Nei paesi arabi si tortura, ma come osserva oggi Ugo Volli nella sua cartolina, gli 'indignati' per professione non si indignano per niente.
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Pubblichiamo alcuni articoli su Siria, Iran, Pakistan, Yemen.
Eccoli:
Il Foglio: " Un bambino torturato è il simbolo della rivolta siriana contro gli Assad"

Roma. La rivolta siriana ha trovato un nuovo simbolo: Hamza al Khateeb è un ragazzo di tredici anni rapito, torturato e ucciso dalle forze di sicurezza. Originario di Saida, paese a dieci chilometri da Daraa, la città dove le proteste contro il regime del presidente siriano, Bashar el Assad, sono cominciate per prime, proprio dopo l’arresto di una dozzina di scolaretti sorpresi a scrivere su un muro slogan antiregime. Durante una manifestazione del 29 aprile Khateeb è stato sequestrato dalle forze di sicurezza. Quasi un mese dopo, il 25 maggio, il suo corpo è stato gettato davanti alla porta di casa. Ai parenti è stato intimato di mantenere un silenzio assoluto. I genitori hanno però deciso di reagire: prima della sepoltura hanno girato un video per denunciare la brutalità delle repressioni del governo. Su Internet si vede il corpo di Khateeb, evirato, percosso, la faccia gonfia e livida, con fori d’arma da fuoco sul torso, sulla pancia e sulle braccia. L’Ong Human Rights Watch commenta il video confessando che “non ha mai visto tanto orrore”. Il filmato ha fatto il giro della Siria, causando nuova rabbia e volontà di lotta tra i movimenti di opposizione. E’ stata creata la pagina Facebook “Siamo tutti Hamza al Khateeb”, che in meno di una settimana ha già raccolto più di sessantamila adesioni. Attivisti locali sostengono che la morte di Khateeb ha ridato vitalità alla rivolta, che da ormai quasi sette settimane investe il regime di Damasco. “Negli ultimi tempi le proteste sembravano essersi, almeno parzialmente, fiaccate – dice al Foglio una fonte dalla Siria che per motivi di sicurezza preferisce rimanere anonima – la rabbia per la morte di Khateeb agisce come un nuovo collante tra i diversi movimenti”. Dopo la morte, il volto del bambino, pieno e rotondo, dal sorriso incerto, è apparso sui manifesti delle proteste. L’International Herald Tribune racconta che, durante una manifestazione a Douma, alla periferia di Damasco, tra gli attivisti in marcia si è levato il coro “Siamo tutti Hamza al Khateeb”.“Sono in molti – continua la fonte del Foglio – che sperano che Khateeb funga da catalizzatore sulla scia dell’egiziano Khaled Saeed”, ucciso brutalmente dalla polizia ad Alessandria il sei giugno 2010. Sei mesi dopo la sua morte, l’ex presidente, Hosni Mubarak, è stato cacciato e Wael Ghonim, il creatore dello slogan e del movimento, è stato scelto dalla rivista Time come “uomo più influente dell’anno”. Il segretario di stato americano, Hillary Clinton, ha criticato duramente Damasco per la morte di Khateeb, evidenziando che “simbolizza per molti siriani il collasso della fiducia delle persone verso qualunque tentativo del governo di lavorare e ascoltare il suo popolo… Posso solo sperare che questo bambino non sia morto invano”. Il presidente Assad però non desiste e rilancia: martedì, nel tentativo di fiaccare l’opposizione, ha concesso un’amnistia generale per i reati politici commessi prima del 31 maggio e ieri ha istituito una commissione per avviare un dialogo con le forze d’opposizione. E’ servito a poco; i manifestanti hanno dichiarato subito che le concessioni “sono arrivate troppo tardi”. Ieri, le proteste sono continuate: nella città di Rastan, nel centro del paese, attivisti hanno detto che le forze di sicurezza hanno ucciso almeno venti persone e a Talbisa, nel sud, un altro manifestante è morto. Ma nonostante la ferocia le proteste sono continuate. “La morte di Khateeb ha alzato il livello di rabbia nel paese – continua la fonte in Siria del Foglio – i siriani conoscono le violenze del regime, ma vederle lì, in un video, concentrate su una sola persona, per di più un ragazzino, crea una rabbia che va oltre quella politica”. Gli attivisti durante le manifestazioni e sui social network hanno chiamato Khateeb “il bambino martire” e lo hanno paragonato al venditore ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, che dandosi fuoco ha scatenato le proteste in medio oriente. E’ presto, in uno scenario che assomiglia sempre più a una guerra civile – ieri per la prima volta i manifestanti hanno risposto al fuoco – per capire se la ferocia di Bashar el Assad gli si ritorcerà contro.
