Previsioni sempre più buie sul futuro della politica egiziana, dove la speranza che la richiesta di democrazia da parte dei giovani non avrà alcun sbocco.
Sul FOGLIO di oggi, 23/06/2011, a pag.3, una analisi sul movimento dei Fratelli Musulmani.
Riprendiamo poi, con una qualche serenità, il commento preoccupato del MANIFESTO a pag.8, dove Michele Giorgio teme che la nomina di El Orabi a Ministro degli Esteri possa pregiudicare il nuovo ruolo pro-palestinese dell'Egitto post Mubarak. Se è preoccupato il quotidiano di Rocca Cannuccia, allora è buon segno.
Ecco gli articoli:
Il Foglio- " In Egitto i Fratelli musulmani si spaccano.La sfida dei giovani"

Roma. I Fratelli musulmani egiziani sono divisi. L’ultimo segnale è arrivato ieri: una parte della gioventù dell’organizzazione islamica, assieme a membri di altre realtà politiche, ha formato il Partito dell’Egitto di oggi. Nel manifesto è evidente la mancanza di riferimenti alla sharia, un concetto centrale per la vecchia guardia. Non sono soltanto i giovani a disertare: lunedì, Abdel Moneim Abou el Fotouh, uno dei leader della Fratellanza, ha annunciato che si presenterà come indipendente alle prossime elezioni. Ieri è stato “dimesso” dai vertici della Fratellanza. In un’intervista al New York Times, il portavoce di Giustizia e libertà (il partito dei Fratelli musulmani) ha detto che la Fratellanza “non può sostenere nessuno che viola le nostre decisioni”. Daniel Atzori, ricercatore presso la Fondazione Eni Enrico Mattei, sottolinea parlando con il Foglio che già da tempo “la Fratellanza appare divisa nella sua componente riformista, rappresentata dai giovani, e la vecchia guardia, ancora fortemente conservatrice e legata all’ideologia islamica”. Lo scontro, spiega Hussein Mahmoud, docente all’Università di Helwan, “è frutto del vuoto che si è creato, nell’Egitto post Mubarak, intorno al termine islamismo”. Le rivolte egiziane hanno causato un’accelerazione sociale e politica, che ha evidenziato la confusione associata al termine islamista, strattonato dalle più disparate culture politiche. “Fin dagli anni Settanta – continua Atzori – la collocazione del termine islamismo è stata ambigua: l’ex presidente egiziano, Anwar al Sadat, era interprete di un nazionalismo arabo secolare, ma ciò non gli ha mai impedito di mostrare in pubblico lo zebib, il segno che un devoto musulmano porta sulla fronte”. Durante i regimi secolari egiziani, da Nasser a Mubarak, i Fratelli musulmani erano banditi e per costruire una legittimità tra le masse hanno sempre agito come suppletivo allo stato, interessandosi del proletariato e del sottoproletariato urbano, L’8 giugno scorso Giustizia e libertà è stato riconosciuto come un partito legittimo. “Adesso – continua Atzori – non potrà più avvantaggiarsi dello status di organizzazione perseguitata dai regimi secolari imposti dall’occidente, che lotta per i valori islamici puri e deve invece trovare una nuova identità”. Le manifestazioni di piazza Tahrir sono state descritte come post islamiche ma la gioventù dei Fratelli musulmani era in piazza a fianco degli altri manifestanti fin dall’inizio. Sul New York Times, Islam Lofty, un leader della gioventù del movimento islamico, ha spiegato che “molti alla base credono nella democrazia, ma salendo verso le generazioni più anziane se ne trovano sempre meno”. Le divisioni del movimento, secondo Atzori, erano evidenti dai primi giorni delle manifestazioni: “Dopo la partenza di Mubarak i Fratelli musulmani hanno annunciato che avrebbero sostenuto l’ex direttore dell’Agenzia per l’energia atomica, Mohammed ElBaradei, e hanno capito soltanto dopo che la base del movimento non si fidava di lui”. Le spaccature interne traspaiono anche nelle posizioni economiche: paradossalmente le nuove generazioni sono più vicine alla vecchia ideologia dei Fratelli musulmani riconducibile al socialismo islamico e l’attenzione alle classi più disagiate. La vecchia guardia invece difende con gelosia i consistenti interessi economici e finanziari che ha costruito negli ultimi decenni con la connivenza del regime. Lo scenario più probabile è quello di un’alleanza tra la vecchia guardia e gli elementi del vecchio regime e dell’esercito. Secondo Atzori, “Le crepe nel blocco sono innegabili, ma lo scenario più probabile è che il potere unirà la Fratellanza in un accordo con i militari per escludere le altre forze politiche, compresi i nuovi, più democratici, dissidenti interni”.
