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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.06.2011 Elezioni in Turchia: democrazia a rischio con Recep Erdogan
Analisi di Enzo Bettiza, Luigi De Biase. Cronaca e intervista a Egemen Bagis di Monica Ricci Sargentini

Testata:La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Enzo Bettiza - Luigi De Biase - Monica Ricci Sargentini
Titolo: «La fragile democrazia di Ankara - Vedi Istanbul e capisci le ambizioni (e i limiti) di Erdogan - Erdogan: 'Basta atrocità'. Svolta alla vigilia del voto - Siamo noi l’ispirazione della primavera araba»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/06/2011, a pag. 1-35, l'editoriale di Enzo Bettiza dal titolo "La fragile democrazia di Ankara ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Luigi De Biase dal titolo " Vedi Istanbul e capisci le ambizioni (e i limiti) di Erdogan ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, l'articolo di Monica Ricci Sargentini dal titolo " Erdogan: 'Basta atrocità'. Svolta alla vigilia del voto" e la sua intervista a Egemen Bagis dal titolo " Siamo noi l’ispirazione della primavera araba ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Enzo Bettiza : " La fragile democrazia di Ankara "


Enzo Bettiza

Cinquantamilioni di elettori turchi si preparano a consegnare per la terza volta alle urne il loro giudizio sulla situazione politica del più grande e importante Paese mediorientale, a cavallo tra Asia ed Europa, amministrato con successo dai governi monocolori dell’Akp, il Partito islamico moderato per la Giustizia e lo Sviluppo. Non v’è dubbio che anche questa volta, la terza dopo il 2002 e il 2007, il voto si risolverà con una probabile percentuale fra il 43 e il 48 a favore del premier uscente e leader dell’Akp, Erdogan. La Turchia sotto la sua guida abile, spregiudicata, sovente aggressiva e sottile al tempo stesso, si è sviluppata nel corso di un decennio a ritmi di crescita simili a quelli cinesi e indiani. Ha evitato le crisi finanziarie, che hanno scosso l’Occidente, conquistando il sedicesimo posto fra le nazioni più avanzate del mondo. Oggi è una potenza economica, politica e anche militare, col suo storico posto d’onore nella Nato, che va ben al di là dei confini regionali delMedio Oriente e batte con insistenza alle porte dell’Unione Europea. Non è più il Paese dei disastri economici, delle banche fallite, dell’instabilità cronicizzata, tra effimeri governi di coalizione e minacce di colpi di Stato da parte dell’esercito custode della tradizione laica e kemalista. Per molti arabi evoluti Istanbul e Ankara rappresentano un simbolo di rara democrazia musulmana e di efficiente modernità. Tuttavia l’esito di questa tornata elettorale, dopo una campagna nevrotica colma di scandali, ostacoli, pesanti imboscate, si preannuncia oberato e inquinato da sospetti che gettano molte ombre sulle intenzioni dell’Akp e del suo padrone assoluto: il sempre più autoritario e più intollerante Recep Erdogan. Il voto turco è diventato materia di una tempestosa polemica internazionale dopo che l’Economist, mandando su tutte le furie Erdogan, ha osato invitare gli elettori a voltargli le spalle e privilegiare il Partito Repubblicano del Popolo (Chp), fondato da Atatürk e oggi guidato dal sessantenne Kemal Kilicdaroglu. Questi, che si richiama insieme alla severità laica di Atatürk e alla pacatezza umana di Gandhi, è di fatto l’unico credibile capo dell’opposizione, il più pericoloso dei rivali politici di Erdogan. «One for the opposition», cioè un voto per il repubblicano Chp: l’endorsement del prestigioso settimanale britannico, contrario all’islamico conservatore Akp, non mira di certo a impedire la vittoria di Erdogan che nessuno mette in dubbio: mira, essenzialmente, a limitarne un trionfo eccessivo che potrebbe portarlo a conquistare i due terzi dei 550 seggi dell’Assemblea. La portata di un simile dilagante risultato consentirebbe a Erdogan di realizzare il suo progetto di riscrivere la Costituzione, trasformando la Turchia in una repubblica di tipo presidenziale francese e concedendo a se stesso, almomento opportuno, gli amplissimi poteri di un presidente di tipo gollista. C’è chi dice e teme che se il piano di Erdogan andasse in porto, egli, manipolando una Costituzione riscritta sulla misura delle sue ambizioni,metterebbe in serio pericolo la già vulnerata emagra democrazia turca. Si parla di un «ottomanesimo di ritorno». L’intolleranza del partito dominante alle critiche, l’insofferenza del leader per la libertà d’opinione, il numero dei giornalisti, più di cinquanta, che da tempo languiscono senza processo nelle dure carceri anatoliche, i complotti inventati contro partiti non islamici, magistrati indipendenti, alti gradi delle forze armate: è questo purtroppo il quadro politico che la Turchia pur ricca, industrialmente e finanziariamente emancipata, ci presenta alla vigilia di un voto che Erdogan vorrebbe personalizzare al massimo. Lo sbarramento incredibile del 10 per cento mette fra l’altro a rischio la coesistenza etnica, lasciando nell’incerto la sorte dei candidati curdi, mentre nel Sud-Est del Paese i rappresentanti della cospicua minoranza curda minacciano rivolte disperate contro la recrudescenza del nazionalismo turco. Alla quasi sepoltura della tradizionale collaborazione con Israele, accusato da Erdogan di aver addirittura foraggiato l’endorsement dell’Economist, si aggiungono le ambiguità dei rapporti di Ankara con l'Iran e la Siria. Oggi come oggi, non è tanto o soltanto il pericolo di una radicale svolta islamista quello che dovrebbe preoccupare di più Bruxelles negli impervi negoziati per la candidatura turca all’Ue. La vera urgente preoccupazione che dovrebbe allarmare l’Europa è, soprattutto, lo stato di fragilità in cui versa la salute democratica della Turchia. Kilicdaroglu ha detto bene: «Gli arabi ammirano la nostra democrazia, ma questo governo vorrebbe fare di noi un Paese arabo».