Il Foglio: " Due ideologie violente lottano sotto la cadrega di Ahmadinejad"

Roma. C’è uno scontro al calor bianco tra i due blocchi portanti del regime iraniano, dalle dinamiche oscure e con totale esclusione della cosiddetta componente “riformista”, schiacciata dalla repressione. Tre giorni fa, l’ayatollah Khamenei ha tentato una mediazione, affermando che Ahmadinejad “fa un buon lavoro”, ma anche invitandolo a “isolare i deviazionisti” e chiedendo che il Parlamento e il governo “cooperino per il bene della Repubblica islamica, anche perché il nemico cerca di provocare divisioni tra i dirigenti'”. Ieri però, il Parlamento, presieduto dal frontale avversario di Ahmadinejad, Ali Larijani, ha disatteso l’invito della Guida Suprema e ha deliberato di denunciare Ahmadinejad alla magistratura per la “evidente violazione di legge” operata assumendo l’interim del ministero del Petrolio dopo aver dimissionato il 14 maggio il titolare Massud Mir Kazemi. Al di là delle questioni procedurali e dell’evidente tentativo di Ahmadinejad di operare una massima concentrazione di potere in un paese in cui il petrolio costituisce i due terzi del pil, questo è l’ennesimo episodio di uno scontro ben più profondo, ben più radicale della divisione di quote di potere. Il grande blocco “centrista” di Ali Larijani si oppone ormai anche dal punto di vista ideologico al “blocco nazionalista” di Ahmadinejad. L’accusa ricorrente da parte del blocco centrista di Larijani di “deviazionismo” e di “stregoneria” a carico delle dottrine propugnate da Esfandiar Rahim Mashai, primo consigliere del presidente, suo consuocero e suo candidato alle prossime presidenziali, lascia intravedere uno scontro che concerne le basi ideologiche stesse del regime. Di fatto si assiste alla messa in discussione da parte del “partito di Ahmadinejad” della centralità della “velayat e faqih” non più soltanto “da sinistra” (la riforma in senso riduttivo era la bandiera dei riformisti), ma ora anche “da destra”. Il tutto, nel solco di una tradizione religiosa ben radicata in alcuni Grandi ayatollah, a partire da quell’Ali Montazeri che erroneamente in occidente è stato indicato come riformista. In sostanza quella parte del blocco militare e civile che fa capo ad Ahmadinejad (a esclusione di parte dei vertici dei Pasdaran, che vedono il generale Jafaari, uomo di Khamenei, schierato con i conservatori), soffre ormai la concentrazione dei poteri nelle mani del Giureconsulto. Da qui, una nuova bandiera ideologica, basata sulla aggressiva politica estera di Ahmadinejad e sui suoi indubbi successi in campo diplomatico (l’Iran non ha mai avuto tanti alleati nel mondo come oggi) e sul recupero della tradizione di non impegno in politica del clero sciita, propria della secolare tradizione akhbari. A questa tradizione i conservatori contrappongono la tradizione usciuli, che esalta invece la funzione degli ulema, sino a sconfinare nella gestione diretta dello stato. Le due tradizioni, in realtà, furono stravolte da Khomeini – di cui ieri si celebrava l’anniversario della morte – con il suo governo del Giureconsulto, inviso peraltro a molti Grandi ayatollah (da lui arrestati), funzionale a concentrare tutto il potere nelle sue mani. Ora il blocco di Ahmadinejad, in vista della successione di Khamenei (e non vi sono forti leader che possano aspirarvi) vuole raccordare il nazionalismo dei dirigenti dei “ministeri della forza” e dell’apparato militare e nucleare, l’ideologia revanscista dei reduci della guerra contro l’Iraq, con la dottrina di quei Grandi ayatollah che sostenevano (come sostiene peraltro il Grande ayatollah di Najaf, Ali al Sistani) che il clero non deve occuparsi direttamente di politica. Il tutto, in raccordo con la potente e misteriosa setta degli Hojatieh, ben radicata nel clero.
La Stampa-Giordano Stabile: " Yemen, attacco alle tribù, 40 morti a Sana'a"

È durata pochissimo la tregua fra il presidente dello Yemen Ali Adallah Saleh e i capi tribù che ora guidano la rivolta contro l’uomo forte di Sana’a. Un salto di livello innescato dal rifiuto del presidente di dimettersi nella cornice, tutto sommato a lui favorevole, dell’«Iniziativa del Golfo», la mediazione patrocinata dalla nazione leader della regione, l’Arabia Saudita. Dopo aver detto sì e poi essersi tirato indietro, Saleh ha dovuto affrontare una rivolta molto più organizzata a livello militare, perché spalleggiata del più importante dei capi tribù dello Yemen, lo sceicco Sadek al Ahmar.
In una settimana sono morte almeno duecento persone, secondo fonti dell’opposizione, in gran parte dimostranti disarmati, ma anche qualche decina di «guerriglieri» delle tribù ostili al presidente. Ieri, dopo tre giorni di tregua, il bilancio è stato pesantissimo: 41 vittime, secondo la tv panaraba Al Arabiya, che citava fonti mediche dell’ospedale di Jumhuriya. Gli scontri tra le due fazioni sono ripresi nella notte, davanti alla residenza dello sceicco Al Ahmar, nel quartiere di Al Hasbah. Tutt’e due le fazioni si accusano di aver rotto la tregua, ma non è chiaro chi ha cercato realmente di riaccendere lo scontro. Al Ahmar ha avvertito il presidente che «se vuole una rivoluzione pacifica, siamo pronti. Ma se sceglie la guerra, lo combatteremo».
In realtà, secondo l'opposizione «laica», che sognava uno scenario all’egiziana, è lo stesso Saleh a sfruttare sapientemente le fratture tribali per schiacciare la rivolta nel sangue. «Ha capito che la semplice repressione poliziesca non bastava - spiega Walid al Saqaf, ex direttore dello Yemen Times ora in esilio in Svezia - ed è passato all’opzione militare. Ma per far questo bisogna aver le spalle coperte. È lì la differenza tra lui e Gheddafi. Il raiss libico era inviso all’Arabia Saudita, che invece considera Saleh un alleato fidato e blocca ogni seria iniziativa internazionale per fermare il massacro».
Per Al Saqaf, che tra l’altro ha sviluppato un software per poter visitare i siti Web censurati dal regime, anche l’Iniziativa del Golfo, seppure non firmata, gioca in realtà a favore del presidente. «La clausola che prevede l’immunità per i crimini commessi durante la rivoluzione è un via libera ai massacri. Saleh sa che comunque non finirà davanti a un tribunale. È una vergogna che la comunità internazionale abbia accettato un simile compromesso».
La Stampa-Francesca Paci; " Mia moglie Asia Bibi rinchiusa in una cella senza poter dormire "

Ashiq Bibi non è abituato agli incontri ufficiali, alle strette di mano, ai flash dei fotografi di fronte ai quali chiude regolarmente i piccoli occhi spaventati e fa un passo indietro quasi temesse di disturbare. È nato 51 anni fa nel poverissimo villaggio di Ittanwali, in Punjab, dove ha vissuto nell’ombra tutta la sua vita fino all’arresto dell’amata moglie Asia tristemente nota come la Sakineh pachistana, la contadina cristiana accusata dalle compagne di lavoro d’aver violato la famigerata legge contro la blasfemia.
«L’ho vista martedì scorso nel parlatorio della prigione di Sheikhupura, era sciupata, magra, ma almeno adesso può dormire perché grazie alle pressioni internazionali l’hanno spostata in una cella più grande in cui riesce a sdraiarsi. Chiedeva continuamente dei bambini che non vede ormai da un anno e le ho promesso che sarei stato via solo due giorni e poi avrei fatto di tutto per portarli da lei» racconta da Parigi dove ha presentato il libro della giornalista Anne-Isabelle Tollet «Blasfema» che uscirà il 15 giugno in Italia per Mondadori. Li chiama «bambini» sebbene nessuno dei suoi cinque figli lo sia più davvero: la primogenita Nassim ha 21 anni, mentre l’ultima, l’undicenne Esha, disabile, ha smesso definitivamente di giocare quando una mattina di giugno del 2009 due poliziotti hanno bussato alla porta di casa per portarle via la mamma. Il calendario è fermo a quel giorno anche per Ashiq, che il mese successivo ha lasciato il lavoro nella fabbrica di mattoni di Ittanwali per trasferirsi con la famiglia a Lahore: «La situazione era diventata impossibile. Non c’erano mai stati problemi con i musulmani, eravamo amici. Ma di colpo, dopo la cattiva pubblicità dei mullah fondamentalisti, avevano tutti paura di parlare in pubblico con noi, ci evitavano come il male. Per non menzionare le minacce: ne riceviamo anche a Lahore dove abbiamo già dovuto cambiar casa tre volte».
Il 7 novembre scorso un tribunale del distretto di Nankana, 75 km a ovest di Lahore, ha incriminato Asia condannandola all ’ i m p i c c a g i o n e . Ashiq è un uomo semplice come l’abito tradizionale bianco che si stira da solo, ci ha messo un po’ a capire cosa stesse accadendo: «Avevo scoperto la legge sulla blasfemia un paio di mesi prima, quando era stato arrestato un uomo del villaggio di Gujra, ma credevo che alle donne non potesse capitare. Ora so che ci sono diversi casi e non si tratta solo di cristiani, i mullah accusano anche i musulmani moderati o scomodi». Secondo la Commissione Nazionale Giustizia e Pace tra il 1986 e il 2009 sono finite nella trappola della iniqua legge almeno 964 persone, 479 delle quali musulmane. Quindici mamme cristiane si trovano attualmente in carcere come Asia Bibi.
«Ci manca tutto di Asia, dalla sua presenza fino ai piatti di riso al curry con i peperoni - continua Ashiq -. I bambini sanno che rischia la morte, la loro vita è sospesa. Mi danno lettere e disegni da portarle, anche se posso a mala pena mostrarli perché ho a disposizione solo 15 minuti e le grate sono talmente strette che non riesco a infilare neppure un dito. Il giorno della festa della mamma avevo così tanti fogli per Asia che ha pianto, proprio come quando le raccontai che il governatore del Punjab Salman Taseer era stato ucciso per averla difesa». Forte della campagna internazionale che dopo la sentenza ha inondato il governo pachistano di 40 mila email di protesta, Ashiq si è appellato all’Alta Corte: «Ho speranza, ma ormai so che tutto può succedere». Lo sa da quel giorno estivo di due anni fa quando alcune contadine che lavoravano nei campi con la moglie quarantacinquenne le chiesero di andare a prendere l’acqua al pozzo e poi la insultarono perché, in quanto cristiana, la contaminava. Lei si difese e, nell’indifferenza di chi abbassava lo sguardo per paura, fu denunciata per blasfemia: «Da noi nessuno si mette contro la maggioranza, specie nel caso di dispute religiose. Ma il Pakistan è il mio Paese e lì c’è Asia, sto dove sta lei, viva o morta».
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