Continuano esecuzioni, torture, stragi nei paesi arabi-musulmani nel silenzio dell'Occidente. Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/06/2011, a pag.23 gli articoli di Cecilia Zecchinelli sulla Siria, di Alessandra Muglia sull'Iran. Dal GIORNALE, a pag.14,Gian Micalessin sullo Yemen.
Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " Siria, il venerdì dei bambini perduti "

. Hamza Al Khatib
Era iniziato tutto con l’arresto di un gruppo di ragazzini delle medie, colpevoli di aver scritto con lo spray rosso graffiti anti-regime sui muri delle scuole di Deraa, quasi tre mesi fa. E i bambini sono rimasti tragici protagonisti della rivoluzione siriana. Hamza Al Khatib, 13 anni, torturato a morte a fine maggio dalle forze fedeli a Bashar Al Assad, è diventato un simbolo, il «martire» che tutti conoscono. Altri sono stati uccisi da proiettili, ritrovati in fosse comuni. Senza nome o meno «famosi» , ma tantissimi: sono almeno 40 i piccoli morti della rivolta che non si ferma nonostante la repressione brutale. Gli ultimi, mercoledì notte, sono stati una bambina di 4 anni e un bimbo di 10, ammazzati a Rastan, l’ennesima cittadina ribelle. E a tutti loro la rivoluzione oggi renderà omaggio, dedicando agli «atfàl al hurriya» , ai bambini della libertà, il nuovo venerdì di protesta. Il messaggio è stato lanciato negli ultimi giorni su Internet, sui telefonini, con il passa parola. Insieme al conto dei morti aggiornato di ora in ora: oltre 1100 dice l’opposizione, solo a Rastan ancora ieri bombardata almeno 50. «Un regime che tortura e uccide i bambini dimostra di essere al collasso totale» , aveva dichiarato pochi giorni fa Hillary Clinton. Ieri il segretario di Stato Usa ha aggiunto che «la legittimità di Assad è ormai quasi finita» , come lo è la pazienza di chi attende da lui vere riforme. «Se non è in grado di attuarle— ha aggiunto — deve andarsene. Dove, decida lui» . Non è ancora la richiesta di dimissioni immediate da parte di Washington, ma poco ci manca. E ieri la Clinton ha chiesto alla comunità internazionale di «essere più unita nel condannare Damasco» : un messaggio diretto a Russia, Cina e quei Paesi arabi che più o meno apertamente appoggiamo il regime. Far pressione sui governi del mondo è uno degli obiettivi immediati della dissidenza, in patria e in esilio, che non si accontenta certo del rilascio di qualche centinaio di prigionieri politici (sono 10mila quelli arrestati solo da marzo), o della promessa di un «dialogo nazionale» per studiare riforme. Ieri, 300 attivisti anti-Assad, la maggioranza siriani rifugiatisi all’estero tra cui alcuni Fratelli Musulmani proibiti in Siria, si sono riuniti ad Antalya, in Turchia. «È la prima volta da 50 anni che un gruppo così numeroso si forma per agire insieme» , ha commentato Orouba Barakat, che vive ad Abu Dhabi. Il gruppo, che ha eletto un comitato di 31 membri, chiede che Assad se ne vada subito, che entro fine anno si vada alle urne. Nel frattempo, coordina le proteste, raccoglie documenti per incriminare il raìs alla Corte penale dell’Aja, studia azioni di lobbying mondiale per avere sostegno politico e finanziario. Ieri, davanti all'hotel di Antalya dove si teneva la conferenza, una cinquantina di sostenitori del regime siriano ha manifestato gridando «noi amiamo Assad» . Questa volta la polizia (turca) ha protetto i dissidenti, disperso chi voleva attaccarli.
