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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio-Il Giornale Rassegna Stampa
23.06.2011 Afghanistan:cronache, analisi, commenti
di Mattia Ferraresi, Paola Peduzzi, Gian Micalessin

Testata:Il Foglio-Il Giornale
Autore: Mattia Ferraresi, Paola Peduzzi, Gian Micalessin
Titolo: «La fine dell'epoca Gates e la paura che si ritiri l'eccezione americana-Ci vediamo a Teheran- Afghanistan addio, per Obama la missione è finita»

Gli Usa lasceranno l'Afghanistan, l'analisi di Mattia Ferraresi sul FOGLIO di oggi, 23/06/2011, a pag.1; sempre dal FOGLIO il commento di Paola Peduzzi, a pag.1; dal GIORNALE, a pag. 14, Gian Micalessin commenta l'exit strategy di Obama.
Ecco gli articoli:

Il Foglio- Mattia Ferraresi: " La fine dell'epoca Gates e la paura che si ritiri l'eccezione americana"

 
Robert Gates

New York. Più che alla fine di un mandato il ritiro di Bob Gates assomiglia alla fine di un’epoca. Tra dieci giorni il segretario alla Difesa lascia la politica dopo una carriera di 45 anni e passa il testimone al direttore della Cia, Leon Panetta, confermato dal Senato a pieni voti per la nuova posizione. Gates raggiungerà la moglie sulla costa ovest degli Stati Uniti, dove vive da quando il marito è stato nominato da George W. Bush al Pentagono, nel 2006: inutile stare a Washington, tanto non si sarebbero visti comunque. Durante la sua ultima missione transatlantica il guerriero di Washington ha concesso un’intervista a tutto campo a Newsweek in cui spiega anche la ragione fondamentale del suo ritiro: “Non vorrei far parte di un governo che fosse costretto a ridurre pesantemente il suo ruolo nel mondo. Non so se questo effettivamente succederà, ma è una questione che di sicuro va affrontata”. A Washington Gates è considerato una specie di monumento della Difesa, un comandante permanente che è stato capace di prevalere sulle molte giacchette che ha indossato sotto quattro diverse Amministrazioni. Bush lo ha chiamato a sostituire Donald Rumsfeld perché aveva bisogno di qualcuno che mettesse ordine al Pentagono e chiudesse la faida fra i militari e la Cia che aveva spaccato in due la sicurezza nazionale. Come ex capo della Cia sapeva quali tasti toccare. Ancora oggi è uno dei pochi della gerarchia militare a essere stimato a Langley; l’altro è il generale David Petraeus, che di Gates è stato il gemello sul campo dai tempi del surge in Iraq e della counterinsurgency poi esportata in Afghanistan. Della dottrina Bush, Gates è stato un interprete fedelissimo, non un autore, e per questo Barack Obama gli ha chiesto – lui resisteva – che il suo realismo rimanesse al servizio di un’Amministrazione altrimenti inesperta. Ha accettato con spirito marziale di capeggiare il “team of rivals” del presidente democratico e nemmeno dopo lo sgarbo della Libia e il discorso di Obama sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan ha trasformato la sua autorevolezza in una fronda.Il presidente ieri ha annunciato l’inizio del ritiro delle 33 mila truppe inviate all’inizio del 2010 in Afghanistan per il “surge”. Il concetto stesso di un ritiro con tempi stabiliti ripugna Gates – uno dei sette principi della sua dottrina dice di fidarsi sempre dei generali e di non cedere alla propaganda delle date – e anche il ritmo con cui Obama inizia a portare a casa le truppe (secondo le indiscrezioni, 10 mila entro la fine dell’anno, il resto entro il 2012) è molto sostenuto rispetto al rientro “modesto” suggerito dal segretario. Ma le preoccupazioni di Gates vanno oltre i numeri: si tratta di una visione concepita dalla politica e calata nella realtà dai militari, un piano che abbia chiaro che cosa significhi vincere la guerra e interpretare il ruolo dell’America nel mondo. Quell’eccezionalismo che Gates teme finisca per confondersi in una notte in cui tutte le potenze sono uguali. Sull’Afghanistan dice che il prossimo sarà l’anno decisivo: “Abbiamo preso le roccaforti dei talebani e se loro non riusciranno a riprendersele potremo espandere la sacca di sicurezza. A quel punto dovranno sedersi attorno a un tavolo”, perché, dice, “non c’è alternativa a una soluzione politica. Il problema è in quali termini”. Per arrivare ai negoziati serve la strategia militare, quella vergata sulla sabbia da Petraeus ed elaborata da Gates al Pentagono, la stessa che è messa in crisi dall’idea che un piano fatto di droni e incursioni delle forze speciali sia la ricetta per vincere quella che una volta si chiamava la guerra al terrore. Un saggio dell’analista Peter Bergen su Foreign Affairs spiega con parole che piacerebbero a Gates perché il controterrorismo è uno strumento utile per decapitare la leadership di al Qaida ma non per vincere la guerra lunga. E’ a quest’ultimo scopo che Gates ha dedicato i suoi ultimi cinque anni.

