Riportiamo dall'OPINIONE di oggi, 17/06/2011, a pag. 6, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Nakba e Naksa day. Era tutto organizzato dalla Siria, lo prova un documento arabo ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Ecco quel che è accaduto davvero nel nord della Siria". Da AVVENIRE, in prima pagina, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo "Equilibri fragili - il nuovo governo libanese e Damasco". Da REPUBBLICA, a pag. 35, l'articolo di Alberto Stabile dal titolo " In fuga da Assad ".
Ecco i pezzi, preceduti dal comunicato di Fiamma Nirenstein dal titolo " Grande accoglienza del Parlamento per il dissidente Farid Ghadry. A breve mozione bipartisan ".
Fiamma Nirenstein - " Grande accoglienza del Parlamento per il dissidente Farid Ghadry. A breve mozione bipartisan "

Fiamma Nirenstein
Grande dimostrazione di solidarietà al popolo siriano oggi alla Camera dei Deputati, dove si è tenuta la conferenza stampa indetta dall’On. Fiamma Nirenstein (Pdl), vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, per denunciare la terribile repressione che il presidente siriano Bashar al-Assad sta attuando contro il suo stesso popolo. Ospite principale della conferenza è stato Farid Ghadry, dissidente siriano e presidente del Reform Party of Syria, che in mattinata era stato ricevuto, insieme all’On. Nirenstein e all’On. Margherita Boniver, era stato ricevuto dal Presidente della Camera Gianfranco Fini. Fini ha accolto Ghadry con grande empatia e interesse, in un incontro che ha spaziato dalla repressione siriana alla pace in Medioriente. Il Presidente ha espresso la propria partecipazione e il suo sostegno alle aspirazioni democratiche del popolo siriano e ha voluto anche affrontare molteplici temi legati alle dinamiche in corso nell’area mediorientale, chiedendo informazioni sul possibile ruolo delle gerarchie militari nel futuro del paese e sulla partecipazione delle donne nella rivoluzione di Damasco. Inoltre, Fini ha espresso la speranza che il governo siriano possa contare su una classe dirigente capace di assicurare un futuro democratico e scongiurare ogni deriva integralista.
Alle preoccupazioni di Fini si sono aggiunti i numerosi parlamentari di ogni schieramento politico che hanno preso parte alla conferenza stampa a seguito dell’incontro con il Presidente, in un grande gesto di solidarietà del Parlamento italiano nei confronti della dissidenza iraniana.
Hanno partecipato fra gli altri: gli onorevoli Margherita Boniver (Pdl), Enrico Pianetta (Pdl), Giuseppe Calderisi (Pdl), Renato Farina (Pdl), Benedetto Della Vedova (Fli), Adolfo Urso (Fli), Massimo Polledri (Lnp), Claudio D’Amico (Lnp), Furio Colombo (Pd), Olga D’Antona (Pd) e i senatori Silvio Sircana (Pd), Marco Perduca (Pd/Radicali), Lucio Malan (Pdl), Luigi Compagna (Pdl).
Tutti i parlamentari intervenuti si sono impegnati a dare un seguito concreto all’importante incontro di oggi, promuovendo una mozione bipartisan in Aula sulla crisi siriana.
L’On. Nirenstein ha ringraziato di cuore tutti i colleghi parlamentari che non sono rimasti sordi davanti alle grida d’aiuto arrivate dalla Siria. “La Siria è una nazione strategicamente importante per la stabilizzazione di tutta l’area visto che dietro al regime di Damasco si nasconde la longa manus dell’Iran”, ha aggiunto Nirenstein, specificando che il primo passo che la comunità internazionale deve intraprendere è l’adozione di “sanzioni vere” che possano davvero porre fine alle stragi.
