In Libia la guerra continua, i pareri sono discordi. Riprendiamo due articoli di Carlo Panella, da LIBERO e dal FOGLIO di oggi, 23/06/2011, e l'editoriale del FOGLIO a pag.3.
Ecco i pezzi:
Libero-Carlo Panella: " Sarkò stoppa l'Italia: la guerra continua"

Un'immagine del passato
Nervi tesi a Parigi e Londra su una guerra in Libia che si trascina nella massima confusione e che vede Gheddafi, nonostante tutto, capace di una resistenza assolutamente non calcolata da chi (Sarkozy, Cameron e Obama) l’ha voluta. Ieri Franco Frattini ha dichiarato in Senato che «l’Italia certamente sosterrebbe con forza un appello avanzato da Unione africana, Ue, Lega araba e Onu per la sospensione immediata delle ostilità e per un corridoio umanitario negoziato in Libia. Un cessate il fuoco umanitario immediato che abbia due caratteristiche: non pregiudicare il negoziato politico che escluda la ripartizione della Libia ed escluda la permanenza di Gheddafi, ma consentire anche quell'ingresso negoziato che in modo forzoso non ci sarebbe comunque consentito». L'alternativa, per il ministro «è non fare niente ma continuare con la situazione di belligeranza, oppure bloccare le armi e negoziare un corridoio umanitario temporaneo e immediato». Parole calibrate con diplomatica saggezza, mirate a sedare gli animi di una Lega impaziente di uscire dal pantano libico, ma anche tese a sedare gli umori opposti di un Giorgio Napolitano, stranamente molto bellicoso. In vista delle riunione del Consiglio Supremo di Difesa - presieduto da Napolitano - che Berlusconi ha indicato in Parlamento quale sede per aggiornare la posizione italiana, Frattini ha dunque enunciato una ponderata proposta di “exit strategy”, non unilaterale, ma saldamente ancorata alle eventuali - ma auspicate - iniziative delle massime istanze internazionali. Lo ha fatto, ben sapendo che il 15 giugno l’Unione Africana ha formalmente chiesto al Consiglio di Sicurezza «di concentrare gli sforzi della comunità internazionale su una soluzione politica», quindi un cessate il fuoco e una trattativa. Questo, pochi giorni dopo che il presidente della Commissione dell'Unione Africana Jean Ping ha dichiarato, allarmato: «Il pericolo in Libia è quello di una somalizzazione del conflitto. Bisogna ricordare che la Libia è, come la Somalia, un Paese basato sulle tribù. Noi abbiamo in mente quello che è accaduto in Somalia». Non solo, proprio ieri, una delegazione dell'Organizzazione della Conferenza Islamica è giunta in giornata in Libia per una missione di mediazione tra le due parti in conflitto. Dunque, le pressioni sull’Onu per un cessate il fuoco concordato vi sono e sono forti, soprattutto vista la situazione di stallo sul terreno. Ma subito Parigi e Londra hanno fatto il viso dell’arme, ribadendo: «La guerra continua». Come già il portavoce del ministero degli Esteri francese Bernard Valero, il portavoce di David Cameron ha rigettato a tambur battente la proposta italiana: «Riteniamo che sia necessario continuare ad aumentare le pressioni sul regime libico, non solo attraverso la campagna militare, ma anche con sanzioni politiche ed economiche». Ma in realtà, i dubbi che serpeggiano in Italia sono gli stessi dei generali inglesi, tanto che martedì, il generale Simon Bryant, capo operativo della Raf, ha inviato un allarmato rapporto al Parlamento inglese: «Lo spirito di combattimento del personale della Raf è messo a dura prova dall’intenso carico di lavoro, molti settori del corpo sono in ebollizione». Non solo Bryant ha anche formalizzato una valutazione pesantissima sul piano politico: «Vi è preoccupazione sulla mancanza di direzione strategica percepita che diminuisce la fiducia nella leadership». Come si vede il pesante giudizio sulla “mancanza di direzione strategica” di questa guerra alligna più a Londra che a Roma (o nella Padania).