Il Foglio-Paola Peduzzi: " Ci vediamo a Teheran"

 
Hamid Karzai

Milano. Il tempismo ha il muso lungo di Hamid Karzai, presidente dell’Afghanistan sempre più irritato dalla presenza americana nel suo paese, ma allo stesso tempo preoccupato dall’inizio del ritiro deciso a Washington. Il tempismo ha i baffi neri di Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan, sempre più lontano dall’abbraccio statunitense e ancora scosso da quel blitz sciagurato – per lui – che ha ammazzato non soltanto Bin Laden ma anche la strategia dell’ambiguità con cui da dieci anni Islamabad collabora alla guerra al terrore. Il tempismo abita a Teheran, la capitale di quell’Iran alle prese con uno degli scontri di potere più violenti degli ultimi anni, ma comunque determinato a non lasciarsi sfuggire l’occasione di tirare dalla sua parte gli alleati recalcitranti dell’America, Karzai e Zardari appunto. A Teheran, capitale del terrore, si apre domani il vertice sul terrorismo e il controterrorismo – quale ironia – e i due presidenti sono gli invitati speciali. Zardari arriva oggi, perché deve discutere della pipeline che unisce l’Iran e il Pakistan – un progetto ostacolato dagli Stati Uniti. Per esserci, Zardari ha persino detto di no ai sauditi, che gli avevano proposto un grande scambio: vieni da noi, a Riad, dove faremo un incontro sul terrorismo (quale ironia, ancora) e ti offriremo l’appoggio che tanto cerchi, ma lascia stare Teheran. Zardari ha scelto l’Iran, per il momento e per le prossime 72 ore, mentre un sondaggio sul popolo pachistano rivela un antiamericanismo come non si vedeva da parecchio tempo, e il presidente Mahmoud Ahmadinejad gongolante ringrazia. Anche Karzai ha scelto l’Iran, ma questa è già più una consuetudine. Il via vai di emissari e ministri tra Kabul e Teheran è un pezzo consistente della diplomazia afghana, ma vedere Karzai lì, a poche ore dall’annuncio dell’inizio del ritiro americano, con tutti i dispacci dall’Afghanistan che raccontano che le forze afghane non possono farcela da sole, genera qualche inquietudine. Per di più Karzai è diventato ingestibile per gli emissari americani, con le sue uscite antipatizzanti e i suoi annunci irritanti.Karzai ha affinato l’arte della sfrontatezza, come dimostra una frase pronunciata non più tardi di sabato scorso: “Ricorderete che pochi anni fa dicevo grazie agli stranieri per il loro aiuto, li ringraziavo ogni minuto. Ora non lo dico più: gli stranieri sono qui per i loro interessi, per i loro obiettivi e usano il nostro terreno, il nostro paese, per perseguirli”. In privato Karzai non è così duro: non si può vincere, e neppure contenere, il nemico talebano senza interagire con il presidente afghano, ma neppure lui può sperare di continuare a guidare il paese senza l’appoggio dei forestieri. Dietro le quinte si tratta di continuo, ma non è più un mistero che, nel lungo periodo, parallelamente al disimpegno delle truppe, si tratta anche la fuoriuscita di Karzai. Lui ha assicurato a Bob Gates, ministro della Difesa uscente, che non cercherà il terzo mandato dopo il 2014 (dovrebbe comunque modificare la Costituzione), quando i soldati americani saranno – secondo i piani odierni – tornati a casa. Altre fonti sostengono che Karzai abbia già iniziato i lavori per garantirsi un futuro, e l’appoggio di Teheran non è e non sarà ininfluente. L’exit strategy dall’Afghanistan non è soltanto un conto più o meno conforme alle richieste dei generali delle truppe da smobilitare, è una visione del paese tra qualche anno. Il dialogo con i talebani si farà, ammesso che qualcuno tra loro abbia intenzione di accettarlo, ma ci vorrà anche qualcuno che lo sappia gestire, un qualcuno che non è Karzai. Per fortuna a Kabul c’è Ryan Crocker, il Lawrence d’Arabia dell’America, come lo chiamava Bush junior, l’ambasciatore migliore che Barack Obama potesse scegliere per coltivare un successore di Karzai, e ritrovarsi così con una strategia a lungo termine.

