martedi` 13 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






La Stampa-Il Foglio Rassegna Stampa
22.06.2011 Siria,Iran,Afghanistan: cronache e analisi
di Francesca Paci, Pio Pompa, redazione del Foglio

Testata:La Stampa-Il Foglio
Autore: Francesca Paci, Pio Pompa, redazione del Foglio
Titolo: «Siria, prove di guerra civile-Iran,è guerra tra falchi e falchissimi per petrolio, soldi e atomica-Nell'exit strategy da Kabul si rischia di contemplare un errore del passato-Meno exit più strategy»

Siria, Iran e Afghanistan, dalla STAMPA di oggi, 22/06/2011, la cronaca di Francesca Paci, a pag.14, con il titolo "Siria, prove di guerra civile". Dal FOGLIO, a pag.1, con il titolo "Iran,è guerra tra falchi e falchissumi per petrolio, soldi e atomica". Sempre dal FOGLIO due servizi su Afghanistan, " Nell'exit strategy da Kabul si rischia di contemplare un errore del passato " di Pio Pompa, e l'editoriale " Meno exit più strategy".

La Stampa-Francesca Paci: " Siria, prove di guerra civile"

La Siria continua a camminare pericolosamente sul filo. All’indomani del suo terzo discorso alla nazione il presidente Bashar al Assad annuncia l’accesso agli operatori della Croce Rossa Internazionale e una nuova amnistia a due settimane da quella concessa ai prigionieri politici e ad alcuni membri dei Fratelli Musulmani, il movimento radicale islamico illegale dal 1980. Oggi le cancellate delle prigioni dove aleggia lo spettro del mukabarat dovrebbero aprirsi per chiunque si sia macchiato di qualsiasi crimine prima di ieri l’altro. L’opposizione però ricorda che la volta scorsa furono liberate poche centinaia di persone a fronte delle oltre tremila dietro le sbarre per reati d’opinione e fa sapere di non disporre più di alcun margine di dialogo con un regime responsabile di oltre 1300 morti, in buona parte civili, e di almeno 10 mila desaparecidos.

Assad sorride teso alle decine di migliaia di sostenitori scesi in piazza ieri nel centro di Damasco, di Aleppo e perfino nelle strade della ribelle Daraa, urlando «Nient’altro che Allah, la Siria e Bashar». Ma per quanto la tv di Stato moltiplichi quelle immagini di entusiasmo, in Rete, simmetriche quanto ad attendibilità, circolano i video di nuovi scontri con le forze di sicurezza a Homs, Hama, Mayadin e Daraa, in cui almeno una decina di dimostranti sarebbero stati uccisi e almeno dieci feriti.

La situazione è esplosiva internamente ed esternamente. Se le chiese mediorientali denunciano il rischio di uno scenario iracheno, avvalorando più o meno intenzionalmente la versione del partito al potere Baath, la Turchia, costretta ad aprire una quinta tendopoli per accogliere i profughi ormai oltre quota 10 mila, sembra aver varcato il Rubicone della condanna. A fianco del regime resta il premier russo Putin che però, pur continuando a bocciare l’ipotesi di ingerenza «negli affari interni del governo siriano» e contrapponendosi su questo a Parigi, ammette ora la necessità di attuare «una pressione politica internazionale» contro Damasco per porre fine «allo spargimento di sangue». Può darsi che, consapevole della tensione crescente ai confini, Assad si sia risolto a concedere alla Croce Rossa e alla Mezzaluna Rossa l’accesso, per ora teorico, alle zone in cui si registrano le violenze. L’impressione degli analisti è però che sia un corso un braccio di ferro all’interno del regime e che il presidente non abbia la forza, ammesso che lo voglia, di contrastare il fronte degli irriducibili capitanato dal fratello Maher, ormai risolto allo scontro finale, costi pure la guerra civile, la fitna, lo scisma irreversibile.

Non a caso, mentre il Leone di Damasco annuncia riforme e amnistie, l’esercito cinge Aleppo, protagonista lunedì di una manifestazione contro il discorso presidenziale. Secondo i Comitati di coordinamento locali (Lccs), la piattaforma degli attivisti all’origine della protesta esplosa il 15 marzo scorso, nella città di frontiera di Tel Rifaa sono state arrestate nella notte decine di militanti, tra cui il muezzin di una moschea, con buona pace dell’amnistia.