Il Foglio- " Un piano B per la Libia "

Divisioni dentro la Nato”, titolava ieri il sito del Times di Londra un’ora dopo che il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, aveva chiesto un cessate il fuoco in Libia e l’apertura di corridoi umanitari. Naturalmente l’occasione si è rivelata ghiotta per il quotidiano inglese per spiegare – rispiegare – che l’Italia è un “partecipante riluttante” della missione in Libia a causa dei buoni rapporti con il colonnello Gheddafi e che c’è uno scontro in corso con i ritiristi e Silvio Berlusconi deve badare alla sua leadership in bilico e quindi adatta la politica estera ai suoi interessi. In realtà Frattini è stato il primo, all’interno della Nato, a cercare di risolvere un problema non da poco: la missione a Tripoli non sta funzionando. Cosa facciamo se non ci sono vincitori né vinti? Un piano B ancora non è stato nemmeno pensato, mentre i ribelli ricevono soldi dalla Banca mondiale (e da molti paesi della Nato, Italia in testa) ma iniziano a spargere in giro voci su una sfiducia sempre più palpabile nei confronti dell’Alleanza atlantica, mossa abilissima per mettere ancora più in difficoltà una Nato che uscirà da questa guerra – lei sì – con le ossa rotte. Un piano B è del tutto fuori discussione per il leader britannico David Cameron che anzi sgrida i suoi generali perché hanno osato esprimere in pubblico perplessità sulle sorti di questa guerra, che costa tantissimo e produce pochissimo. Un piano B non è nemmeno contemplato dal presidente Obama che per giustificare questa guerra ha dovuto stravolgere il vocabolario (per non parlare dei pesi e contrappesi tra Congresso e Casa Bianca, essenza stessa della democrazia americana), dichiarando che in Libia non c’è una guerra, non ci sono nemmeno “ostilità”, per questo non ci deve essere un’autorizzazione del Congresso. Un piano B non è stato nemmeno proposto dai francesi, che anzi ieri hanno subito detto che le operazioni devono continuare, anzi, devono semmai essere intensificate, e la Nato ha dato loro ragione. Frattini ha proposto una via d’uscita, subito ridimensionata per la solita timidezza diplomatica, prendendo atto di una realtà che ogni giorno si consolida sul campo. Gheddafi non molla, i bombardamenti non lo scovano (invece colpiscono i civili), il regime non implode, i ribelli non hanno la forza militare né negoziale per costruire un’alternativa al clan Gheddafi. Stando così le cose, con i soldi che scarseggiano sempre più in un occidente che per fare le guerre deve prima controllare il portafoglio, meglio cercare una tregua sul campo, aiutare la popolazione che patisce questi mesi di guerra, aprire corridoi umanitari e poi riflettere sul fatto che se Gheddafi non se ne va bisognerà trattare con lui. Meglio farlo con un piano concertato: altrimenti oltre che stolta e sproporzionata, questa guerra sarà anche penosamente perduta.