Il Giornale-Gian Micalessin: " Afghanistan addio, per Obama la missione è finita"

 Afghanistan addio. La guerra di Obama è già finita. Scordatevi le manfrine sulla guerra «necessaria» contrapposta alla «sbagliata» guerra irachena «scelta» da George W Bush. Era roba da campagna elettorale ed inizio mandato. Ora anche quella promessa è pronta per l’archivio. Il presidente lo ha spiegato ufficialmente nel discorso della scorsa notte. Un discorso in cui ha raccontato agli americani di esser pronto a riportare a casa 10 mila soldati entro l’anno e altri 33mila entro l’estate 2012. Un dietrofront capace di compromettere qualsiasi strategia e mandar su tutte le furie David Petraeus, il generale - comandante in capo delle forze Nato in Afghanistan - pronto a rinunciare, al massimo, a 5/10mila soldati non combattenti. Ma Obama non ha scelta. La promessa di rilanciare l’economia è fallita prima delle altre. Il debito pubblico supera i 14 trilioni di dollari, il deficit è a quota 1300 miliardi, la disoccupazione oltre il 9 per cento. Con questi numeri spendere 120 miliardi di dollari all’anno per restare in Afghanistan è pura utopia. E di questo passo il presidente «buono» rischia di diventare più impopolare di Nixon ai tempi del Vietnam. I primi a farglielo capire sono, lunedì scorso, i sindaci degli Stati Uniti riuniti a Baltimora per la conferenza annuale. Il loro primo atto è una risoluzione senza precedenti. Una risoluzione dedicata - per la prima volta dai tempi del Vietnam appunto - ad un tema di politica estera. Quella risoluzione chiede un immediato passo indietro da Afghanistan ed Iraq e il trasferimento all’economia nazionale delle centinaia miliardi di dollari spesi per la ricostruzione dei due paesi. A buttar benzina sul fuoco del malcontento acceso dai sindaci contribuisce Joe Manchin, un senatore della West Virginia democratico quanto Obama. «In coscienza non possiamo più permetterci di tagliar servizi, innalzare le tasse e far decollare il debito per finanziare la ricostruzione in Afghanistan. La domanda a cui il presidente deve rispondere è molto semplice cosa vogliamo ricostruire l’America o l’Afghanistan? Allo stato attuale far entrambe le cose è impossibile». La risoluzione dei sindaci e il discorso di Joe Manchin diventano una spada di Damocle sollevata sul capo del presidente proprio alla vigilia del cruciale discorso afghano di ieri sera. Comunque si giri Obama non può fingere di non vedere la lama dei conti sospesa sulla propria testa. Una lama che minaccia di trafiggerlo ancor prima dell’appuntamento del 2012 per la rielezione. Dunque l’unica via d’uscita è una fuga onorevole. Ma raccontarlo è più semplice che farlo. Certo il ritiro di 30 mila uomini nell’arco di 18 mesi, a partire dal luglio 2011, era già stato vagheggiato nel 2009. Obama l’aveva ipotizzato subito dopo l’invio dei 30mila uomini di rinforzo considerati indispensabili per emulare la «surge» irachena messa a punto in Iraq dal Petraeus e dal suo predecessore Bush. Ma allora Obama preferiva non ascoltare chi spiegava che il «surge», la rimonta afghana, sarebbe stata molto più lenta e faticosa di quella irachena. Ora quella sottovalutazione di tempi e priorità decisa nel nome della politica rischia di rivelarsi fatale. Un ritiro a metà dell’opera sull’onda della pressione economica e della politica interna minaccia di rivelarsi nefasto. I soldi risparmiati grazie ad un frettoloso abbandono rischiano, come cerca di fargli capire il generale David Petraeus, di azzerare i pochi successi conseguiti in questi due anni. E di rendere estremamente più costosa in termini di vite umane la permanenza dei 70mila soldati americani e 30mila della Nato lasciati nella trincea afghana. Ma Obama non ha più tempo. Il novembre 2012 è ad un passo e così, la scorsa notte, il presidente «buono» ha barattato, probabilmente, la propria salvezza con la sconfitta della nazione. Ma in fondo glielo chiedeva il paese. E lui volentieri lo ha ascoltato.

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