Il Manifesto-Michele Giorgio: " El Orabi è ministro degli esteri"

Mohamed El Orabi
La politica estera egiziana non cambierà.A metterlo in chiaro è stato Mohamedel Orabi, nominato qualche giorno fa alla guida della diplomazia egiziana, in sostituzione di Nabil el Arabi che da luglio ricoprirà l’incaricodi segretario generale della Lega araba (al posto di Amr Musa). Parole chehanno spento l’entusiasmo dei tanti che nella rivolta di Piazza Tahrir avevano visto anche l’inizio di una nuova politica estera egiziana dopo trent’anni di appiattimento del regime di Hosni Mubarak sulle posizioni americane e di sostanziale identità di vedute tra l’ex raìs e i governi israeliani. «Seguiremo gli stessi obiettivi di el Arabi e cercheremodi capire le speranze degli egiziani», ha affermato il neo ministro. Ma la direzione è quella contraria. La scelta di el Orabi, in passato molto vicino aMubarak, da parte del Consiglio Supremo delle Forze Armate (Csfa) che dall’11 febbraio controlla il paese, indica che in politica estera spira vento di restaurazione e non di innovazione. Pare già tramontata la politica «nuova» portata avanti per qualche mese da El Arabi che ha ravvicinato la fazioni palestinesi Hamas e Fatah, ha sostenuto la riapertura del valico di Rafah con Gaza (ma mai avvenuta realmente) e favorito un riavvicinamento tra l’Egitto e l’Iran, facendo scattare l’allarme rosso in Israele e in Arabia saudita e, naturalmente, negli Stati Uniti. Sono in molti a credere che la sua «promozione » alla Lega araba non sia altro che un allontanamento dai vertici del potere in Egitto, paese al quale Usa e Ue assegnano un ruolo ben preciso nella regione. La nomina di el Orabi vuole tranquillizzare Washignton, Tel Aviv e Riyadh. In pensione dallo scorso gennaio, diplomatico di carriera, il nuovo ministro degli esteri è stato fra il 2001 e il 2008 negli Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna. Prima, fra il 1994 e il 1998, era stato vice ambasciatore in Israele. E’ un uomo del passato regime, anche se non coivolto nell’orgia di potere e soldi tipica dell’entourage di Mubarak. Non è un caso che il premier Essam Sharaf e el Orabi abbiano dichiarato assiemeche l’Egitto rispetta tutti i trattati internazionali sottoscritti, con un riferimento implicito ad Israele. «El Orabi non è la persona giusta per rappresentare l’Egitto dopo la rivoluzione e le speranze di coloro che hanno cacciato Mubarak», ha commentato con amarezza l’ex diplomatico Abdullah al-Ashaal. La tendenza ogni giorno più marcata che si registra tra i generali del Csfa è quella di un lento e silenzioso ritorno al passato, mascherato con la promessa di maggiore libertà e democrazia e l’assicurazione che l’ex raìs, seppur gravemente ammalato, sarà processato (a partire dal 3 agosto, al Cairo o a Sharm el Sheikh dove è ricoverato in ospedale). Il governo gode di una autonomia limitata e i suoi membri che non approvano le direttive dei militari, non possono far altro che farsi da parte. Ieri il vice primo ministro egiziano, Yahya el Gammal, ha presentato le dimissioni ai generali del Csfa, che le hanno respinte, di fronte alle critiche sempre più frequenti espresse dai «giovani della rivoluzione » sia verso di lui sia verso un governo che «annuncia molto, ma non fa seguire i fatti alle parole». I riflessi della nomina di el Orabi si faranno sentire subito sulla questione dell’apertura del valico di Rafah con Gaza, rimasto chiuso dal giugno 2007 fino allo scorso maggio, per decisione diMubarak stretto alleato di Israele nel mantenere sotto assedio la Striscia. Meno di un mese fa un milione emezzo di palestinesi aveva sperato in un cambiamento radicale ma le aspettative non sono state soddisfatte. Il passaggio verso l’Egitto rimane limitato a 300-400 persone al giorno, un numero irrisorio mentre più di 20.000 palestinesi attendono di passare il confine. La lista d’attesa è chilometrica. Chi si prenota oggi non uscirà, se tutto andrà bene, prima di settembre.
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