Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Siria, Bashar al Assad continua indisturbato a sparare sulla popolazione Analisi di Antonio Ferrari, Daniele Raineri. Cronache di Davide Frattini, Viviana Mazza
Testata:Corriere della Sera - Il Foglio Autore: Davide Frattini - Viviana Mazza - Daniele Raineri - Antonio Ferrari Titolo: «Siria, assalto alla città ribelle: decine di morti - La Rete 'libera' e le sue trappole - Troppi silenzi di fronte alle stragi in Siria»
Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/06/2011, a pag. 12, gli articoli di Davide Frattini e Viviana Mazza titolati " Siria, assalto alla città ribelle: decine di morti " e " La Rete 'libera' e le sue trappole ", a pag. 1-13, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo "Troppi silenzi di fronte alle stragi in Siria". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Il regime siriano mostra le ferite mentre spacca il paese in testa ai rivoltosi ". Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Siria, assalto alla città ribelle: decine di morti "
Bashar al Assad
I soldati che avanzano sulla città danno fuoco al bestiame e ai raccolti. Gli abitanti di Jisr al-Shughur vanno puniti per quello che hanno fatto e per quello che hanno visto. Qui il regime siriano avrebbe subito le prime defezioni nell’esercito, ufficiali che si sono rifiutati di sparare sui vicini di casa. Gli ammutinati hanno combattuto contro le truppe fedeli alla famiglia Assad. Che non può permettersi spaccature nelle forze armate e non può permettere che la notizia venga diffusa nel Paese. Le strade sono deserte, racconta chi ha trovato rifugio in Turchia ed è riuscito a parlare con i parenti rimasti indietro. Internet, l’acqua e l’elettricità sarebbero stati tagliati, i telefonini funzionano solo a momenti. Nella città di 41 mila abitanti, gli uomini più giovani difendono le case affiancati dai rivoltosi tra i soldati. «Non fuggono, vogliono restare e sono pronti a morire. È la mentalità militare» , racconta al New York Times uno degli attivisti che sta coordinando le proteste. La gente non avrebbe nulla per difendersi, anche se la televisione di Stato parla «di terroristi armati» . Per rallentare la marcia delle colonne blindate, che avrebbero bombardato i villaggi nei dintorni con l’artiglieria, i dimostranti bruciano i copertoni delle auto. Gli oppositori hanno diffuso il video del colonnello Hussein Armoush, che annuncia di essere passato dalla parte «del popolo che chiede libertà e democrazia» : «Il giorno del giuramento ci siamo impegnati a usare le nostre armi contro il nemico, non contro i cittadini indifesi. Il nostro dovere è di proteggerli, non di ucciderli» . Maher, fratello minore del presidente Bashar, controlla i soldati d’élite della Guardia Repubblicana e della Quarta Divisione corazzata. Sono state spostate dalla capitale per calpestare la rivolta nel nord. I vertici dell’esercito sono dominati dalla minoranza alauita, la stessa degli Assad: il regime teme la sollevazione dei militari sunniti. La frontiera turca a una quarantina di chilometri da Jisr al-Shughur è rimasta aperta per accogliere i rifugiati, in quasi quattromila hanno già passato il confine. I profughi stanno diventando una delle principali fonti per raccontare quello che sta accadendo dentro la Siria. Il Paese si è chiuso al mondo. Bashar Assad non risponde alle telefonate di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite. «Ci stiamo provando da giorni, gli assistenti rispondono che non è disponibile, non ha tempo» , rivela un portavoce dell’Onu. Il giorno numero 88 di rivolta popolare è stato battezzato il «venerdì delle tribù» . Dopo le preghiere di mezzogiorno in moschea, i cortei si sono formati nei villaggi attorno a Deraa, la città nel sud del Paese dov’è iniziata la ribellione, a Homs, Latakia e anche a Damasco, dove ci sarebbe stato uno dei ventotto morti di ieri, secondo le stime degli attivisti (le vittime sono oltre 1.100 dal 18 marzo).