Il FOGLIO - Luigi De Biase : " Vedi Istanbul e capisci le ambizioni (e i limiti) di Erdogan "


Recep Erdogan

Le cronache più raffinate sono quelle di Edmondo De Amicis, che vide Istanbul grazie ai denari e ai buoni uffici degli editori Treves. Il suo bastimento lasciò il mare di Marmara una notte del 1876 e attese l’alba fra le nebbie di Galata, l’antico quartiere affidato ai commerci dei marinai genovesi: da quel punto, un punto di confine fra l’oriente delle rivolte e l’Europa progressista, cominciò a descrivere palazzi e colonne e strade affollate d’Istanbul, la città “di bellezza universale e sovrana”, ma anche d’intrighi e d’imbrogli. “Il Corno d’oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume – raccontò De Amicis nel suo romanzo – Sulle due rive s’innalzano e s’allungano due catene parallele di città, che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontori; cento anfiteatri di monumenti e di giardini, una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti, in mezzo ai quali migliaia di minareti dalla punta lucente s’alzano al cielo come smisurate colonne d’avorio e sporgono boschi di cipressi che discendono in strisce cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti. E una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde”. Pochi, oggi, possono arrivare a Istanbul passando per il Corno d’oro: è un privilegio per i marinai delle petroliere che hanno ancora il permesso di seguire questa rotta – sono sempre meno e in futuro potrebbero sparire del tutto. Ma l’impressione che si prova sulla strada che collega Istanbul ai suoi aeroporti – il grande Atatürk e il moderno Gokcen, dove fanno scalo i jet più misteriosi d’oriente, dalla compagnia di stato del Daghestan agli iraniani di Kish Air – è molto simile a quella di cui parlava De Amicis. La città è ovunque, è una bolla che copre senza un ordine preciso ogni angolo di terra e si allarga seguendo la linea dell’orizzonte. Secondo le stime ufficiali gli abitanti sono tredici milioni, ma si pensa che il numero effettivo abbia già superato i diciassette. Per il premier, Recep Tayyip Erdogan, la città ha raggiunto il limite: non può più crescere e non si può permettere che lo faccia ancora. Così, Istanbul è diventata uno dei temi principali della campagna elettorale che si chiude oggi, e che domani porterà al voto la Turchia per il nuovo Parlamento. Erdogan è al governo dal 2002 con Giustizia e sviluppo (Akp), un partito che combina i valori dell’islam moderato alle regole del liberismo. I sondaggi dicono che vincerà le elezioni per la terza volta consecutiva, assumendo in questo modo il suo ultimo mandato da premier. La campagna elettorale dell’Akp si è svolta soprattutto a Istanbul, una città che Erdogan conosce bene perché l’ha guidata da sindaco per quattro anni, dal 1994 al ’98. Nelle ultime settimane ha presentato un piano per modificare l’architettura della metropoli, un progetto radicale che si basa su due grandi pilastri. Il primo è il nuovo canale che collegherà il mar Nero al Mediterraneo: dovrebbe nascere nella parte europea della Turchia, a cinquanta chilometri da Istanbul, e permetterebbe di eliminare il traffico nel Bosforo. “Lo chiameremo ‘Canale Istanbul’ – ha annunciato nella conferenza stampa di presentazione – Gli studi di fattibilità partiranno nei prossimi due anni”. Il secondo punto prevede la divisione di Istanbul e la nascita di due città separate, una a oriente e una a occidente, sciogliendo così il vincolo che lega da