Ghadry si è detto sinceramente commosso per il sostegno trovato in Italia: “Mi avete suggerito ottime idee e questo è veramente un giorno da ricordare. Chiediamo all'Europa che continui a fare pressione sul regime di Assad per realizzare le condizioni di un colpo di stato militare all'interno del paese, che possa liberare la Siria; noi sappiamo che ci sono dei generali che quando capiranno che la nave sta per affondare lasceranno immediatamente il regime per salvare il proprio Paese. La caduta dell’attuale regime sarà l’inizio di una nuova stagione nei rapporti con Israele, Libano, Turchia Iraq e Giordania, ma soprattutto darà la spinta per un cambio di regime anche in Iran”.
L'OPINIONE - DImitri Buffa : "Nakba e Naksa day. Era tutto organizzato dalla Siria, lo prova un documento arabo"

Dimitri Buffa
“La sicurezza militare e le autorità di polizia delle provincie di Ain-el-Tina e di Kuneitra, hanno l’ordine di concedere il permesso di passaggio ai 20 autobus il cui arrivo è previsto per domenica 15 maggio 2011 alle ore 10 senza alcuna interruzione e senza interrogare i passeggeri. Gli autobus sono autorizzati a raggiungere le posizioni di difesa lungo la frontiera”.
Sono le parole con cui inizia il documento in arabo firmato dal sindaco della città di Kuneitra in Siria. Pubblicato dal Daily Telegraph. Damasco in pratica ha mandato deliberatamente i palestinesi a morire ammazzati oltrepassando i confini di Israele.
Il documento è firmato da Khalil Mashhadieh, sindaco di Kuneitra e reca la data del 14 maggio. Si parla in esso di una riunione segreta tra il Vice Capo di Stato Maggiore delle forze armate siriane, generale Asef Shawkat, e dei capi delle agenzie dei servizi segreti militari siriani delle provincie lungo il confine israelo-siriano. In questa riunione si sarebbe stabilito di organizzare 20 autobus per trasportare i palestinesi lungo il confine che separa la Siria da Israele.
In un passo si legge che “viene accordato alla folla di attraversare la linea di cessate il fuoco verso il territorio occupato di Majdal-Shams e di impegnarsi fisicamente con gli agenti delle Nazioni Unite posizionati lungo il confine. Non vi sono obiezioni se alcuni colpi vengono sparati in aria dagli agenti di frontiera”. Il documento sottolinea infine che “i civili dovranno essere disarmati al fine di inscenare una protesta pacifica”. Nel documento non è però indicato il compenso di 1000 dollari a manifestante di cui hanno parlato i giornali israeliani, tra cui “Haaretz”. D’altronde appare sempre più chiaro che la Siria abbia organizzato le proteste per distogliere l’attenzione dei media internazionali dalla carneficina di manifestanti all’interno del territorio siriano. E quindi, era assolutamente indispensabile che ci scappassero i morti che poi purtroppo ci sono stati.
