Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 12/06/2011, a pag. 11, l'articolo di R. A. Segre dal titolo " Erdogan verso il trionfo, la Turchia sogna l’impero ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, l'articolo di Monica Ricci Sargentini dal titolo " Comizi, fiori, canti: sul bus con Erdogan ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Erdogan verso il trionfo, la Turchia sogna l’impero"

R. A. Segre
Con una economia che cresce al ritmo cinese, una moneta stabile, un'inflazione frenata e un prestigio personale consolidato internazionalmente, il successo nelle elezioni di oggi, del premier turco Erdogan, acclamato come eroe degli arabi per la sua posizione anti israeliana è assicurato. Come certo è il fatto che il partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) resterà alla guida del governo nella prossima legislazione. La sola incognita è se l'Akp riuscirà a ottenere quei 330 seggi su 550 al parlamento unicamerale di Ankara permettendo a Erdogan di cambiare la Costituzione, eliminare il ruolo dei militari come «custodi» della Repubblica laica creata da Atatürk assicurandosi la propria elezione a presidente della Repubblica (di tipo francese) nelle elezioni del 2014. I due soli partiti di opposizione capaci di superare con certezza lo sbarramento del 10% per entrare al Parlamento sono il Partito repubblicano del popolo (Chp) in forte risalita e il partito nazionalista (Mhp) scosso da scandali. Forse riusciranno a bloccare la corsa di Erdogan alla magistratura suprema impedendogli di ottenere la maggioranza assoluta. Il che non impedirà all'attuale e futuro premier di restare alla guida di una nazione giovane, di 80 milioni di musulmani, che intende diventare l'erede dello scomparso ma mai dimenticato glorioso impero ottomano.
Una possibilità che è più vicina alla realizzazione di quanto lo sia l'entrata della Turchia in Europa (per via del veto francese e cipriota) ma per due ragioni che non dipendono dalla Turchia: la fine del mito nazionale arabo e l'eclissi dell'influenza americana nella regione.
Il mito nazionale arabo frutto dell'imperialismo romantico orientalista britannico non si è mai trasformato in realtà nonostante la creazione di quattro stati così detti nazionali arabi sul territorio del Levante ottomano e gli sforzi di Nasser di dar loro una identità politica comune attraverso il panarabismo. Era andare contro la natura stessa degli arabi perché come affermava Ibn Khaldun, il grande pensatore politico del 15esimo secolo, gli arabi - padri non figli del deserto - non hanno né il senso dello stato o della nazione ma solo quello della tribù. Una forza identitaria, una fonte di lealtà che fa prevalere le differenze sugli interessi comuni. Per questo lo stato arabo di Maometto e dei primi 4 Califfi si è rapidamente sfaldato nelle lotte interne, incapace di resistere all'espansionismo degli imperi islamici «periferici» - ottomano e persiano - e in seguito al colonialismo europeo anti turco. Gli stati arabi nati dallo sfaldamento dell'impero ottomano sono così rimasti, a eccezione dell'Egitto (con buona pace degli arabisti europei e americani), degli stati nazionali senza identità comune, all'interno di frontiere tracciate da Londra e Parigi come la «rivolta araba» sta dimostrando. In comune hanno l'odio verso Israele che il presidente turco ha fatto suo in nome della solidarietà coi palestinesi.
Il «modello turco» e l'estendersi della sua influenza politica, economica e religiosa «moderata» sunnita sul Medio Oriente è stato favorito dall'eclissi della potenza americana nella regione. Un'America che dopo aver liberato a sue spese l'Iran dal suo più pericoloso nemico - l'Irak - e abbandonato due alleati - lo Shah dell'Iran, prima, e il presidente Mubarak poi, è restata ora legata a due altri paesi sempre più problematici per Washington: Israele e l'Arabia saudita. Quale sarà il corso degli eventi per questi due paesi così differenti nessuno può dire. Il Medio Oriente dipende molto più dalla capacità di sopravvivenza della monarchia saudita che dalle rivoluzioni nei paesi arabi. Quanto a Israele, c'é qualcosa nei suoi confronti con il disegno neo imperiale turco e persiano che fa pensare a Cipro veneziana rimasta ultimo ostacolo alla marcia islamica su Vienna dopo la caduta di Costantinopoli. Con due fondamentali differenze: lo stato ebraico non si sente in dovere di difendere l'Europa e la tecnologia militare che Israele ha sviluppato è molto differente dal «fuoco greco» che non servì a difendere né Bisanzio né Famagusta.
CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " Comizi, fiori, canti: sul bus con Erdogan "

Il giorno prima del voto avrebbe dovuto passarlo a casa, possibilmente rilassandosi con la famiglia. Ma Recep Tayyip Erdogan è un uomo che ama i bagni di folla. Così all’ultimo momento ha deciso di organizzare un fuoriprogramma elettorale nella sua amata città natale. A mezzogiorno Tuzla, un quartiere della parte asiatica di Istanbul, era un mare di bandierine arancioni e blu con su la lampadina simbolo del partito filo islamico Akp. «Türkiye Büyüsün» (Che la Turchia diventi sempre più grande) gridavano i manifesti. Lui è arrivato sul solito bus con il suo volto stampato sopra che l’ha accompagnato in questi giorni. A bordo la moglie, due dei suoi quattro figli, i fedelissimi dello staff, il ministro per l’Europa Egemen Bagis e il Corriere della Sera. Alto, più magro del solito dopo una maratona elettorale che l’ha visto percorrere 45 mila chilometri in aereo e visitare 68 città, il primo ministro è in maniche di camicia senza cravatta, si sporge costantemente fuori dall’autobus tra la disperazione del servizio di sicurezza. «Perché avete messo quelle transenne? — chiede irritato— Le persone così non possono raggiungermi » . Poi allunga le braccia per prendere un bambino biondo. Il piccolo piange e dopo pochi secondi torna dalla mamma. La gente saluta in modo compulsivo, rincorre il mezzo facendo foto con il telefonino, si mette la mano sul petto e canta la canzone tormentone dell’Akp: «Noi tutti insieme siamo la Turchia, abbiamo attraversato la stessa strada, abbiamo bevuto la stessa acqua» . Tre tappe, tre discorsi. Ad Erdogan l’hanno ripetuto fino alla nausea gli strateghi elettorali: l’importante è il contatto visivo, occhio con occhio, è quello che porta voti. Ma la sua non sembra nemmeno essere una strategia. Quando deve salire sul tetto dell’autobus per fare il solito comizio si trasforma. È un istrione, un oratore nato. Percorre l’angusto spazio su e giù con i mano due microfoni: «Il viaggio finisce oggi— grida — ora siete voi che dovete decidere se darmi la possibilità di andare avanti. Abbiamo fatto tanta strada insieme. Vi chiedo se volete darmi la possibilità di continuare» . «La Turchia è orgogliosa di te» , grida la folla. E lui risponde: «Fratelli miei, io sono orgoglioso di voi» . Sulla gente volano garofani rossi. L’obiettivo è fissato tra dodici anni, quando si festeggerà il centenario della Repubblica fondata da Kemal Atatürk. «La Turchia sarà pronta nel 2023» è lo slogan del partito della Giustizia e dello Sviluppo. Erdogan chiede ai cittadini un mandato lungo per portare a termine progetti grandiosi come quello di un nuovo canale sul Bosforo che unirà il Mar Nero al Mar di Marmara in modo da alleggerire il traffico sullo stretto. O come la costruzione di due città satellite di Istanbul a prova di terremoto data la nota pericolosità della zona. Per non parlare dell’ambiziosissimo programma di sfruttamento idroelettrico dei fiumi come la diga di Ilisu che allarma molto gli ecologisti o del rilancio di Ankara che diventerà «una capitale esempio per il mondo» . Visto dall’interno l’Akp sembra quasi un’azienda a conduzione familiare. La figlia Sumeyye ha il volto solare incorniciato da un velo blu e un vestito nel solco della tradizione islamica. Ogni volta che il padre sale sulla cima dell’autobus, scortato dalla moglie Emin, lei scende tra la gente, sorride, stringe mani, bacia, ascolta. A 26 anni è già consigliere del partito e c’è chi dice che farà carriera. Ma altri scommettono sul fratello maggiore Bilal che ha preso un master ad Harvard e sta finendo il dottorato in scienze politiche. Anche se lui si schernisce: «Non lo farò mai» . A onor del vero, però, la platea non è composta solo da donne velate. Özlem Türköne, viso luminoso e capelli al vento, ha 34 anni ed ha finito ora il suo primo mandato da deputata: «Dal 2002 ad oggi— dice orgogliosa— la presenza femminile in parlamento è passata dal 4%al 10%» . A Pendik, altro quartiere del lato asiatico, Erdogan affronta la questione curda. «Siamo tutti turchi sotto lo stesso tetto — spiega —, i curdi sono nostri fratelli. La propaganda vuole dividerci ma noi dobbiamo sentirci una nazione» . E poi l’affondo contro l’opposizione. «Cosa hanno fatto loro quando sono stati al governo? Guardiamo i numeri. C’erano le strade? Gli ospedali funzionavano? Domani potete dare voi la vostra risposta nell’urna» .
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