L'attentato contro i militari italiani in Libano ha una matrice siriana riconoscibile, è questa la linea seguita dalla maggior parte dei commenti sui giornali oggi, 28/05/2011. Riprendiamo quelli più significativi:
Il Foglio: " Bomba contro gli italiani in Libano, ma Hezbollah scagiona i suoi miliziani"

Beirut. La bomba esplosa ieri al passaggio di una pattuglia di Caschi blu italiani nei pressi di Sidone, nel Libano meridionale, era stata piazzata per uccidere. L’entità dell’esplosione avvenuta all’ingresso della città, a quanto pare innescata a distanza con un radiocomando, non lascia spazio a dubbi sulla volontà di uccidere degli attentatori. Sei militari sono rimasti feriti, due in modo grave. Non è detto che nel mirino ci fossero proprio gli italiani. Sidone si trova a nord del fiume Litani, 40 chilometri a sud di Beirut, quindi in “zona neutra”, al di fuori dell’area assegnata alla missione Unifil e sotto il controllo di fatto di Hezbollah compresa tra la “Blue Line” – che segna il confine pericoloso con Israele – e il fiume Litani. La città di Sidone è attraversata spesso dalle colonne di tutti i 29 contingenti militari di Caschi blu provenienti o dirette a Beirut e anche in questo caso il mezzo colpito rientrava nella base italiana di Shama dopo una missione di trasporto a Beirut. Secondo la tv libanese Future Tv l’ordigno esploso era stato nascosto dietro la barriera di cemento armato sul ciglio della superstrada che collega la capitale al porto di Sidone. La deflagrazione ha colpito l’ultimo dei quattro veicoli italiani – il più facile per chi ha azionato il radiocomando – vicino a un checkpoint delle forze libanesi. Le blande regole d’ingaggio della missione Unifil impediscono un capillare controllo del territorio nell’area assegnata ai Caschi blu, ma a nord del Litani le forze dell’Onu non hanno nessuna giurisdizione né possono esercitare alcuna attività militare di prevenzione. Nonostante le crescenti provocazioni effettuate negli ultimi mesi dai miliziani di Hezbollah che in più occasioni hanno ostacolato le pattuglie di Unifil, l’intelligence e le autorità di Beirut sospettano che l’attentato sia opera dei gruppi jihadisti legati ad al Qaida ben presenti nei campi profughi palestinesi di Sidone e in particolare a Ayn al Hilwe, dove nel febbraio 2010 ci furono duri scontri tra militanti di al Fatah e del gruppo salafita Jund al Sham (Soldati del Levante), movimento aderente ad al Qaida. Il contingente italiano è attualmente di quasi 1.800 uomini.A rafforzare l’impressione che si tratti di un attentato dei salafiti – Sidone è una città a maggioranza sunnita, e quindi potrebbe ospitare gli estremisti; più giù è tutta zona sciita – è arrivata la dichiarazione sdegnata di Hezbollah, che qualche ora dopo l’esplosione ha condannato l’agguato contro i militari italiani di Unifil con “sgomento, dolore e rabbia”, come hanno detto all’agenzia Agi il ministro degli Esteri del movimento sciita, Ali Daghmush, e il portavoce Ibrahim al Moussawi. Hezbollah sostiene di non avere sotto controllo l’area nella quale è avvenuto l’attentato e ha speso parole dolci per l’Italia, che secondo gli esponenti del movimento “ha contribuito alla pace e alla stabilità nel sud, e ha protetto i cittadini che ci vivono”. In realtà, come può testimoniare chi c’è stato, Hezbollah non ha interesse a colpire Unifil, per di più al di fuori dalla propria area d’operazioni, perché la