Il FOGLIO - " Ecco quel che è accaduto davvero nel nord della Siria"

Roma. L’esercito siriano non contrasta alcuna “banda armata” nelle città ribelli, ma è attaccato sempre più spesso da ufficiali e reparti che defezionano dalle sue file, disgustati dagli eccidi a cui assistono. La conferma viene dagli ufficiali, dai sottufficiali, dai soldati e dai poliziotti fuggiti in Turchia e interrogati dai rappresentanti delle Nazioni Unite nei campi profughi della provincia turca di Hatay, a ridosso della Siria. La notizia riportata dalla agenzia ufficiale Sana, il 5 giugno scorso, di una “imboscata di terroristi” in cui sarebbero morti centoventi soldati e le fosse comuni di corpi senza testa denunciate dalla televisione di Damasco sono state così smentite dalla testimonianza del colonnello Hossein Harmouch: non si è trattato di un’imboscata, ma di scontri tra reparti lealisti e ribelli (come già era avvenuto a Daraa e a Homs). Il Monde ieri ha riportato la testimonianza video del colonnello Hossein Harmouch della 11esima divisione, che mostra alla telecamera la sua matricola militare a riprova di non essere un impostore: “Abbiamo ricevuto l’ordine di lasciare la nostra base di Homs e rastrellare le città ribelli, iniziando da Serminia, per passare poi a Jisr al Shogour, cinque chilometri a nord; ci hanno detto che il nostro compito era di catturare delle ‘bande armate’, ma non ne ho mai visto traccia. Ho visto invece militari che sparavano sulla folla, che la inseguivano, poi li ho visti bruciare i loro raccolti, uccidere il loro bestiame e abbattere i loro uliveti con i carri armati. Non c’è stata alcuna resistenza, ho visto civili che scappavano verso le colline uccisi con una pallottola alla schiena. Quando ho visto gli altri reparti che bombardavano con i carri armati Serminia, mi sono detto: ‘Questo è troppo’. E’ stato allora che ho deciso di disertare. Conosco i miei uomini: sono quasi tutti militari di leva, sapevo che se ne avessero avuto l’opportunità (e la garanzia che non sarebbero stati puniti) tre quarti di loro mi avrebbero seguito, ma erano bloccati dalla paura e mi hanno seguito solo in trenta. Mentre ci avvicinavamo a Jisr al Shogour, siamo stati raggiunti da altri soldati sbandati, anche loro disertori, e siamo diventati 120. Quando siamo arrivati in quella città, il 5 giugno, abbiamo visto centinaia di morti nelle strade; allora abbiamo deciso di schierarci dalla parte dei manifestanti e di difenderli, ma avevamo soltanto armi leggere. Loro avevano i carri armati. Abbiamo organizzato delle trappole, un’imboscata che li ha rallentati e ci ha permesso di mettere in salvo i civili. Durante questi scontri con le truppe di Maher el Assad, un’altra trentina di soldati ha lasciato le loro file e si è gettata dalla nostra parte, ma molti sono caduti perché i loro ufficiali li hanno mitragliati alla schiena. Alla fine, molti dei miei soldati sono fuggiti sulle montagne, altri sono scappati in Turchia”. La Turchia prepara i carri armati Mentre si attende l’ennesima “clamorosa promessa di nuove riforme” annunciata da Bashar el Assad, che ha organizzato ieri una grande manifestazione a suo favore nel centro di Damasco, la situazione dei profughi alla frontiera siro-turca si fa sempre più grave. Diecimila sono già ospitati nelle tendopoli, mentre quindicimila premono sulla frontiera. Mercoledì i campi profughi sono stati visitati dal ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, che ha intimato al generale siriano Hassan Turkmani, inviato da Bashar el Assad ad Ankara: “La violenza deve fermarsi subito, ho visto chiaramente la paura negli occhi della gente”. A fronte di un quadro che vede l’esercito siriano spinto troppo in là lungo la strada della repressione per essere in grado di fermarsi, si vocifera riguardo alla possibilità di un intervento militare turco. Ad Ankara si moltiplicano le voci su un’azione per creare una “zona cuscinetto umanitaria” su territorio siriano, nel timore di un’imminente invasione di profughi (che potrebbe portare almeno 200-300 mila persone al di là del confine). L’ipotesi è avvalorata autorevolmente dallo stesso presidente turco, Abdullah Gül, che venerdì scorso ha annunciato: “La Turchia è pronta ai peggiori scenari, compreso quello militare”. Le voci più interventiste sono state prontamente smentite dall’entourage del premier Recep Tayyip Erdogan, ma in una forma che non esclude affatto un’azione turca “su mandato della comunità internazionale”.