Corriere della Sera-Alessandra Muglia: " Un'altra donna uccisa come Neda, l'Occidente non ci dimentichi "

Haleh Sahabi
«Sa cosa mi sorprende? La vostra sorpresa» . Marina Nemat non nasconde il suo smarrimento nel commentare la notizia dell’attivista iraniana morta mercoledì durante l’affollato corteo funebre del padre, Ezatollah Sahabi, noto oppositore politico più volte incarcerato. Sua figlia Haleh, 57 anni, ha perso la vita stroncata da un «infarto» , secondo la versione ufficiale: o meglio, dopo essere stata picchiata da uomini del regime, secondo alcuni testimoni. Uscita il mattino in permesso dal carcere di Evin, non vi ha fatto più ritorno. La stessa famigerata prigione da cui è riuscita a scappare Marina Nemat, sposando, appena diciottenne, Haleh il una guardia carceraria, dopo due anni d’inferno (raccontati nel bestseller «Prigioniera a Teheran» ). Quel carcere che continua a condizionare la sua vita da sopravvissuta (narrata in «Dopo Teheran» ). «L’Occidente sembra destarsi dal torpore davanti a notizie come queste— constata con amarezza la scrittrice al telefono dalla sua casa a Toronto —. La morte di Haleh Sahabi ha fatto il giro del mondo perché lei era conosciuta. Ma queste tragedie sono la norma in Iran: da più di trent’anni, non passa giorno che non si consumino abusi e violenze come queste, anche ora mentre stiamo parlando. Ma i media si nutrono di "casi": oggi la Sahabi in Iran, ieri il bimbo mutilato e ucciso in Siria. E’ scioccante vedere come si grida all’orrore e un attimo dopo si dimentica» . Lei ha dedicato il suo ultimo libro a due generazioni di donne vittime del regime: una sua compagna di classe, Shahnush Behzadi, e Neda. Crede che anche Neda sia già stata dimenticata? «Shahnush è stata arrestata a 15 anni e uccisa dopo 3 mesi a Evin: a volte ancora la cerco, la sua morte ha un che di evanescente, come tutte quelle della sua generazione: non ci sono foto né filmati a documentarla come nel caso di Neda. Neda è stata immortalata nella sua morte, resa eterna da quel minuto di filmato sul web. Ma le dimostrazioni di massa seguite alla sua uccisione a cosa hanno portato? Ci sono state migliaia di persone ammazzate e nessun cambiamento» . Non crede che il vento del cambiamento possa soffiare anche sull’Iran? «La storia è molto paziente. La cosidetta primavera araba non è iniziata in Tunisia ma nel 1979 in Iran. Siamo così schiacciati sull’oggi che ci perdiamo la prospettiva. La rivoluzione in Iran è stata alimentata dall’insofferenza per l’interferenza di Stati Uniti e Gran Bretagna negli affari iraniani. Ma l’Iran non è diventato una democrazia. Il regime non si sconfigge con la violenza. Una rivoluzione non garantisce la democrazia, basta vedere quello che sta succedendo in Tunisia e in Egitto. Ma ora gli iraniani sanno che la soluzione dei loro problemi è nelle loro mani. L’Iran è forse la peggiore dittatura del Medio Oriente: non si conosce abbastanza l’estensione delle atrocità compiute dal regime, non si conoscono i dettagli. È la maggioranza silenziosa che permette le ingiustizie. Anche in Occidente dobbiamo diventare cittadini più attivi e muoverci contro le "nostre"ingiustizie. La democrazia non si esporta ma si può esportare un modello di cittadinanza più attiva» . Ritiene efficace la battaglia condotta da donne come Shirin Ebadi contro l’oppressione? «Ho incontrato Shirin a maggio, ha la statura di un leader mondiale: integra, intelligente, appassionata, impegnata, potrebbe essere l’Obama iraniano, ma non le sarà mai permesso di candidarsi. In Iran la sua avvocatessa, l’attivista Nasrin Sotoudeh, è stata incarcerata a gennaio perché ha osato rappresentare dei prigionieri politici. Ma al di là dei personaggi noti, ci sono tante giovani donne che, in totale anonimato, nei vari ambiti lottano per il cambiamento: scrivono articoli, organizzano proteste, cercano di rendere Internet accessibile creando "proxy"per aggirare le censure del regime. Del resto le donne in Iran sono vittime di una doppia discriminazione: politica e di genere. Basti pensare che la testimonianza femminile davanti al giudice vale la metà rispetto a quella maschile. O che l’uomo ha diritto di picchiare la donna se non gli obbedisce» .