missione delle Nazioni Unite non arreca alcun disturbo alle attività del movimento. “Capita che a volte blocchino l’accesso delle pattuglie dei Caschi blu a certe zone, costringendole ad aspettare fuori. Quando hanno finito con i loro traffici, permettono alle pattuglie di entrare. Fatta in questo modo, l’attività di sorveglianza delle Nazioni Unite che dovrebbe impedire a Hezbollah di armarsi in previsione del secondo tempo della guerra dell’estate 2006 contro Israele non serve a nulla”, dicono dal Libano fonti che preferiscono restare anonime. Hezbollah, è la conclusione poco lusinghiera, non vi ha attaccati perché vi ritiene innocui. Altri analisti invece vedono dietro l’attentato la mano del movimento sciita. La bomba sarebbe un’intimidazione in risposta alle pressioni occidentali sulla Siria che sta massacrando i manifestanti che da dieci settimane chiedono la fine del regime degli Assad. Hezbollah è legata a Damasco da relazioni strettissime, e quello di ieri sarebbe soltanto un assaggio – per chi sostiene la responsabilità del movimento – di quello che potrebbe accadere se l’occidente decidesse di interferire con gli affari interni della Siria, come è sembrato ieri al termine del G8 di Deauville. Se non ci lasciate stare, è il messaggio, abbiamo a disposizione numerose opzioni per dissuadervi. Colpire i vostri uomini in Libano, o colpire con i razzi Israele, appena al di là del confine. Il paese dove stazionano i dodicimila peacekeeper di Unifil è sull’orlo di una crisi politica permanente. Da gennaio è senza governo, da quando i ministri legati a Hezbollah hanno abbandonato l’esecutivo
Il Foglio: " Chi sta con Assad "

Roma. La Quarta divisione corazzata di Maher el Assad ha contato otto soldati morti nell’undicesimo venerdì di protesta siriano: tre hanno perso la vita nella città meridionale di Dael, tre a Qatana e uno a Zabadani, due sobborghi di Damasco, un altro a Jableh, vicino a Latakia. Manifestazioni e scontri – pare senza vittime – sono stati segnalati a Rokn Eddine, un altro sobborgo di Damasco, a Deir el Zour, a Homs e Hama nel nord, a Daraa nel sud e a Darbasiye nella zona curda. Ad Albu Kamal, vicino alla frontiera irachena, i manifestanti hanno bruciato le foto del leader di Hezbollah libanese, Hassan Nasrallah, che pochi giorni fa aveva sfidato le piazze siriane definendo i civili che protestano “servi di Israele e degli Stati Uniti”, e assicurando pieno sostegno al leader di Damasco, Bashar el Assad. Secondo Haytham Manna, il portavoce della commissione araba dei Diritti umani, in quasi tre mesi di rivolte le vittime non sono state meno di 1.100, 16 mila gli arrestati, 300 gli scomparsi, 4.000 i feriti. Al momento, ha aggiunto l’attivista siriano, “sono cinque le città sotto assedio a causa della resistenza civile della popolazione”. A Daraa, dove tre mesi fa è partita la protesta contro il governo, “oggi i cittadini hanno soltanto due o tre ore di libertà di movimento, che sono usate per organizzare altre manifestazioni”. Il quadro della situazione in Siria è nettamente più grave e sanguinoso rispetto a quello che si è verificato nei mesi scorsi in Tunisia, Egitto e anche Libia – da cui, peraltro, non sono mai giunte immagini così forti sulle vittime delle milizie di Gheddafi nei giorni che hanno preceduto la risoluzione Onu che autorizzava “l’intervento umanitario”. Ciononostante, la comunità internazionale si mostra ancora incapace