AVVENIRE - Vittorio Emanuele Parsi : "Equilibri fragili - il nuovo governo libanese e Damasco"

Vittorio Emanuele Parsi
Dopo avere causato o minacciato la caduta di tanti governi, il vento della primavera araba sembra ora il responsabile, indiretto e inconsapevole, della nascita del nuovo governo libanese. A cinque mesi dalla fine dell'esecutivo filo-occidentale di Saad Hariri (che ieri sera sarebbe fuggito in Francia perché «in pericolo»), l'altro ieri si è riunito per la prima volta il gabinetto guidato dal sunnita Migali, espresso da una coalizione in cui il "partito di Dio", lo sciita Hezbollah, gioca un ruolo egemone. Il paradosso di tutto ciò sta nel fatto che un elemento determinante nel produrre una così repentina accelerazione dopo un lunghissimo stallo è venuto dalla crisi in cui versa il regime del presidente siriano Assad, insidiato dalla voglia di libertà dei suoi infelici sudditi. In un momento in cui il regime siriano sta fronteggiando la maggiore minaccia esistenziale della sua storia, specificamente a causa del contagio della primavera araba — un contagio che potrebbe trasformarsi in una vera "infezione letale" — Damasco tutto poteva permettersi fuorché il perdurare di una situazione di stallo in Libano. Che la Siria, a partire dalla caduta del governo Hariri, abbia ricominciato a considerare il fragile vicino come un proprio feudo, lo si evince da mille segnali. Quello più inquietante, proprio perché evoca il ritorno a un oscuro, tragico e routinario passato, è forse il rapimento di un vecchio curdo di 86 anni, Chebli al-Ayssami, fondatore del partito Baath siriano e oppositore del potere degli Assad, avvenuto nei giorni scorsi in territorio libanese ad opera, si sospetta, dei servizi di sicurezza siriani. Nel frattempo, però, centinaia di profughi siriani (in gran parte sunniti) hanno cercato rifugio in Libano per sfuggire alla repressione. Evidentemente, mentre la maggioranza sunnita del suo Paese (80%) gli si sta rivoltando contro, Assad non poteva tollerare che lo stallo nella situazione politica libanese potesse tramutarsi in una forma di tacito sostegno, o anche solo di fraterna solidarietà, nei confronti dei suoi oppositori interni. E così, magicamente, il primo premier sunnita del Libano investito concretamente dagli sciiti di Hezbollah — con una rottura sostanziale del compromesso costituzionale che regola i rapporti tra le comunità praticamente dal giorno dell'indipendenza — ha preso possesso dei suoi poteri. È ancora presto per dine che cosa questo implichi per il fragilissimo equilibrio interno del Libano. Difficile non ipotizzare che se Hezbollah, dopo mesi di lunga e paziente trattativa, ha deciso di forzare i tempi della decisione lo abbia fatto su pressione di Damasco e, allo stesso tempo, alla luce di un consapevole calcolo dei propri interessi. Se il regime di Assad dovesse cadere — e con lui dovesse venire meno il predominio della minoranza alawita, la cui piena legittimazione islamica è arrivata in tempi relativamente recenti dall'Iran—Hezbollah potrebbe ritrovarsi privo di quel sostegno finora assicurato dalla Siria, la cui contiguità territoriale è stata ampiamente utilizzata anche dall'Iran, l'altro grande padrino ideologico e militare del partito sciita. Lo stesso Iran, d'altronde, sta assistendo a come la primavera araba rischi di scombussolare quel quadro di riferimento all'interno del quale Teheran ha cercato di esercitare le proprie ambizioni egemoniche. Così Hezbollah deve aver fatto i suoi conti, e deciso che era meno rischioso esasperare i toni della competizione interna libanese, considerata la minaccia che il deterioramento del quadro regionale e la probabile incriminazione per l'omicidio del premier Rafiq Hariri di alcuni suoi esponenti di spicco da parte del Tribunale Speciale per il Libano portava alla sua stessa esistenza. Un calcolo forse troppo azzardato, visiti i tempi.