secoli la sponda asiatica a quella europea. “E’ l’unico modo per evitare il collasso e per garantire uno sviluppo alla città”, ha detto il premier. Molti pensano che sia soltanto una provocazione, e non sarebbe l’unica di questa campagna elettorale. Il superamento del regime militaresco In un certo senso il piano per Istanbul è il modo migliore per comprendere le aspirazioni e i problemi di Erdogan. Con l’Akp la Turchia ha superato l’epoca del regime militaresco – i generali hanno portato a termin e q u a t t r o colpi di stato in sessant’anni e per l’ultimo, quello del ’97, non hanno neanche avuto bisogno di usare i carri armati, è bastato un documento firmato dal Consiglio di sicurezza nazionale – ed è entrata in una stagione di sviluppo senza precedenti nella storia del paese. La produzione industriale è cresciuta a percentuali doppie, le liberalizzazioni hanno portato la ricchezza anche in Anatolia, la regione più povera e più conservatrice, le imprese turche sono riuscite a penetrare nel grande mercato del medio oriente. Dalla Georgia al Pakistan, dalla Siria all’Egitto, non c’è bazar sprovvisto di vestiti o televisori in arrivo dalla Turchia. Alla frontiera di Antakya i mercanti siriani affrontano code lunghe chilometri per entrare nei centri commerciali turchi e acquistare merci da rivendere in patria. Istanbul è la città che più è cambiata in questi anni: nel quartiere Sisli centinaia di operai hanno ormai completato le due torri Trump, che ospiteranno negozi, uffici e appartamenti di lusso. A Kadikoy, il club Fenerbahce ha fatto costruire uno dei centri sportivi più attrezzati d’Europa: il problema è che nessuno ci sa arrivare, neppure chi vive nel quartiere sa indicare la strada giusta. “Qui si cambia ogni settimana – dicono – E’ tutto nuovo, andate in quella direzione e buona fortuna”. Il nuovo potere economico della Turchia ha convinto gli analisti a iscrivere Erdogan e i suoi consiglieri nella casta dei “neo ottomani”. Ma il denaro è soltanto una parte della storia. Il governo si è mosso per migliorare i rapporti con i vicini di casa, una regola che sembra naturale per i paesi europei ma che diventa terribilmente complicata se si hanno confini comuni con l’Iraq, con l’Iran, con la Siria e con nemici storici che portano il nome di Armenia e Turchia. Il processo è divenuto più intenso quando Erdogan ha chiamato al ministero degli Esteri Ahmet Davutoglu, un professore dell’Università Bilkent di Ankara che è stato a lungo il suo consigliere ombra. Davutoglu – noto negli ambienti accademici per il volume “Profondità strategica”, che contiene tutti gli elementi della nuova dottrina turca – vuole “zero conflitti” lungo i bordi del paese e pensa che risolvere gli scontri con i vicini sia il sistema migliore per aumentare gli scambi e il peso diplomatico di Ankara. La tesi ha permesso di firmare alcuni accordi storici con il governo di Yerevan e con quello di Atene (oggi la Turchia è fra i primi fornitori di armi della Grecia, un risultato che non si poteva prevedere vent’anni fa), ma ha anche avvicinato Erdogan ai regimi dell’Iran e della Siria. A quel punto, l’architettura politica dei neo ottomani ha mostrato di avere un limite abbastanza preciso – proprio come accade alla metropoli di Istanbul. Il primo colpo alle ambizioni turche è arrivato dal mare. Nel maggio del 2010, alcune navi cariche di aiuti umanitari e di attivisti armati hanno lasciato il porto di Antalya, nella parte meridionale della Turchia, per raggiungere