Il Foglio-Carlo Panella: " Le guerre di Gheddafi "

E’bene ricordare – a proposito delle polemiche della sinistra italiana circa l’esagerato baciamano di Silvio Berlusconi al colonnello libico Muammar Gheddafi in occasione della sua ultima visita a Roma – che, per parte italiana, fu Aldo Moro, ministro degli Esteri dal 1969 al 1974, a sviluppare una politica di acquiescenza nei confronti della politica aggressiva di Gheddafi (non priva di tiepide simpatie per la sua contrapposizione a Israele). In quegli anni l’Italia non fece nulla di concreto contro l’espulsione dei suoi concittadini dalla Libia (gli espulsi, ancora oggi, chiedono un indennizzo). A fronte della compromissione della Libia di Gheddafi col terrorismo palestinese, la scelta del governo italiano e di Aldo Moro fu quella di scendere a patti. La realpolitik era motivata dalla difesa degli interessi nazionali in campo energetico, ma non per questo era meno sconcertante. Il culmine di questa politica fu il “lodo Moro”, un accordo siglato dallo statista democristiano, per il tramite del colonnello Stefano Giovannone (capocentro del Sifar e poi del Sid a Beirut), con il Fplp, il gruppo palestinese più impegnato in attentati in Italia e in Europa. Confermato da Francesco Cossiga, come dai dirigenti del Fplp (e riscontrato da Giovanni Pellegrino, presidente della commissione Stragi del Parlamento italiano), questo lodo garantiva all’Italia di essere al riparo dagli attentati terroristici del Fplp, in cambio di una certa “agibilità” logistica degli stessi terroristi sul territorio italiano. Chi scrive è a conoscenza – per testimonianza diretta di un ex terrorista che ne fece largo uso – anche della fornitura da parte del Sid di interi blocchi di biglietti Iata in bianco a organizzazioni terroristiche europee in contatto con il Fplp. A garantire il “rodaggio” a questa intesa era stata la decisione dello stesso Moro di accettare la richiesta del colonnello Gheddafi, in raccordo con Yasser Arafat, di lasciare liberi e anzi di trasportare in Libia sull’aereo Argo 16 (in uso al Sifar) due dei cinque terroristi di nazionalità libica arrestati a Roma il 5 settembre 1973 – erano in possesso di due missili russi Strela e intendevano abbattere aerei della compagnia israeliana El Al nella fase di decollo dall’aeroporto di Fiumicino. Accompagnati dal capitano del Sid, Antonio La Bruna, i due furono immediatamente portati a Tripoli. Lo stesso Aldo Moro si appellò disperatamente (ma invano), in alcune sue lettere dalla prigione delle Br, proprio alla politica di difesa degli interessi nazionali, pur in aperta deroga delle leggi, che sottintendeva questo accordo, facendo apertamente il nome del colonnello Giovannone per chiedere una trattativa con i suoi sequestratori. Il 23 novembre dello stesso anno l’aereo Argo 16 esplose in volo sul cielo di Marghera, sfiorando il disastro ambientale e provocando la morte dei quattro membri dell’equipaggio. Una sentenza della magistratura, nel 1999, ha sollevato il Mossad israeliano dalle plurime accuse dell’attentato, lasciando aperte altre, ancora più inquietanti, piste. Nel 1975 fallì il primo dei tanti tentativi di uccidere Gheddafi e di effettuare un golpe. Si ricorda come uno dei più insidiosi perché fu tentato dai maggiori Abdalmunim al Huni e da Omar Muhaysi, membri del Consiglio rivoluzionario, “compagni della prima ora” del rais nel colpo di stato del 1969. Fu palese la paternità egiziana del progetto golpista – i due si rifugiarono al Cairo non appena ebbero sospetto di essere stati scoperti, diventando così una causa non secondaria della guerra tra Libia ed Egitto del 1977. Il vero colpo grosso, che segnò l’ascesa di Gheddafi nel salotto buono dei leader del Mediterraneo – mentre continuava imperterrito e indisturbato la politica di “motore immobile” del terrorismo arabo in Europa (ma non in Italia) – arrivò il 1° dicembre 1976 quando la Libia, attraverso la Lafico (Libyan Arab Foreign Investiments Company), entrò nel capitale della Fiat – salvandola da gravi difficoltà finanziarie, acquisendone per 415 miliardi il 10 per cento del capitale azionario (la quota libica sarebbe poi arrivata al 