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " In fuga da Assad "

Bashar al Assad
Non sono né disperati, né rassegnati. E da questa grande terrazza sul Nord della Siria, che è la provincia turca di Antiochia, guardano i villaggi da cui sono fuggiti con occhi asciutti, senza nostalgie. Semmai un sentimento alberga nei loro cuori, è la rivalsa, il desiderio ardente di tornare in Siria da vincitori, naturalmente dopo che Assad se ne sarà andato. Per questo, più che profughi, i siriani che hanno trovato rifugio in Turchia sembrano piuttosto dei militanti che hanno deciso di continuare la loro lotta con altri mezzi, il telefonino che li mantiene collegati alla loro "rete" oltre confine, e con la parola, i racconti che aggiungono orrore ad orrore e sfidano le versioni edulcorate della propaganda di regime.
E´ vero, non sempre, le loro sono ricostruzioni di cose viste con i propri occhi, spesso si tratta di storie apprese da altri. Ma le testimonianze su certi episodi sono così ripetute e consistenti da lasciare poco spazio al dubbio.Poteva sembrare che su Jisr al Shugur, la città-martire di 50 mila abitanti, che domenica scorsa è stata piegata dai carri armati della famigerata IV Divisione guidata da Maher el Assad, il fratello del presidente, dai servizi di sicurezza e dagli Shabiha, i miliziani fedeli al regime, non ci fosse più nulla da aggiungere.
I portavoce di Damasco hanno esaltato il "ritorno alla normalità" della città e hanno chiesto ai fuggitivi di tornare nelle loro case. Imad, che come gli altri rifugiati accetta soltanto di indicare il suo nome per paura di esporre a ritorsioni i parenti rimasti di là, invece, ribatte: «Sono dei bugiardi, guidati da un grande bugiardo. Non è vero che la situazione a Jisr al Shugur adesso è tranquilla. La città è semivuota. Le strade, la sera, sono deserte. Continuano ad arrestare la gente e a sparare. Quattro giorni fa, hanno fermato 12 persone, componenti della famiglia degli Yusef. Erano appena tornati a casa dopo essersi allontanati durante gli incidenti dello scorso fine-settimana. Sono stati tutti portati allo zuccherificio. Gli uomini sono spariti oltre il cancello, quattro donne, due sui 35-40 anni e due poco più che adolescenti, sono state umiliate in pubblico».
In che modo, umiliate? «Hanno tolto loro i vestiti e le hanno lasciate nude per strada. Me l´ha detto un mio amico che è rimasto e si nasconde in montagna, ma in città ne parlano tutti». Poi prende il telefonino è fa partire la registrazione di un uomo che invoca Allah u akhbar, "Dio è grande". «E´ lui - dice Imad - il mio amico. Mi ha chiamato dopo che è stato ferito al fianco e a una coscia, e sta pregando».
Chiediamo, ma cos´è questa storia dello zuccherificio? «È una vecchia fabbrica di zucchero che occupa un´area di un chilometro quadrato e che è stata trasformata in centro di comando dell´esercito e del mukabarat. Dentro ci sono anche alloggi per gli ufficiali. La gente arrestata per strada viene portata lì e nessuno sa che fine faccia».
La faccia deturpata da un incidente o da una malattia infantile, la barba delineata a punta di forbice, Imad ha 31 anni e non è sposato. Nega di aver mai usato armi contro il regime, ma ammette, implicitamente di avere partecipato alla protesta. «Lavoravo ad Aleppo, in un grande supermercato. Quando sono cominciate le manifestazioni ho perso il lavoro. Allora sono tornato dai miei, in un villaggio vicino a Jisr al Shugur. Ma anche lì ci sono state manifestazioni. L´esercito ha sparato. Ci sono stati molti morti. Poi, domenica sono arrivati i carri armati».
Un momento, il regime accusa i manifestanti di aver ucciso, a Jisr al Shugur, 120 tra poliziotti e agenti dei servizi. «Non è vero - interviene Alì, 28 anni, sposato, con un bambino, contadino, proprietario di un uliveto - L´ordine che hanno dato gli ufficiali, era di sparare sulla folla e molti soldati si sono rifiutati. E allora li hanno uccisi. Io ne ho visti cadere una decina».