Il Foglio:"Iran,è guerra tra falchi e falchissimi per petrolio, soldi e atomica "


 

Roma. Il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, da mesi è messo sotto accusa dal Parlamento che spara contro le sue nomine nell’esecutivo, ricevendo in cambio dalla presidenza della Repubblica attacchi di pari intensità. E’ in atto a Teheran un regolamento di conti interno alla componente oltranzista del regime, con l’obiettivo di conquistare il controllo di snodi fondamentali dei “poteri forti” che controllano il paese: la politica petrolifera, la politica estera, le fondazioni e le holding dei pasdaran. All’orizzonte ci sono le prossime elezioni politiche (2012) e presidenziali (2013), ma soprattutto la successione alla Guida della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, garante degli equilibri tra gli oltranzisti, e da tempo gravemente malato. Una volta che Khamenei sarà scomparso, si assisterà a uno scontro violento tra le componenti oltranziste del regime per la successione, ma non ci si troverà nella stessa situazione del 1988, quando, alla morte di Khomeini, Akbar Hashemi Rafsanjani riuscì a imporre con un colpo di mano un Khamenei che non era neppure ayatollah. Nessun ayatollah pare oggi godere di prestigio e soprattutto di rispetto sufficiente (neanche tra gli oltranzisti) per ambire a diventare Guida Suprema, Rahbar. L’obiettivo strategico oggi è dunque controllare l’istituzione collegiale, il Consiglio composto dal presidente, dal procuratore generale e da un giureconsulto indicato dal Consiglio dei Guardiani, che la Costituzione prevede in questo caso. Da qui nasce lo scontro procedurale che coinvolge ogni nomina di Ahmadinejad. Ieri il viceministro degli Esteri per gli affari finanziari, Sharif Malekzadeh, uomo di fiducia di Rahim Mashai, fidato consigliere di Ahmadinejad (suo consuocero e suo probabile candidato alle presidenziali) è stato costretto alle dimissioni, dopo che 33 parlamentari hanno aperto la procedura di impeachment contro il ministro degli Esteri Salehi (imposto da Ahmadinejad, che aveva dimissionato il predecessore Mottaki), appunto per avere nominato Malekzadeh “senza prestare attenzione al suo problematico passato” (o presente). Sempre ieri il Parlamento ha negato la fiducia al nuovo ministro dello Sport, Hamid Sajjadi, anche lui scelto da Ahmadinejad. E’ la risposta all’attacco sferrato giorni fa da Ahmadinejad contro il ministro dell’Intelligence, Heydar Moslehi, da lui costretto alle dimissioni ad aprile, ma che subito Khamenei aveva reintegrato nel dicastero. Il presidente ha tolto a Moslehi la delega per partecipare al Consiglio per il denaro e il credito, organo che decide sulle questioni economiche. Tra sanzioni e “welfare islamico” Queste mosse fanno comprendere la natura dello scontro che contrappone Ahmadinejad a Khamenei al “blocco centrista” capeggiato da Ali Larijani, ma che spacca anche il comando dei pasdaran e che vede il loro comandante, Ali Jaafari, schierato contro Ahmadinejad, che significa una sfida nel controllo dell’apparato industrialmilitare (come veniva definito in Unione sovietica) dell’Iran. Le cariche di Moslehi e di Malekzadeh danno infatti diritto a essere membri del Consiglio per il denaro e il credito, istituzione fondamentale nella supervisione dell’immenso potere economico delle Bonyad (le fondazioni che veicolano larga parte del “welfare islamico” dell’Iran) e dei pasdaran. Questo corpo (125 mila uomini) somma al suo potere militare, sovraordinato alle Forze armate, una penetrazione capillare in tutti gli asset portanti dell’economia iraniana, sì che un report della Rand Corporation del 2009 lo definiva “un ricco conglomerato socio-politicoeconomico, la cui influenza si estende praticamente a ogni angolo della vita politica e della società iraniana”. Nel complesso, i pasdaran controllano una rete di aziende e fondazioni con entrate annuali stimate in 12 miliardi di dollari. L’asset più importante sotto il profilo economico (la telefonia mobile, i tunnel sotterranei per le centrali atomiche, la ricerca universitaria e l’industria militare e atomica hanno un rilievo più strategico che economico) è il Comando costruzioni Khatam Ol Anbia, che monopolizza tutti gli appalti per le infrastrutture. Attraverso la pratica dei subappalti, i pasdaran non soltanto lucrano consistenti finanziamenti in nero, ma si garantiscono anche il controllo di tutte le imprese di costruzioni private del paese. Il Tesoro americano a febbraio ha colpito con sanzioni mirate proprio il generale dei pasdaran Rostam Qasemi, che dirige per l’appunto il Comando costruzioni e che, secondo gli Stati Uniti, “accumula fondi che finanziano una ampia gamma di attività illecite dei pasdaran, inclusa la proliferazione di armi di distruzione di massa e il sostegno al terrorismo”.