CORRIERE della SERA - Viviana Mazza : " La Rete 'libera' e le sue trappole "
Quando a febbraio la Siria consentì l’uso di Facebook— oscurato dal 2007— gli attivisti non esultarono. Avvertirono che era una strategia per monitorare gli utenti (oggi 580 mila) e colpire i dissidenti, molti dei quali sono stati arrestati e costretti a rivelare le password. Mentre l’Egitto di Mubarak staccò la spina a Internet, in Siria l’accesso viene bloccato in modo localizzato, nei luoghi caldi della rivolta. Gli oppositori usano Facebook, Twitter e YouTube? Se ne servono pure gli hacker e gli agenti del regime per fare propaganda e «infiltrare» i dissidenti. Ora alcuni si chiedono se sia possibile che il regime abbia «creato» la blogger Amina. Lesbica, attraente, colta, brava a scrivere (in inglese), sembra fatta apposta per piacere all’Occidente. Il blog antiregime nasce a febbraio. A giugno la «cugina» (introvabile) ne denuncia l’arresto. Ma le foto sul profilo Facebook di Amina erano state rubate a un’altra donna (oltre un anno fa, pare). Una montatura del regime per screditare casi simili (al costo però di creare un simbolo per la rivolta)? O la tattica di un/a dissidente per sfuggire ai controlli? Il mistero resta, la battaglia continua online.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Il regime siriano mostra le ferite mentre spacca il paese in testa ai rivoltosi "
Daniele Raineri
Roma. Al giorno di rivolta numero ottantotto, al quattordicesimo venerdì di proteste generali costato altri ventidue morti in tutto il paese, dalla Siria interdetta ai giornalisti arrivano due fatti nuovi. Le testimonianze sono per forza di cose confuse, ma parlano con convinzione del passaggio degli oppositori – o di una loro piccola parte – alla lotta armata contro il regime. C’è aria di reazione e di vendetta, anche se la stragrande maggioranza delle manifestazioni è ancora fatta di lente processioni che si limitano a sfidare da lontano i checkpoint militari scandendo: “Il popolo vuole la caduta del regime”, lo slogan panarabo adottato da Tripoli al Bahrein. Ieri, invece che essere il consueto “Venerdì della rabbia”, è stato il “Venerdì dei clan”, un cambio di nome che è anche chiamata alle armi e appello: mollate il regime, o almeno la vostra neutralità inutile, cominciamo a muoverci come grandi gruppi, perché come singoli saremo umiliati e fatti a pezzi uno per uno dalle forze di sicurezza del regime. Le armi sono state bandite in Siria negli anni Ottanta, ma entrano facilmente dai confini vicini – a portata di mano c’è pure il fornitissimo Iraq, dove i fucili d’assalto circolano liberamente. Su Internet, altra prova della trasformazione, è apparso un sito in arabo – “L’intelligence della rivoluzione” – dove i siriani possono compilare la lista della futura vendetta con i nomi degli informatori del regime e degli agenti di sicurezza. E basta guardare i video clandestini che girano per capire i sentimenti dominanti: da quello famigerato della squadra dell’esercito che a Bab Amr cammina sugli arrestati e salta a piedi uniti sopra i corpi – lo senti il regime che cade? E’ questo il regime che cade? chiedono i soldati beffardi, prima di farsi filmare con le dita a V di vittoria – a quello del signore in giacca di pelle che protetto da poliziotti apprensivi cammina e spara con un fucile e tanta flemma sui manifestanti, e che la voce popolare pazza di rabbia identifica con certezza in Maher el Assad, il fratello del presidente e comandante della Guardia repubblicana e della Quarta divisione, allevato dal padre Hafez perché un giorno diventasse il custode feroce del potere. “Il paese scivolan verso la guerra civile – dice Joshua Landis, professore americano di studi mediorientali con residenza e moglie damascena (ma ora è in America) che scrive i pezzi sulla politica siriana più letti in inglese – è a un passo dalla guerra civile”. Secondo Landis, non è un caso che da una settimana i carri armati del regime stiano circondando e da ieri abbiano cominciato a cannoneggiare Jisr al Shogour, 50 mila abitanti, nel nord ovest del paese. E’ un’area sunnita povera, ai piedi della “Montagna alawita”, il cuore della setta minoritaria che controlla il paese. “Da là – dice il professore – arrivavano molti dei siriani che combatterono gli americani durante la guerra in Iraq, è zona di forti movimenti islamici”. Piazzata a metà sulla strada strategica tra Aleppo e il porto di Latakia, fu attaccata dall’esercito nel 1980 per ordine di Hafez el Assad, il padre del presidente Bashar, due anni prima del massacro di Hama. Ieri era l’anniversario della morte di Hafez, ma per gli abitanti di Jisr al Shogur, in fuga verso la Turchia o minacciati di sterminio dalle forze di sicurezza, “oggi è morto una seconda volta”. Il regime è diventato un nemico mortale, e non può essergli concessa più alcuna credibilità. Anche un altro analista politico che però preferisce rimanere anonimo dice a Reuters, da Damasco, che la Siria rischia la guerra civile e che il governo sta accettando la possibilità. “Il regime ha già annunciato che spaccherà il paese sulla testa della gente, pur di tentare di restare al potere”. Nel nord in guerra si parla anche – senza possibilità di verifiche – di posti di blocco sunniti, contrapposti a quelli degli alawiti. Sarebbe l’inizio dello scenario libanese, o iracheno, che i siriani un tempo scacciavano con gesto distratto della mano, come a dire “impossibile succeda da noi”. Il secondo fatto è la spaccatura inaudita tra la Turchia e la Siria. Tra i due paesi le relazioni non sono mai state facili, almeno fino al 2000, quando con la salita al potere dell’Akp islamico del presidente Recep Tayyip Erdogan arrivò una stagione d’armonia e di buone intese politiche. Per due mesi i turchi hanno fatto la spola tra Ankara e Damasco per convincere Assad ad andarci piano, a premere sulle riforme, a cavarsela con pochi graffi. Lui ha risposto con 1.300 oppositori morti, più del doppio che in Libia. Ieri Erdogan è stato durissimo, ha chiamati i manifestanti “combattenti per la libertà” e ha detto che non “manderà più giù la barbarie siriana”. La settimana scorsa, la Turchia ha ospitato la conferenza degli oppositori siriani. Per Assad, la rottura con Erdogan potrebbe diventare la ragione finale della propria caduta.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Troppi silenzi di fronte alle stragi in Siria "
Antonio Ferrari
Quella che si vive in Siria è una tragedia a puntate. Si sa come è cominciata, non si sa con certezza come finirà. Però si può ormai prevederne l’epilogo, cioè la fine inesorabile del regime di Bashar el Assad. Condannato dalle feroci logiche del suo clan alauita, che all’inizio pensava di poter riformare. La comunità internazionale— la Ue per prima — sembra un’altra volta impotente. Avvertimenti, embarghi, montagne di parole e nulla di decisivo, mentre Assad si permette di non rispondere alle telefonate del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Allora va detto qui, chiaro e forte, che l’unico ad aver risposto duramente a Damasco è un Paese che fino a ieri era amico della Siria: cioè la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che domani avrà le sue elezioni. Erdogan, dopo aver inutilmente spinto Assad a fare subito le riforme, ha aperto le sue frontiere ai profughi in fuga dalla Siria, che già sono migliaia. Non solo. Davanti alle immagini delle violenze compiute dai soldati di Assad, ha parlato di situazione «inumana» e di «intollerabili atrocità» . Mentre l’Unione europea si avvita nei distinguo, il presidente della Repubblica Abdullah Gül dichiara che «la Turchia è pronta ai peggiori scenari, anche a quello militare» , per mettere fine alla tragedia. Parole durissime e molto importanti. Tuttavia perfettamente comprensibili per affrontare la crisi di un Paese confinante che è ormai entrato nella guerra civile. Gli appuntamenti del venerdì sembrano scontati appelli alla carneficina. I manifestanti disarmati nelle piazze delle città, e le squadracce del regime che sparano ad altezza uomo. Quello che è accaduto nelle ultime ore a Damasco, ad Aleppo, a Homs, a Hama, e che il web ha documentato nonostante la cappa della censura imposta dal regime, dimostra che si è vicini ad una sanguinosa e dolorosa resa dei conti. C’è una dura consapevolezza: il crollo del regime siriano, se avverrà, sarà più fragoroso e problematico di quello di Gheddafi. La Siria è infatti il crocevia di tutte le contraddizioni del Medio Oriente.
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