16 per cento, a un valore quattro volte superiore all’apprezzamento di Borsa). L’investimento così consistente era seguito a una polemica, nel 1973, tra Gheddafi e il giornale della Fiat. Fruttero e Lucentini, scandalizzati per il modo con cui Gheddafi aveva trattato a Parigi duecento giornalisti convocati per una conferenza stampa e costretti ad aspettare il rais in strada per ore, avevano scritto per la Stampa un classico “sfottò”: “Pare che Gheddafi sia in realtà una creatura della Cia. Non muove un dito senza chiedere il permesso a loro. Pare che lui non conti assolutamente niente. Sono quei due sacerdoti che si porta sempre appresso che hanno in mano tutto quanto. I discorsi pare che glieli scriva un geometra italiano, un certo Cavalli. Di Novara. Un fanatico religioso? Ma figurarsi! Pare che, quando è stato ospite di Tito, si sia mangiato un cinghialino arrosto tutto da solo. No, lui personalmente è un uomo straordinario. Pare che lavori 22 ore al giorno. E pare che…”. La reazione del rais fu furibonda: tramite l’ambasciatore libico a Roma chiese la testa dei due giornalisti e del direttore della Stampa, Arrigo Levi, sottolineando peraltro che “si trattava di un ebreo”. Non avendo avuto soddisfazione, Gheddafi ordinò l’immediata sospensione delle importazioni della Fiat in Libia e tentò, inutilmente, di farle sospendere in tutto il mondo arabo, provocando un danno stimato attorno ai 20 miliardi di vecchie lire. L’episodio innescò l’attenzione del rais verso la holding automobilistica torinese, improntando di uno spirito di rivalsa e di orgoglio tutta l’operazione – che fu di fatto un salvataggio del gruppo industriale. La scelta di Gianni Agnelli causò sconcerto in molte cancellerie occidentali – Stati Uniti in testa –, ma fu motivata dall’emergenza produttiva (di cui fu simbolo il clamoroso errore di chiudere le linee di produzione della Cinquecento, vettura dai consumi bassissimi, alla vigilia della crisi petrolifera del 1973) e quindi finanziaria in cui si trovava la Fiat. Negli stessi mesi in cui trattava con Cesare Romiti e Gianluigi Gabetti per diventare socio di Gianni Agnelli, Gheddafi organizzava, assieme al presidente algerino Houari Boumédienne e altri, una delle più misteriose operazioni terroriste degli anni Settanta: il 21 dicembre 1975 un commando organizzato dal terrorista Carlos irruppe nella sede dell’Opec a Vienna e, dopo un conflitto a fuoco che fece due vittime, ottenne un Dc-9 su cui trasportare 42 ostaggi, inclusi i potenti ministri del Petrolio dell’Arabia Saudita e dell’Iran, Sheik Yamani e Jamshid Amouzegar. L’azione serviva a infliggere un colpo mortale alla politica “ribassista” dell’Opec, in quella fase determinata dall’azione congiunta di Riad e della Teheran dello scià, a favore di una politica “rialzista”, sostenuta da Libia, Algeria e Iraq. L’obiettivo si sarebbe dovuto ottenere con un ricatto, garanti gli ostaggi – una perfetta dinamica da guerra tribale beduina, aggiornata con le tecniche del terrorismo moderno. Ma l’azione era complessa e qualcosa non funzionò – a chi scrive risulta, da un testimone diretto, che vi fu un conflitto tra i membri della joint venture, mandante dei terroristi – e il Dc-9 atterrò prima ad Algeri, dove vennero liberati tutti i ministri (e il terrorista tedesco Jochen Klein, gravemente ferito) e poi in Libia, dove sbarcarono tutti i membri del commando. Una volta guarito, Jochen Klein (che sarà poi il primo terrorista a denunciare omicidi e orrori antisemiti del terrorismo palestinese) fu ricevuto con tutti gli onori da Gheddafi, per un caloroso ringraziamento. In quei mesi del 1975 – a definitiva riprova dell’articolazione delle strategie del rais – la Libia entrò in forze nella guerra civile che dilaniava il confinante Ciad. A luglio il rais inviò un corpo di spedizione nel nord del Ciad per aiutare l’alleato Goukuni Oedder a spodestare Hissene Habré, che ebbe immediato soccorso da un corpo di spedizione franco-americano – che però non riuscì a sconfiggere le truppe libiche, che nel 1980 occuparono tutto il nord del Ciad. Le forze del rais saranno definitivamente sconfitte e costrette alla ritirata soltanto nel 