Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 13/06/2011, a pag. 11, l'articolo di Livio Caputo dal titolo " L’islam trova gli anticorpi nella democrazia ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Quei sogni (infranti) d’onnipotenza ", l'intervista di Monica Ricci Sargentini a Aynur Bayram dal titolo " La mia lotta per entrare in Parlamento col velo ", preceduta dal nostro commento. Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Nessuna cambiale in bianco ".
Il GIORNALE - Livio Caputo : " L’islam trova gli anticorpi nella democrazia "

Livio Caputo
Recep Tayyip Erdogan ha ottenuto più della metà dei voti dei turchi, ma non è riuscito a conseguire il suo obbiettivo principale: puntava ad avere i 367 deputati necessari per redigere una nuova Costituzione senza doverla concordare con gli altri partiti; si sarebbe accontentato anche dei 330, che gli avrebbero consentito di cambiare comunque la Carta dopo averla sottoposta a un referendum popolare. Invece, la complicata legge elettorale turca lo ha beffato: alla fine dei conti disporrà di soli 326 seggi su 550, che gli permetteranno di formare un nuovo governo monocolore, ma - a meno di ricevere qualche inatteso «rinforzo» - lo costringeranno a trattare con l'opposizione per la riforma costituzionale.
In altre parole, i grandi progressi che il premier ha fatto compiere al Paese nei suoi nove anni di governo, durante i quali il reddito pro capite è raddoppiato, non sono bastati a superare del tutto le diffidenze dell'elettorato laico e borghese, concentrato soprattutto nelle città dell'ovest, verso i suoi progetti a lungo termine. Gli anticorpi democratici presenti nella società e la paura di una deriva islamista e autoritaria hanno finito con il prevalere, sia pure di strettissima misura, sulla grande organizzazione e sul forte radicamento popolare del partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) nelle zone più arretrate dell'Anatolia.
Il disegno di Erdogan era di modificare l'indirizzo laicista imposto un secolo fa da Kemal Atatürk, trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale sul modello francese, diventare capo dello Stato e potere governare così fino al 2023. Ma l'elettorato pur riconoscendo le sue grandi capacità, ha tenuto conto anche degli aspetti negativi che un suo completo controllo delle istituzioni avrebbe comportato. Ha visto crescere con preoccupazione le sue tendenze autoritarie e intolleranti, che hanno già portato in prigione ben 57 giornalisti che avevano osato criticarlo e fatto precipitare la Turchia a uno degli ultimi posti nella classifica della libertà di stampa; ha temuto che il processo di islamizzazione del Paese, che finora si è tradotto nell'abolizione del divieto all'uso del velo nei luoghi pubblici e nella quasi scomparsa delle bevande alcoliche, potesse portare anche a un ridimensionamento del ruolo delle donne, che secondo un recente discorso di Erdogan, dovrebbero dedicarsi di più alla famiglia e fare almeno tre figli; forse non approva neppure del tutto la recente tendenza della Turchia ad avvicinarsi al resto del mondo islamico, allentare i tradizionali rapporti con gli Stati Uniti e l'Europa e schierarsi apertamente contro Israele.
Quale impatto il risultato elettorale avrà sulla politica estera di Ankara rimane da vedere. All'inizio Erdogan era un grande fautore della adesione Paese alla Ue e dopo l'apertura dei negoziati nel 2005 ha adottato buona parte delle riforme che Bruxelles gli chiedeva; ma da qualche tempo ha perso interesse ed è possibile che, vista anche la opposizione di numerosi Paesi europei, nel corso della prossima legislatura faccia marcia indietro.