Gaza. La flottiglia è stata fermata in acque internazionali dall’esercito israeliano e dieci cittadini turchi sono morti negli scontri. Una crisi diplomatica ha diviso per mesi il governo di Gerusalemme da quello di Ankara, due alleati storici della regione, e non si può dire che i rapporti fra le due capitali siano tornati stabili. Per gli israeliani, Erdogan avrebbe dovuto impedire la partenza della Mavi Marmara e la mancata azione equivale a un tradimento; per i turchi, il sostegno ai cittadini di Gaza ora è una priorità. Ma la prova più importante dei limiti turchi è arrivata negli ultimi mesi, quando molte nazioni arabe, dall’Africa del nord al Golfo Persico, hanno affrontato la prima, vera onda di rivolte dalla fine dell’Impero ottomano. Molti analisti pensavano che Ankara avrebbe avuto un ruolo decisivo in questa stagione, ma i diplomatici di Erdogan sono sembrati spesso disorientati. A poco è servito il potere economico maturato da dieci anni a questa parte, a nulla sono valsi gli appelli e i consigli di un premier che, sino a poco tempo fa, era considerato il leader ideale in tutto il medio oriente. Davutoglu ha cercato di trovare una soluzione alla crisi in Libia, ma il premier ha deciso di unirsi alle operazioni della Nato prima ancora che fosse stabilito un contatto certo con Muammar Gheddafi. Erdogan ha chiesto al leader siriano, Bashar el Assad, di concedere pane e riforme alle piazze che si agitano da settimane contro il suo esercito, ma non può dire di avere ottenuto risultati incoraggianti, dato che l’oppressione va avanti senza intoppi e migliaia di cittadini siriani attraversano in questi giorni il confine turco alla ricerca di protezione. L’architettura dei neo ottomani, che hanno spostato in pochi anni il loro raggio d’azione verso i vicini d’oriente, non è ancora un successo: per Erdogan sarà difficile proseguire la costruzione dell’impero senza tener conto di questo particolare. “Stiamo andando avanti e indietro allo stesso tempo, come se fossimo la banda dell’esercito ottomano”, scrive con un po’ di sarcasmo un opinionista del quotidiano Zaman, Orhan Kemal Cengiz. I cambiamenti costituzionali Alle elezioni di domani nessuno si aspetta grandi sorprese. L’Akp è sicuro della vittoria e i partiti di opposizione (i repubblicani kemalisti del Chp e i nazionalisti di destra dell’Mhp) possono soltanto impedire che il partito di governo conquisti i due terzi del Parlamento. Se Erdogan riuscirà nell’impresa, potrà modificare la Costituzione senza il bisogno di alcun confronto politico. Raggiunto il limite dei tre mandati, il premier vorrebbe trasformare l’ordinamento da parlamentare a presidenziale per poi candidarsi alla massima carica dello stato. Questa ipotesi non è gradita alla stampa europea: l’Economist, in particolare, si è schierato contro l’Akp e ha auspicato il successo del Chp – un risultato poco probabile, dato che i kemalisti hanno chiuso le ultime elezioni al 20 per cento ed è probabile che questa volta stiano sotto al 30. Erdogan, tuttavia, sa di non poter rinunciare all’occidente. Se fallirà l’ingresso nell’Unione europea, se perderà i contatti con la Nato, tutti i risultati raggiunti nei primi dieci anni al governo saranno messi in discussione in patria come lo sono ora all’estero. Le crisi arabe hanno svelato i limiti del suo approccio così come l’ultra sviluppo economico mette in difficoltà Istanbul. L’Europa progressista offre ancora garanzie migliori rispetto all’oriente delle rivolte.

CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " Erdogan: 'Basta atrocità'. Svolta alla vigilia del voto "

Fino a un mese fa Bashar Assad era per il primo ministro turco prima di tutto «un caro amico» ma le ultime «gesta» del regime hanno convinto Recep Tayyip Erdogan che la misura era ormai colma: «Quello che sta succedendo in Siria è disumano — ha detto a sorpresa il premier giovedì sera in tv— e non può essere digerito» . Una dichiarazione che segna la più ampia presa di distanze dal Paese confinante, con cui Ankara vantava ottimi rapporti e che considerava un partner strategico. Evidentemente a poche ore dalle elezioni politiche, dopo 1.100 morti e con migliaia di siriani che varcano il confine, la situazione era diventata insostenibile. «Ho parlato con Assad quattro o cinque giorni fa — ha aggiunto il leader dell’Akp —, gli ho spiegato le cose chiaramente ma prendono la situazione alla leggera» . Domani la Turchia è chiamata a rinnovare il Parlamento. Il voto è considerato cruciale, soprattutto per la posta in gioco. La tentazione di Erdogan, o meglio il suo sogno, è un numero: 367. Cioè i seggi che consentirebbero al primo ministro turco di cambiare la Costituzione senza ricorrere all’aiuto di altri partiti. Per l’Akp, il partito per la Giustizia e lo Sviluppo dato già per sicuro vincitore, sarebbe il coronamento di un cammino iniziato con il primo governo nel 2002. Negli ultimi giorni di campagna elettorale, mentre percorreva, instancabile, il Paese in lungo e in largo «Papa Tayyip» , come lo chiamano affettuosamente i suoi elettori, non ha fatto mistero delle sue ambizioni: «Il nostro primo obiettivo è varare una nuova Costituzione più libera e democratica, ma questo dipende dalla composizione del Parlamento. Se la matematica ci darà ragione potremo fare la riforma senza nemmeno ricorrere al referendum di conferma» . In verità anche un risultato più modesto (330 seggi) darebbe al governo la possibilità di cambiare la Carta sottoponendola poi al voto popolare, come è già stato fatto senza problemi lo scorso settembre. È proprio quello che teme l’opposizione guidata dal Partito Repubblicano del Popolo (Chp), che nella scorsa tornata elettorale si è attestato sul 21%dei consensi e ora è dato in crescita tra il 25 e il 31%. La caccia ai voti è aperta soprattutto nelle città che danno sul Mediterraneo, dove il partito di Kemal Kiliçdaroglu e l’Mhp di Devlet Bahçeli (Mhp) hanno di solito una buona performance. I nazionalisti, però, sono stati indeboliti da uno scandalo a sfondo sessuale che potrebbe ridimensionare l’eccellente risultato del 2007 (14,2%di voti), mettendone a rischio l’entrata in Parlamento (la soglia è del 10%). Buona parte del gruppo dirigente è stata costretta a dimettersi dopo la diffusione illegale di video che documentavano relazioni extraconiugali. E non è mancato chi ha puntato il dito contro l’Akp, l’unica formazione che potrebbe trarre vantaggio da una sonora sconfitta dell’Mhp, perché in quel caso i 550 seggi in palio verrebbero spartiti soltanto tra tre forze (Akp, Chp e i curdi del Bdp). Soltanto domani sapremo con quale agio Erdogan potrà trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale di cui lui stesso potrebbe essere il prossimo capo dello Stato nel 2014. Dalla sua parte ci sono gli innegabili risultati economici, che hanno dato al Paese una crescita pari all’ 8,5%nel 2010, secondo solo a India e Cina, e una grande popolarità grazie a una politica nazional conservatrice attenta anche ai valori religiosi. Ma l’opposizione (e anche qualcuno all’estero) teme la svolta autoritaria: «Il premier non sopporta le critiche — dicono —. O si è con lui o si è tagliati fuori» . Ieri in tribunale lo scrittore Ahmet Altan, direttore del giornale Taraf, si è dovuto difendere da una querela presentata proprio dal suo ex amico Erdogan.

CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " Siamo noi l’ispirazione della primavera araba "


Egemen Bagis

Essendo il ministro per gli Affari dell'Unione Europea, non stupisce che Bagis dipinga la Turchia come pronta per entrare in UE. Quando l'intervistatrice gli fa notare che in Turchia c'è qualche problema con la censura, Bagis nega. Gli consigliamo la lettura dell'editoriale di Enzo Bettiza pubblicato in questa stessa pagina, gli sarà d'aiuto a comprendere le motivazioni che rendono impossibile l'ingresso della Turchia in Europa.
Ecco l'intervista:

L’autobus avanza lentamente per le strade di Maltepe, popoloso quartiere di Istanbul sul lato asiatico, la musica si alterna a una voce che ripete: «Egemen Bagis vi saluta, cittadini è il momento di diventare grandi, camminiamo insieme verso il futuro» . Lui, 41 anni, ministro per gli Affari dell’Unione Europea, uomo di punta dell’Akp, è in piedi da ore ma non si stanca di salutare gli elettori che domani dovranno votarlo nel primo distretto della città dove è in lista subito dopo il premier Erdogan. Tra una stretta di mano e l’altra si rivolge al Corriere: «Quando metteranno la scheda nell’urna— dice— queste persone guarderanno al loro stile di vita, a cosa abbiamo prodotto in questi anni: 13 mila chilometri di strade, una crescita economica dell’ 8,5%contro l’ 1,5%del resto d’Europa e un reddito pro capite passato dai 2.300 dollari l’anno a 11.000. Nessuno farà caso alla spazzatura pubblicata dalla stampa straniera prima del voto» . Il suo governo ha certo migliorato la vita della gente, ma spesso è accusato di non tollerare le critiche. L’Economist ha invitato i turchi a votare l’opposizione per il bene della democrazia. Lei cosa risponde? «Il Paese non è mai stato così trasparente. Ora le persone sono più libere. L’idea che in Turchia ci sia una deriva autoritaria è semplicemente assurda» . Ma la libertà di stampa non è a rischio? In prigione ci sono 57 giornalisti. «I procuratori hanno già chiarito che i reporter arrestati non sono imputati per le loro opinioni o quello che hanno scritto, ma perché hanno commesso dei crimini. E per quanto riguarda gli arresti di massa ricordatevi di Gladio e di Mani pulite» . La politica estera della Turchia è cambiata negli ultimi anni, il Paese è considerato un modello da gran parte del mondo arabo. Ankara ora guarda ad Est? «La Turchia non sta andando né a est né a ovest, la Turchia sta crescendo e sta diventando più sicura di sé. Lo stesso anno in cui abbiamo iniziato il percorso di ammissione all’Ue abbiamo anche assunto la segreteria generale dell’organizzazione della Conferenza islamica. Siamo diventati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu dopo 47 anni. Stiamo negoziando per la pace tra Siria e Israele, Russia e Georgia, Afghanistan e Pakistan, Iraq e Siria. Siamo la parte più ad est dell’Occidente e la parte più ad occidente dell’Est. Ma il nostro obiettivo è Bruxelles perché vogliamo essere parte del più grande progetto di pace del mondo, l’Ue» . Due anni fa in un’intervista al Corriere Erdogan aveva chiesto all’Europa di dire una parola chiara sull’ammissione. A che punto siamo? «Solo l’ 8%dei turchi pensa che la Ue sia sincera con noi, per gli altri sta facendo il doppio gioco. Guardi la questione del visto: i brasiliani possono entrare nell’area Schengen senza problemi, per noi è una vera tortura. Su Cipro la parte turca ha approvato il piano dell’Onu, ma resta sotto embargo. E poi ci sono quei 20 capitoli sulla strada della Ue: 17 sono bloccati da singoli Stati per motivi di politica interna» . Quindi secondo lei l’obiettivo è lontano? «No. Io dico che l’Europa deve prendere la decisione giusta e deve farlo ora. Dobbiamo diventare membri al più presto. Quale garanzia migliore di una Turchia democratica, che l’entrata nell’Unione? L’Occidente dimostri di essere sincero con noi. Durante la guerra fredda abbiamo protetto i nostri alleati della Nato, ma ora vediamo gli ex Paesi sovietici entrare nel club, mentre noi restiamo fuori. Dovevamo forse diventare membri del Patto di Varsavia invece che della Nato?» Qual è la sua posizione verso la primavera dei Paesi arabi? In particolare cosa pensa della situazione in Siria? «Non è la prima volta che abbiamo rifugiati al confine e come nostra tradizione li accoglieremo e accudiremo. In questi Paesi c’è stato un grosso cambiamento: prima si scendeva in piazza solo contro Israele, ora le persone chiedono democrazia, lavoro, libertà. Vogliono essere come la Turchia. Noi siamo la loro fonte di ispirazione» .

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