 Il Foglio-Pio Pompa: " Nell'exit strategy da Kabul si rischia di contemplare un errore del passato "

Sarà il risiko delle trattative con i talebani, di cui ha dato conferma il segretario alla Difesa americano, Robert Gates, una delle componenti essenziali della exit strategy obamiana dall’Afghanistan, i cui dettagli saranno svelati oggi dal presidente, Barack Obama. Il crocevia di tali trattative passerà, ancora una volta, da Islamabad. Fonti bene accreditate riferiscono – con ciò fornendo una risposta alla fondamentale esigenza sollevata da Gates di comprendere preliminarmente “chi rappresenta realmente i talebani” giacché “non vorremmo trovarci a discutere con qualcuno che in realtà risulti un indipendente” – di come la regia di qualsiasi forma di dialogo con i talebani affondi nei meandri dell’intelligence pachistana. E, precisamente, in quella parte dell’Isi e di altri organismi di sicurezza che non appaiono affatto indeboliti, nonostante lo smacco di Abbottabad, continuando a gestire saldamente i rapporti organici con al Qaida e, soprattutto, con le bande talebane. Prescindere da un siffatto stato di cose potrebbe risultare esiziale sia per l’intenzione di imprimire una sia pure prudente accelerazione al ritiro delle forze americane dall’Afghanistan, sia per i criteri di individuazione e valutazione di interlocutori affidabili in grado di rendere fattivo il processo delle future trattative con i talebani per ora ferme alle fasi preliminari. In buona sostanza si tratterà, per l’Amministrazione statunitense, di non ripetere l’errore compiuto, nel recente passato, di sottovalutare il nesso organico esistente tra Iran e Siria affidando a Bashar el Assad, alla strenua ricerca di una qualche forma di protezione dal Tribunale speciale per il Libano istituito dall’Onu al fine di perseguire i responsabili dell’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, il compito di avviare colloqui segreti con Teheran e di monitorarne lo stato di avanzamento del programma nucleare. Un errore che ha avuto conseguenze di incalcolabile portata fornendo respiro a un regime che oggi, nonostante i genocidi compiuti nella feroce repressione dell’opposizione interna, è tornato impunemente a stendere il proprio dominio sul Libano, con un nuovo governo totalmente nelle mani di Hezbollah, contribuendo a stringere la morsa iraniana su Israele e sull’intero medio oriente.

Il Foglio- " Meno exit più strategy"

 Due bombe sincronizzate, ventiquattro morti in un compound nella città sciita di Diwaniyah, a sud di Baghdad, in quella parte dell’Iraq che gli esperti e i generali considerano tranquilla, relativamente parlando. L’obiettivo dell’attacco era la casa del governatore, perché al Qaida ha alzato il tiro, sta facendo strage di funzionari e amministratori, per mostrare che può colpire chi vuole, quando vuole, e per minare nel profondo i faticosi passi “istituzionali” della democrazia irachena. La settimana scorsa a Baquba – nella cui periferia, nel 2006, fu ucciso al Zarqawi, allora capo di al Qaida in Iraq, in un blitz pensato e portato a termine dal generale McChrystal – un commando ha occupato il palazzo della provincia, terrorizzando tutti i dipendenti e uccidendone nove. Anche Baghdad è stata colpita più volte negli ultimi giorni, parecchie bombe piazzate qui e là, sempre a colpire o palazzi del governo o le forze di sicurezza, nulla di spettacolare, ma quanto basta per far tornare la paura di saltare per aria mentre si va al mercato, che è proprio il clima in cui sguazza l’ideologia di al Qaida. A giugno sono già stati uccisi nove soldati americani (altro ambitissimo target dell’escalation qaidista) e le statistiche sono ripiombate ai dati del 2009. Entro il 31 dicembre dovrebbe completarsi il ritiro delle truppe americane, e più si avvicina la data, più gli attacchi diventano frequenti e violenti. Un effetto collaterale prevedibile, si dirà, e certo i generali che hanno deciso come smobilitare le truppe lo avranno messo in conto. Ma una cosa è un aumento fisiologico degli attacchi, un’altra è ritrovarsi con cinquanta funzionari ammazzati, con metodo e precisione, come se ci fosse una lista stilata e ogni giorno si tirasse una riga su un nome diverso. Una cosa è registrare un momentaneo aumento delle violenze, un’altra è ritrovarsi le bombe nei compound e nelle parti del paese che si consideravano pacificate. Questi sono segnali preoccupanti, che vanno oltre una pianificazione di ritiro “valutando i risultati sul campo”. Oggi Obama fisserà i numeri e le scadenze del ritiro dall’Afghanistan. Da quando è stato ucciso Osama bin Laden, da quando i soldi scarseggiano sul serio, da quando si è entrati in clima elettorale, la tentazione di accelerare il ritiro è diventata più allettante. Secondo le indiscrezioni di Politico quest’anno saranno ritirati almeno 5.000 soldati (secondo altre fonti 10 mila) per un totale di 33 mila entro la fine del 2012, che è un compromesso tra quanto chiedono i ritiristi e quanto consigliano i generali. Mettere fine a una guerra non è certo un compito semplice, ma più che all’exit è necessario pensare alla strategy. Altrimenti vince la filosofia dei terroristi, che è sempre banalmente la stessa, ma ribalta i fronti e guasta i risultati raggiunti in anni.

Per inviare a Stampa e Foglio la propria opinione, cliccare sulle e-mail sottostanti.


lettere@lastampa.it
lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT