paese. A indurre alla cautela è anche il recente caso della «Ragazza gay aDamasco », Amina Arraf. Per settimane il suo blog, seguitissimo, ha passato news su quanto accade in Siria e descritto le difficoltà di una giovane lesbica nel vivere sotto la dittatura di Assad. Gli attivisti per i diritti civili di tutto il mondo si sono mobilitati quando è giunta la notizia dell’arresto della blogger da parte di «agenti del regime ». Peccato che fosse tutto falso, Amina non èmai esistita e il suo blog era gestito dalla Scozia, da Tom Mc- Master, uno studente americano. Tuttavia in questa nebbia sono visibili in modo abbastanza chiaro alcuni dati. Se la repressione delle proteste è stata sino ad oggi brutale e il presidente Bashar Assad ha risposto in modo troppo limitato alla giusta richiesta dei siriani di libertà e diritti, è allo stesso modo incontestabile che la protesta continua a interessare centri rurali, villaggi e cittadine periferiche, vicine ai confini con Giordania, Libano e Turchia. A oltre tre mesi dall’inizio dei disordini a Deraa, Damasco e Aleppo, la capitale e la seconda città del paese, rimangono sostanzialmente calme. Comincia a essere evidente che alla protesta iniziale contro i servizi di sicurezza e il partito Baath, si sia gradualmente sostituita una rivolta sunnita contro gli alawiti (la setta sciita alla quale appartiene Assad), da decenni al potere con il sostegno determinante delle altreminoranze (cristiani e drusi) e della classe media. Lontani dalla capitale, roccaforte del regime, le aree periferiche a stragrande maggioranza sunnita godono di una maggiore libertà e hanno potuto sollevarsi con più facilità contro il potere locale del partito Baath. A confermare indirettamente come la protesta siriana stia diventando rapidamente anche, se non soprattutto, uno scontro etnico e religioso, sono proprio le notizie di bandiere del movimento sciitaHezbollah e dell’Iran bruciate nelle piazze. Per i media occidentali sono il segno dell’insoddisfazione popolare per la politica estera di Assad. Con più probabilità sono la ribellione dei militanti sunniti verso un’alleanza tra sciiti imposta a un paese che si considera sunnita. È difficile valutare il peso del lavoro svolto dietro le quinte dai Fratelli Musulmani, nemici storici del Baath. Ma le proteste massicce registrate a Homs e Hama (storica roccaforte degli islamisti) indicano che non è più marginale. Quando si parla della «primavera araba» si fa quasi sempre riferimento al ruolo decisivo delle forze liberali e progressiste. Ma sei mesi dopo l’inizio delle rivolte in Tunisia ed Egitto, è ormai chiaro che i Fratelli Musulmani (sunniti) saranno protagonisti del futuro di questi due paesi. Protagonismo che non può non coinvolgere i Fratelli Musulmani siriani, molto popolari anche in Siria, messi davanti alla prospettiva della caduta del tanto odiato Baath e di riconsegnare il paese al sunnismo.

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