Il buon risultato degli unici due partiti di opposizione che sono riusciti a superare lo sbarramento del 10%, il rinnovato Partito repubblicano del popolo e il Partito di azione nazionale, dimostra comunque che, nonostante l'aumento dei voti dell'Akp, la democrazia turca rimane ben viva; e il successo conseguito dai candidati curdi nel sud-est che il problema di questa minoranza, che costituisce il 14% della popolazione, è lungi dall'essere risolto.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Quei sogni (infranti) d’onnipotenza"

Antonio Ferrari
Non c’è leader al mondo che non esulterebbe dopo aver vinto la terza elezione politica consecutiva, aver conquistato ancora una volta la maggioranza assoluta dei voti e dei seggi, e guidare un Paese in ottima salute. In realtà non è così, perché il premier turco Recep Tayyip Erdogan celebra senza esultare un trionfo dal retrogusto amaro.
Un risultato davvero amarissimo per un uomo che già sognava di essere incoronato superpresidente e di entrare trionfalmente nel 2023: cento anni dopo la nascita della Repubblica, fondata da Kemal Ataturk. Il primo ministro, carismatico condottiero di straordinaria abilità, di indubbio coraggio ma di smodata arroganza, aveva tre obiettivi: uno scontato, cioè la vittoria. Due possibili, con un massimo e un minimo. Il massimo era arrivare a 367 seggi su 550, cioè i due terzi dell'Assemblea nazionale e cambiare subito— da solo— la Costituzione, creando le premesse per la Repubblica presidenziale. Il minimo era 330 seggi, per poter promuovere almeno il referendum. Ha fallito entrambi gli obiettivi. L'Akp, il partito islamico-moderato del premier, si è fermato poco sotto, attorno a quota 326 seggi. Certo, c'è sempre la possibilità che Erdogan possa «acquistare» qualche sostegno (la Turchia non è certo refrattaria a disinvolte «campagne acquisti» ), ma il sogno dell'onnipotenza politica si è comunque infranto. Adesso il primo ministro ringrazierà in pubblico il popolo turco, ma in privato dirà che la colpa del trionfo dimezzato è di quei circoli intellettuali e di quei mass media stranieri— l'Economist, ma anche il New York Times— che potrebbero aver impedito il plebiscito, esprimendo favore per l'opposizione laica. Opposizione che si è rafforzata. I laici del Partito repubblicano del popolo crescono sensibilmente rispetto al 2007. Gli ultranazionalisti (ex lupi grigi), colpiti dallo scandalo a luci rosse che ha coinvolto dieci dirigenti, e che forse è stato favorito da ambienti vicini al governo, non crolla sotto la soglia fatidica del 10%. Mantiene i consensi di cui godeva. Cresce il numero degli indipendenti curdi, che non avranno difficoltà a creare il loro partito in Parlamento. È la seconda elezione consecutiva che vede Erdogan vincitore ma non soddisfatto. Potrebbe essere necessario un bagno di umiltà per l'unico leader turco, dopo l'ultimo colpo di Stato, che sia riuscito a godere di uno straordinario e consolidato sostegno popolare. Il premier ha lanciato un'offensiva politica e diplomatica a tutto campo. L'economia sorride ad Ankara, che ha una crescita del Pil lusinghiera. Sull'estero, è sempre primario l'obiettivo dell'ingresso nell'Ue, tuttavia il premier ha dato molto spazio al ministro Ahmet Davotoglu e alla sua teoria dello «zero problemi» con i Paesi confinanti. Ma Erdogan, che conta sul suo indubbio istinto politico, pur essendo amico di Bashar el Assad non ha esitato ad aprire le frontiere a migliaia di profughi e a denunciare coraggiosamente le atrocità del regime siriano.
La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Nessuna cambiale in bianco "

Vittorio Emanuele Parsi
Un voto per la stabilità, ma non una cambiale in bianco ad Erogan affinché possa stravolgere da solo la Costituzione ispirata dai militari dopo l’ultimo pronunciamento del 1980. Erdogan si conferma un leader popolare e populista, alla guida di un «catch-allparty» capace di rastrellare il consenso dei ceti medi, imprenditorialmente dinamici e socialmente conservatori, per lungo tempo politicamente ed economicamente emarginati dalla borghesia post-kemalista.
Proprio il successo economico turco - Pil su dell’8,9% e disoccupazione giù del 3%, ora attestata all’11,5% - continua ad essere uno dei punti di forza di Erdogan. Un leader che, seppur si appresti a inaugurare il suo terzo premierato consecutivo, non riesce ancora a sciogliere l’alone di ambiguità che avvolge le sue intenzioni.
Anzi. Proprio negli ultimi mesi questo si è semmai infittito. Mentre, in nome della democrazia, Erdogan chiedeva ai suoi cittadini quel plebiscito che gli avrebbe consentito di svellere la declinante autonomia delle Forze Armate e il residuo potere di veto della magistratura (guardiane di un’interpretazione dura del concetto di laicità delle istituzioni), contemporaneamente non si tratteneva da esercitare il proprio potere con quello stile eccessivamente disinvolto, che gli ha attirato accuse di autoritarismo strisciante da parte dell’Economist, che ha fatto sospettare una regia occulta dietro il videotape a luci rossi il cui involontario protagonista è stato il leader dei nazionalisti, che ha visto l’intimidazione fiscale e giudiziaria ai danni di gruppi editoriali e giornalisti ritenuti «nemici». Tutti fatti che non hanno certo giovato ad accreditare la fiducia incondizionata in un uomo che già altre volte è apparso incline a far coincidere la democrazia con il volere della sua maggioranza, dimenticandosi sia del rispetto delle minoranza sia del cosiddetto «rule of law».
In molti devono aver pensato che se all’Akp fosse riuscito il colpo di acquisire la maggioranza di 330 seggi (o addirittura quella dei due terzi del Parlamento), non solo ben poco sarebbe rimasto in piedi della laicità della Repubblica costruita da Mustafà Kemal, ma anche si sarebbe palesato il rischio di un’involuzione autoritaria, tanto più a mano a mano che la prospettiva di adesione all’Unione si faceva sempre meno realistica. E si sono comportati di conseguenza nel segreto dell’urna.
C’è infine un ultimo elemento che potrebbe essere importante nel concorrere a limitare il trionfo dell’Akp, ed è relativo alla politica estera. Elaborata dal ministro degli Esteri Davotoglu - e sintetizzata dalla rassicurante formula «nessun problema coi vicini» - in realtà la dottrina di politica estera perseguita dalla Turchia negli ultimi anni è stata caratterizzata dall’ambizione di giocare il ruolo di leader regionale, modificando progressivamente l’asse del proprio intervento dall’Asia centrale ex sovietica al Medio Oriente, così passando dalla suggestione del «panturanesimo» a quella del «neo-ottomanesimo». In questo disegno, le relazioni con i Paesi arabi del Levante, con la Siria e persino con l'Iran si sono decisamente infittite nel nome delle comuni radici islamiche, concorrendo tra l’altro a raffreddare quelle con Israele, e con gli stessi alleati della Nato. Ora, le notizie drammatiche che da mesi provengono dalla Siria hanno mostrato agli elettori quanto sia pericoloso improvvisarsi apprendisti stregoni in Medio Oriente e l’afflusso di migliaia di profughi ai confini turchi (a pochi giorni dal voto) ha dato concretezza al timore che la Turchia, piuttosto che tornare a esercitare un’azione ordinatrice, possa essere coinvolta dal disordine mediorientale. Quel Levante in cui la Turchia di Erdogan sperava di rinverdire i fasti dell’impero liquidato da Atatürk, sta cambiando e tanto l’Iran quanto la Siria non appaiono più quei solidi partner con cui tentare ardite triangolazioni strategiche. A segno del radicale ribaltamento di prospettive, ad Ankara guardano con crescente orrore alla prospettiva che dal crollo del regime siriano possa sorgere una nuova regione curda semi-indipendente (dopo quella iracheno).
CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " La mia lotta per entrare in Parlamento col velo "

Aynur Bayram
Nell'intervista di Monica Ricci Sargentini manca la domanda più importante, quella di come sia possibile conciliare le dichiarazioni di Aynur Bayram con l'impronta filoislamista che Erdogan ha impresso alla Turchia da quando è al potere. La legge che obbliga le donne a indossare il velo nel pubblico impiego non viene menzionata. Come mai?
Ecco l'intervista:
Aynur Bayram ha 31 anni, un viso rotondo incorniciato dal tradizionale velo islamico e grinta da vendere. Contro tutto e tutti ha deciso di correre per un posto da deputata. Se sarà eletta cercherà di entrare in Parlamento con il chador per sfidare il divieto che impone alle donne turche di avere il capo scoperto nelle scuole, negli uffici pubblici e nei luoghi istituzionali. La sua battaglia è sostenuta da comuni cittadini e cittadine che hanno raccolto i soldi per permetterle di candidarsi come indipendente: 7.734 lire turche (circa 3.500 euro) una cifra da capogiro per lei e che è stata aumentata in occasione di questa tornata elettorale (prima bastavano 200 euro). I suoi volantini sono stati preparati a Istanbul e Trebisonda mentre l’automobile per fare campagna elettorale le è stata fornita dalla gente di Bursa, la sua città natale non lontana da Istanbul. «Ho deciso di fare questo gesto— racconta al Corriere della Sera — quando mi hanno impedito di fare la giornalista parlamentare perché portavo il velo. Ho scritto a tutti i partiti, alla Commissione per i diritti umani e a quella per le pari opportunità ma nessuno mi ha degnato di una risposta» . Indignata, Aynur Bayram scrive un articolo sul sito di news online Haberevet. com denunciando l’accaduto. Riceve tante risposte dai lettori. «Ho capito che il problema era molto sentito — dice— e questo mi ha dato la forza di continuare» . Nonostante il 95%dei cittadini turchi sia musulmano lo Stato fondato da Kemal Ataturk nel 1923 vanta una tradizione laica che penalizza le donne più religiose. A loro è preclusa la carriera universitaria o politica come l’assunzione in un ufficio pubblico. Spesso anche le aziende private storcono il naso quando fanno il colloquio a una giovane velata. «Questa — spiega — non è una questione politica ma una questione di diritti umani e di libertà» . Aynur ha vissuto questo problema sulla sua pelle già da ragazza quando ha dovuto sospendere gli studi perché i militari chiusero tutte le scuole religiose. Siamo nel 1997, anno del colpo di Stato che disciolse il partito filo-islamico dell’allora premier Necmettin Erbakan: «Non ho potuto fare il liceo pubblico — racconta — perché avrei dovuto togliermi il velo e non era possibile seguire le lezioni da casa» . Di rompere la tradizione non se ne parla. I suoi nonni emigrarono anni fa dalla Georgia, lei è nata e cresciuta a Bursa ma con la mentalità di una famiglia molto religiosa: «Questo è ciò in cui credo» . Così la ragazza perde anni preziosi, comincia la scuola secondaria a 21 anni e, oggi, a 31 studia per conseguire un master. Ora le servono 70 mila voti per varcare la soglia del Parlamento con il velo in testa. L’ultima a provarci fu Merve Kavakgi nel 1999, ma non riuscì nemmeno a sedersi sullo scranno per quanto fu derisa dai suoi colleghi. Lei spera di farcela anche se l’impresa è quasi impossibile (i risultati saranno resi noti solo oggi, n. d. r.): «Comunque vada non mi arrenderò mai, ci proverò ancora e mi inventerò altre iniziative» . Una delle organizzazioni che l’ha appoggiata dall’inizio, la Baskent Women's Platform, si è appellata a tutti i partiti politici perché mettessero in lista donne velate. Solo l’Akp ha raccolto la sfida ma la donna è stata messa quasi all’ultimo posto in modo che non avesse chance. Nonostante la sua simpatia per la causa, il partito di Erdogan ha paura di uscire allo scoperto: tre anni fa ha già rischiato di essere chiuso per attività contro lo Stato laico.
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