di effettuare pressioni sufficienti a fermare la violenta occupazione militare delle città ribelli. A differenza di quanto è avvenuto in Tunisia, Egitto, Libia e anche in Yemen, non si registra il minimo scollamento al vertice del regime di Damasco, che peraltro è assolutamente coincidente con il vertice e con il quadro di comando delle Forze armate. Nelle Forze armate si sono verificati soltanto episodi di diserzione. Alcuni militari di basso grado, probabilmente sunniti, si sono schierati con le armi assieme ai civili contro l’esercito. Anche la decisione tardiva dell’Unione europea di includere Bashar el Assad nella lista dei dirigenti del regime sottoposti a sanzioni personali – una scelta che comporta il sequestro dei beni all’estero, il divieto di circolazione in Europa e la minaccia di denuncia al Tribunale Onu – mostra di non sortire nessun effetto. La strage compiuta ieri dalle milizie governative conferma questa tesi. Il simbolo della debolezza della comunità internazionale – a fronte di una situazione umanitaria ben più grave rispetto a quella libica – è la decisione del G8 di depennare, su richiesta della Russia, qualsiasi richiamo ad Assad dal comunicato finale del vertice. L’unica valutazione sulla crisi è la seguente: il G8 “non è soddisfatto della situazione attuale in Siria”. Prima del vertice, il presidente russo, Dmitri Medvedev, ha avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente siriano, suo stretto alleato, che ha appena concordato con Mosca la concessione di una base militare strategica nel porto di Latakia. Medvedev non è riuscito, però, a ottenere alcun rallentamento della repressione, né alcun impegno concreto di riforme. Il quadro comincia a porre dei problemi alla Russia, tanto che, a margine del G8, il rappresentante speciale della Federazione russa sulla cooperazione con i paesi africani, Mikhail Margelov, ha dichiarato: “Se nel prossimo mese in Siria non si vedranno le riforme, Assad non avrà più il controllo del paese”. I russi, invece, sembrano avere intenzioni di conquistare un ruolo nel futuro del leader libico, Muammar Gheddafi: il numero due degli Esteri, Sergei Ryabkov, ha detto ieri che il colonnello “ha perso legittimità e ora è necessario aiutarlo ad andarsene”. E’ un’apertura verso la soluzione dell’esilio che sarebbe arrivata proprio durante il G8, nell’incontro bilaterale fra Medvedev e il presidente americano, Barack Obama. Anche la Casa Bianca ha fatto capire che esiste un accordo con il Cremlino. “La Russia ha un ruolo in questa partita, è un nostro partner e ha anche la possibilità di discutere con i libici”, ha detto Benjamin J. Rhodes, viceconsigliere per la sicurezza. Da notare che, aprendo l’assemblea della Cei il 23 maggio, il cardinale Angelo Bagnasco ha rivolto durissime critiche a Damasco, accusandolo di “eccessi di violenza, che è causa di una sequenza interminabile di lutti, specialmente tra la popolazione civile”. Una posizione frontale nei confronti di quella dei vescovi cattolici di Siria che, per bocca del vescovo di Aleppo, monsignor Antoine Audo, si sono schierati compatti a fianco del regime con parole inequivocabili e sconcertanti: “Bashar el Assad sta facendo bene, cerca di difendere il paese, gran parte del popolo sta con lui, i cristiani lo sostengono e la repressione delle manifestazioni di protesta messa in atto dal regime nelle ultime settimane è solo questione di autodifesa ".
Corriere della Sera-Guido Olimpio.Fiorenza Sarzanini : " La pista dei gruppi salafiti e dei loro registi "

Il Libano è il Paese delle versioni. Quello che sembra nero diventa bianco. E viceversa. Tutto è possibile. E dunque serve prudenza nell'indicare la matrice dell'attacco contro gli italiani. Per i nostri servizi di sicurezza la pista da privilegiare è quella dei gruppuscoli salafiti che hanno ambizioni qaediste ma mezzi ridotti. Formazioni che si nascondono nei campi profughi palestinesi del sud Libano, si alleano a «emiri» locali e accolgono a braccia aperte volontari dall'estero. Altra precisazione. I soldati italiani non erano il bersaglio specifico, ma sono stati attaccati in quanto parte del contingente Onu. Un'agguato che si lega a dinamiche libanesi e, forse, regionali. In questo quadro i caschi blu sono considerati dagli islamisti dei nemici per due ragioni: aiutano il governo centrale e fanno da «scudo» a Israele impedendo ai militanti di avvicinarsi al confine meridionale. L'uccisione di Osama potrebbe poi dare la possibilità ai colpevoli di presentare il gesto come una rappresaglia per la fine del leader. L'attentato segue un certo fermento registrato dalla sicurezza libanese. Nei primi giorni di aprile, le autorità hanno monitorato il passaggio di estremisti stranieri diretti nei campi profughi di Ain al Hilweh e Rashidye, dove avrebbero fatto causa comune con seguaci di Jund Al Sham, una piccola fazione salafita. I mujahedin hanno reclutato diversi giovani poi addestrati alla preparazione di ordigni. Jund Al Sham conta poche decine di elementi (meno di 100) e in dicembre ha perso uno dei suoi capi, Ghandi Al Samarani, ucciso dopo essere stato torturato per due giorni. Sembra che lo abbiano eliminato perché responsabile di numerose violenze sessuali. O meglio, questo è quello che raccontano le «voci» della zona. Il suo gruppuscolo ha spesso collaborato con un'altra fazione, Fatah Al Islam. Si tratta comunque di realtà ambigue. Sono soggette a scissioni, non hanno alcun seguito popolare e a volte si prestano a manovre. Messi sotto pressione in Libano, alcuni dei dirigenti hanno trovato rifugio in Europa (Grecia e Scandinavia) mescolandosi con i trafficanti di clandestini e piccoli criminali. In parallelo, si muovono le Brigate Azzam, composte da mujahedin che agiscono nel segno di Osama sulla rotta Egitto-Giordania Libano. Questi terroristi non hanno continuità. Un indizio delle loro difficoltà. Restano «in sonno» per mesi, poi provano a rilanciarsi colpendo obiettivi dall'alto valore simbolico come i caschi blu. La loro ideologia è un qaedismo di facciata, a volte spaccone. Non brillano per preparazione militare ma se hanno l'opportunità cercano l’attentato ad effetto: ed è quello che sarebbe avvenuto con l'agguato agli italiani. All'occorrenza diventano lo schermo dietro il quale agiscono altre forze. Ecco perché, esaminando lo scenario dell'attentato, non si deve dimenticare quanto sta avvenendo in Siria, sconvolta dalla rivolta popolare. Damasco — secondo alcuni — potrebbe provocare «incidenti» in Libano per dimostrare che è essenziale il suo ruolo e non va indebolita sostenendo i contestatori. Il doppio ruolo dell'incendiario pompiere. A questo proposito fonti libanesi sostengono che i siriani appoggiano nuclei salafiti, utili per le loro manovre in Libano. Jihadisti in vendita che hanno rimpiazzato i palestinesi radicali degli anni 80. Ancora. Da marzo, sette ciclisti estoni sono in mano a un presunto gruppo terroristico che li ha rapiti nella valle libanese della Bekaa. I sequestratori hanno chiesto un riscatto e diffuso un paio di video «postati» su YouTube da una località siriana. Una vicenda segnata da molti misteri. Alcuni dei «banditi» sono stati uccisi. I prigionieri sono passati di mano almeno tre volte. Gli investigatori hanno litigato tra loro. La chiave dell'enigma, per alcuni, andrebbe cercata sulla via che porta a Damasco e ai suoi tanti servizi segreti.
Corriere della Sera-Franco Venturini: " I nostri militari nell'inverno arabo "

Assad di Siria, il regista ?
Risulta davvero difficile non collegare l’attacco ai nostri caschi blu con le sanguinose turbolenze che scuotono la Siria e per conseguenza anche il Libano, dove Damasco non ha mai allentato i suoi legami con le milizie sciite dello Hezbollah.L’ attentato di Sidone contro i nostri soldati conferma che accanto alla «primavera araba» esiste anche un «inverno arabo» . È difficile, infatti, non collegare l’attacco ai nostri caschi blu con le sanguinose turbolenze che scuotono la Siria e per conseguenza anche il Libano, dove Damasco non ha mai allentato i suoi legami con le milizie sciite dello Hezbollah. Nel Paese dei cedri, è vero, si usa dire che quando salti su una bomba non sai mai con certezza di chi sei stato vittima. E l’avvertimento appare tanto più credibile ora che l’intera regione è in subbuglio, dalle repressioni siriane alla cronica instabilità libanese, dai nuovi timori israeliani alla fragile alleanza Fatah-Hamas e ai tentativi di negoziato che falliscono sul nascere come è accaduto pochi giorni fa nel duro confronto tra Obama e Netanyahu. Onde d’urto di cui è ancora difficile misurare la portata arrivano da ogni parte, certo dalla Siria del riformatore-carnefice Bashar al-Assad, ma anche dallo Yemen di Abdullah Saleh sempre più in guerra civile, anche dalle incognite che sopravvivono in Arabia Saudita e in Bahrein, anche dalla diversa politica dell’Egitto post-Mubarak verso Gaza e i palestinesi in generale. Il Libano è il termometro più sensibile, e più vulnerabile, di questo insieme di rivolte represse o soltanto latenti che si affiancano a quei tentativi democratici del Cairo e di Tunisi cui il G8 ha fornito ieri sostegno politico e finanziario. Ma nell’insieme— e soprattutto se si mette in conto la guerra in Libia— nel calendario arabo è ancora l’inverno a prevalere. Ed è in un angolo d’inverno che si sono venuti a trovare i nostri militari di Unifil II, veri e propri soldati di pace al servizio dell’Onu. Quando il Palazzo di vetro decise di schierare questo contingente nel sud Libano con il gradimento Usa e quello israeliano, nel 2006, l’Italia assunse un non consueto ruolo di leadership. Arrivarono presto alcune critiche, in particolare dagli israeliani che avrebbero voluto una più attiva azione di disarmo nei confronti dei gruppi di Hezbollah. Ma nel complesso la missione si rivelò, e si rivela ancora oggi, utile a tutti coloro che vogliono prevenire un nuovo conflitto israelo-libanese. Che sarebbe, come l’ultimo, un conflitto tra Israele da una parte e Siria e Iran dall’altra per il tramite di Hezbollah. In una cornice tanto complessa e tanto esposta a un continuo rischio d’incendio, chi e perché ha voluto colpire il convoglio di pace italiano? Il vecchio detto libanese ci vieta ogni certezza. Ma possiamo ricordare che proprio ieri veniva celebrata la giornata dedicata dall’Onu ai peacekeeper morti in servizio: uno sfregio criminale? Sappiamo anche che proprio gli italiani intendono ridurre il loro contingente in Libano, e che l’intera Unifil II potrebbe soffrirne: un colpo all’anello più debole per rompere la catena? Siamo consapevoli, soprattutto, del potenziale destabilizzante che ogni bomba libanese possiede, più che mai se colpisce una forza di pace che, a parere degli estremisti islamici, fa da scudo a Israele e lo protegge dai missili che potrebbero essergli sparati contro dalle zone a nord della striscia di confine. Hezbollah ha negato ogni coinvolgimento e ha rivolto un caldo apprezzamento all’operato dei caschi blu italiani. Meglio così, ma anche Hezbollah ha i suoi fanatici. E poi ci sono vari gruppi minori, particolarmente quelli salafiti, che si ispirano alla jihad qaedista, e ai quali non mancherebbero certo le motivazioni: da vendicare Osama a pestare nel mortaio libanese. Il promemoria che ci è stato indirizzato è doloroso soprattutto per noi italiani, ma di certo non riguarda soltanto noi. Riguarda le stagioni, ancora così poco riconoscibili.
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