Il Giornale-Gisan Micalessin: " Quei sogni di primavera (araba) diventati incubi per Obama"

Le astrazioni intellettuali sono belle e fascinose, ma le illusioni devono fare i conti con la realtà. Ora se ne sta rendendo conto anche il visionario Barack Obama. Dopo aver fatto delle rivolte arabe la propria bandiera, dopo averle ridotte nei suoi discorsi ad un unico sogno indistinto, eccolo alle prese con la primavera yemenita. Una primavera scoppiatagli tra le mani. Una maledetta primavera capace - nella migliore delle ipotesi-di ridurre lo Yemen ad un buco nero d’instabilità, nella peggiore di trasformarlo in un nuovo califfato di Al Qaida.
Lo testimoniano gli scontri sanguinosi che infuriano in queste ore intorno alla capitale Sanaa assediata dai guerrieri Hashid, una federazione tribale decisa a farla finita, una volta per tutte, con l’inamovibile presidente Abdullah Saleh. Lo dimostra l’offensiva integralista nel sud del Paese dove i terroristi di “Al Qaida nella Penisola Araba” (Aqap) controllano ormai due città. Lo comprova l’arrivo nella regione di John Brennan, il super consigliere per l’antiterrorismo spedito a cercar di comprendere cosa non funzioni nei sogni intellettual- romantici del presidente. Per capire che lo Yemen fosse un ginepraio e intuire che la rivolta in corso da gennaio non fosse solo un impetuoso afflato di democrazia non serviva un veterano della Cia come Brennan. Bastava seguire le cronache yemenite.
Il nord del Paese è dilaniato da più di sette anni dalla rivolta delle tribù sciite. Il sud è una terra nessuno in cui Al Qaida ha totale libertà di movimento. Il resto del territorio è un puzzle di rivolte e contese tribali. In questo contesto quel vecchio arnese del presidente Abdullah Saleh, rieletto con percentuali bulgare dal 1978 in poi, non era certo un faro di democrazia e liberalità. Saleh garantiva però un minimo di stabilità, arginando le pulsioni filoiraniane del nord e quelle terroristicofondamentaliste del sud. Ora invece il ginepraio è una santabarbara in fiamme. Ed anche stavolta la Casa Bianca non è priva di responsabilità. Come già successo in Tunisia, Egitto e Libia il presidente Obama e i suoi consiglieri - pur regalando incondizionati appoggi verbali ai rivoltosi - han trascurato d’individuare una fazione in grado di garantire un cambiamento controllato e di difendere gli interessi occidentali. E così anche la primavera yemenita è ormai una metastasi fuori controllo. La rivolta degli Hashid guidata dallo sceicco Sadiq Al Ahmar era forse la più gestibile. La tribù ha dato i natali anche al presidente Saleh.
Lo sceicco Al Ahmar, incaricato dagli anziani di guidare la marcia su Sanaa e deporre l’ormai detestato presidente, ha studiato per cinque anni negli Stati Uniti dove ha conseguito nel 1987 un brevetto di pilota. Dunque Al Ahmar era il candidato ideale per rimpiazzare Saleh senza trasformare la rivolta in guerra tribale. Per favorire la transizione sarebbe bastato garantire allo sceicco l’alleanza dei reparti dell’esercito yemenita addestrati dagli stessi americani in funzione anti Al Qaida. La forza militare e la potenza di fuoco di quella coalizione sarebbe bastata a convincere Saleh a farsi da parte. Obama, invece, ha tentennato anche stavolta. Ed ecco il risultato. Le cosiddette “forze speciali” governative invece di spianare la strada ad Al Ahmar combattono una sanguinosa guerra con le milizie tribali dello sceicco.
E quest’ultimo pur di conquistare Sanaa ha accettato l’alleanza con alcune fazioni integraliste. Ma la situazione più inquietante è al sud. Al Qaida, dopo aver conquistato sabato il capoluogo provinciale di Zinjibar, ha alzato le sue bandiere mercoledì anche sulle moschee di Azzan, dichiarata parte del nuovo emirato islamico. Un emirato pronto, grazie all’alleanza con i gruppi qaidisti somali, a conquistare ancheil controllo del braccio di mare che divide la penisola araba dal Corno d’Africa.
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