1987. E’ in questo contesto che la Cia ha arruolato il colonnello libico Khalifa Belqasim Haftar, convincendolo a disertare, e alcune centinaia di prigionieri di guerra libici che, trasportati a Fairfax, in Virginia, a dieci chilometri dalla sede della Cia, sono stati finanziati inutilmente per anni quale (presunto) principale gruppo di opposizione, con la sigla Fronte nazionale per la salvezza della Libia. Nel marzo del 2001, sono stati trasportati a Bengasi: Haftar ha assunto il ruolo di guida delle forze armate dei ribelli. Mentre impegnava il grosso del suo esercito in Ciad, il multiforme colonnello non cessava i tentativi di destabilizzare l’Egitto, ricorrendo anche ad attività terroristiche: l’8 agosto 1976 un attentato in una sede governativa in piazza Tahrir, attribuito a una rete di infiltrati libici, fece 14 feriti. Alle recriminazioni per la fallita unificazione fra Libia ed Egitto del 1972, Gheddafi sommava la volontà di punire il “tradimento” che Anwar al Sadat stava maturando con il suo storico viaggio a Gerusalemme e con il suo discorso alla Knesset, che aprirà la possibilità della pace tra Egitto e Israele, siglata a Camp David nel 1979. Gheddafi, che si era guardato bene dal combattere a fianco dell’Egitto nella fondamentale guerra del Kippur del 1973, trovò la sua naturale collocazione di “falco” nel mondo arabo, alla testa del Fronte del rifiuto al percorso di pace con gli israeliani – subito formato da Algeria, Sudan, Iraq e Siria. Il colonnello era alla ricerca di una leadership morale universale tra la gente dell’umma musulmana – è sempre stata la sua ambizione di fondo. C’era peraltro una perfetta coincidenza tra i paesi del Fronte del rifiuto (nessuno dei quali aveva peraltro mai combattuto contro Israele) e i membri della componente “rialzista” dell’Opec, così come quella tra i paesi complici se non ispiratori prima del terrorismo palestinese poi – Sudan in testa – di quello islamista. Le tensioni fra Tripoli e il Cairo divennero incontrollabili. Nella primavera del 1977, le ambasciate dei due paesi furono assediate da manifestazioni di massa e a giugno Gheddafi provocò apertamente l’orgoglio del potente nemico, ordinando l’immediata espulsione di 225 mila immigrati egiziani che lavoravano in Libia. Il 21 luglio le truppe egiziane sfondarono la frontiera libica occupando con tre divisioni una vasta parte del territorio a ridosso del confine. La guerra – disastrosa sul piano militare per Gheddafi, che perse 400 soldati, 60 carri armati, 20 Mirage e 5 Mig – si concluse in soli tre giorni, grazie alla mediazione dell’algerino Houari Boumédienne. L’armistizio sancì la piena vittoria egiziana e la fine definitiva delle mire libiche verso l’Egitto (ma non verso la Tunisia, come vedremo). Un’attività così frenetica, su piani così diversi e complessi, pose con forza il problema di una collocazione ideologica per Gheddafi, di una “dottrina” che fosse soltanto sua. Il fallimento del panarabismo nasseriano, in cui si era identificato al momento del golpe del ’69, si era ormai consumato, ma niente era tanto distante dalla concezione del rais quanto la politica della alternativa che stava maturando in tutto il mondo arabo con l’affermazione dei Fratelli musulmani, propugnatori di una democrazia sostanziale, anche se limitata ai musulmani e afflitta dall’osservanza dogmatica della sharia più tradizionale. La contrapposizione tra la Fratellanza e il rais di Tripoli è sempre stata durissima. Gheddafi ha costantemente perseguitato i Fratelli musulmani, in modo feroce. Per questo il biennio tra il ’75 e il ’77 si concluse con la stesura e il “lancio” del Libro verde, pasticciata e confusa piattaforma ideologica del Gheddafi-pensiero, incentrata sulla “terza via”, subito sconfessata da tutti i principali imam del mondo sunnita, ma adottata come ideologia ufficiale della Jamahiriya libica e sostenuta da una dispendiosa campagna di diffusione in tutto il mondo, Europa inclusa. In coerenza col Libro verde, Gheddafi modificò per la seconda volta la bandiera nazionale libica, che divenne completamente verde. Le ragioni che hanno portato Gheddafi a far sparire – probabilmente a