Ma uccisi da chi? «Funziona così. Gli ufficiali schierano una prima fila di soldati, venti, trenta, che hanno l´ordine di sparare sui manifestanti. Dietro ci sono gli uomini dei servizi. Chi si rifiuta di sparare viene immediatamente colpito. I soldati lo sanno. Gli ordini sono espliciti: chi non spara sarà ucciso. ciononostante molti sono riusciti a scappare».
Questa storia, ripetuta anche da altri rifugiati, contrasta in maniera stridente con la versione ufficiale che accusa i manifestanti (ovvero "bande di terroristi armati") di aver ucciso i 120 militari. E questo è stato il pretesto offerto all´esercito d´intervenire in forze. Ma davanti allo sguardo febbricitante di Osama, un ragazzino di 14 anni che ha la metà destra del cranio coperta da una benda ed escoriazioni profonde lungo tutto il collo, c´è da chiedersi quale pericolo deve aver rappresentato per ridurlo in quel modo. Come molti dei rifugiati arrivati mercoledì a Guvecci, Osama viene dal paesino di Aram Joz (letteralmente, Il campo dei noccioli) quasi attaccato a Jisr al Shugur.
Osama non vuole parlare, preferisce restarsene diffidente all´ombra di grande gelso con alcuni amici. Per lui, però, parla Ahmed, un adulto che lo conosce bene. «Quella di Osama - dice - è una famiglia tranquilla: padre madre e tre figli. Lui faceva la settimana classe. Quando è arrivato l´esercito, domenica scorsa, erano tutti in casa. Nessuno era fuggito nei giorni precedenti. Improvvisamente i soldati hanno cominciato a demolire la casa con un bulldozer. Lui s´è lanciato contro di loro. Un militare lo ha bloccato, mentre un altro lo colpiva sulla testa con un bastone...».
Solo dopo la famiglia è scappata. Osama è stato portato all´ospedale di Antiochia, medicato e curato. Gli altri parenti aspettano che si apra la frontiera per raggiungerlo. «Adesso sono laggiù», ed indica con il dito indice una macchia d´azzurro nel verde delle colline, oltre una strada militare che costeggia la frontiera: l´accampamento provvisorio dei siriani in attesa della salvezza.
Più di ottomila, ormai, ce l´hanno fatta, la metà è stata sistemata nell´edificio di un´ex manifattura tabacchi a Yayladagi, una ventina di chilometri a nord di Guvecci, un paesino lindo, sereno, con la piazzetta piena di anziani che sorseggiano una straordinaria tisana che si trova soltanto fra queste montagne e il cortile del municipio pieno di volontari. Ma per l´altra metà dei rifugiati non c´è più posto nelle tende bianche con il simbolo della mezzaluna rossa allineate poco lontano dalla manifattura. Per questo, ha scritto ieri il Post, vicino al premier Erdogan, se la situazione in Siria dovesse peggiorare, e la massa dei rifugiati crescere a dismisura sarebbe obbligatorio un intervento militare per creare una zona-cuscinetto in territorio siriano dove fermare e assistere i profughi.
Per ora, dalla cancellata della manifattura avvolta da teli di plastica che impediscono agli obbiettivi dei media di penetrare all´interno, trapelano storie di salvezza. Come quella di Soleiman, commerciante di 38 anni, fisico atletico, barba appena incolta e della moglie Suha che hanno percorso a piedi, con i loro cinque figli, dai tre ai 12 anni, sei dei venticinque chilometri che separano Jisr al Shugur dalla frontiera turca. Tornerete a casa come vorrebbero le autorità di Damasco, chiediamo? «Sì - risponde Soleiman, ironico - solo quando Assad deciderà di indire libere elezioni, e a condizione che a Jisr al Shugur prenda anche un solo voto. Ma non lo prenderà».
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