uccidere – l’ayatollah iraniano Moussa Sadr – zio di Moqtada Sadr, estremista sciita iracheno – nel 1978 sono misteriose, ma non vi sono più dubbi sulla matrice. La scomparsa avvenne durante un viaggio ufficiale in Libia, dove Moussa Sadr era giunto dopo avere fondato con successo, in Libano, il partito sciita Amal – che sarà da quel momento al centro della scena politica libanese e dal quale, nel 1982, si distaccherà Hezbollah. Non è facile comprendere la dinamica e i motivi del sequestro. Di certo c’è soltanto una sentenza della magistratura italiana, che attesta che la versione ufficiale del governo libico, secondo il quale Moussa Sadr si è imbarcato il 31 agosto 1978 su un volo diretto a Roma, è falsa. Il decennio Settanta-Ottanta, fondamentale per l’impostazione di tutte le strategie successive di Gheddafi, si è concluso con una “quasi guerra” con la Tunisia: il 26 gennaio del 1980 un commando proveniente dalla Libia si impadronì, armi alla mano, della città mineraria tunisina di Gafsa, definendosi Armata di liberazione della Tunisia, alla testa “di un movimento che porterà alla liberazione del paese dalla dittatura del Psd (il partito di Bourguiba, nda) e dalla dominazione neocoloniale”. La minaccia era tanto grave che fu debellata soltanto grazie all’invio di un corpo di spedizione aeronavale francese (con elicotteri Puma, fregate, sottomarini e mezzi da sbarco), dopo una battaglia che fece una cinquantina di morti. Sono evidenti, invece, le ragioni strategiche che indussero il colonnello alla scelta di appoggiare i dittatori africani Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bédel Bokassa nella Repubblica centroafricana, così come l’Ira irlandese, l’Eta basca, l’organizzazione palestinese Settembre nero e il gruppo terrorista di Abu Nidal – responsabile degli attentati a Fiumicino nel 1985 (in violazione del “lodo Moro”) e dell’uccisione di molti esponenti dell’Olp di Yasser Arafat. Il filo che legava l’appoggio e il finanziamento di alleati così diversi e disparati era una strategia di destabilizzazione “à tout azimuth”, sia nei confronti dei paesi europei e dei loro interessi in Africa sia di una leadership palestinese che non intendeva sottostare all’egemonia di Gheddafi. Una conseguenza di questa strategia avventurista fu l’attentato alla discoteca La Belle di Berlino, il 5 aprile 1986, in cui morirono due marine americani e una donna turca. Certo della responsabilità libica, sulla base della registrazione di una telefonata da Tripoli all’ambasciata libica di Bonn che ordinava l’attentato, il presidente Ronald Reagan ordinò alla VI flotta di bombardare il palazzo presidenziale di Tripoli, il 14 e il 15 aprile successivi. Abdulrahman Shalgam, ministro degli Esteri libico, rivelò nel 2008 durante una conferenza stampa alla Farnesina che Gheddafi si salvò anche perché Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, lo avvisò per suo tramite (quale ambasciatore a Roma) dell’imminente attacco – Giulio Andreotti, presente alla rivelazione, non smentì. Nell’attacco morirono 14 libici, tra cui la piccola figlia adottiva del colonnello, Hanna. Due giorni dopo, Gheddafi – secondo quanto sostenuto da militari americani – lanciò due missili su Lampedusa e Craxi pensò per qualche ora di reagire ordinando all’aviazione italiana un’azione militare contro Tripoli. Ritornò poi sulla sua decisione anche perché il comandante dell’Aeronautica, il generale Basilio Cottone, affermò di non essere affatto certo della notizia di fonte americana (in effetti, i due missili non sono mai stati rintracciati nelle acque di Lampedusa). A seguito delle sanzioni decise dagli Stati Uniti la Fiat si trovò in una situazione più che scabrosa, da cui uscì l’8 ottobre 1986 con il riacquisto da parte di Ifil del 14 per cento di azioni in possesso della libica Lafico, per una cifra di circa 3 miliardi di dollari al valore di circa 15 mila lire ad azione. Il differenziale era eccellente: circa tremila miliardi di lire, rispetto al prezzo di acquisto di dieci anni prima.
(2. Continua. La puntata precedente è stata pubblicata martedì 21 giugno)
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