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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale-Libero-IC-La Stampa-IlSole24Ore-Corriere della Sera-La Repubblica Rassegna Stampa
21.05.2011 Bibi-Obama, i commenti
di Fiamma Nirenstein-Angelo Pezzana-Federico Steinhaus-Abraham B.Yehoshua-Ugo Tramballi-Paolo Valentino-Lucio Caracciolo

Testata:Il Giornale-Libero-IC-La Stampa-IlSole24Ore-Corriere della Sera-La Repubblica
Autore: Fiamma Nirenstein-Angelo Pezzana-Federico Steinhaus-Abraham B.Yehoshua-Ugo Tramballi-Paolo Valentino-Lucio Caracciolo
Titolo: «Vari»

i nuovi confini di Israele, MAI PIU' !

I lettori trovano in altra pagina la cronaca dell'incontro tra Bibi Netnayahu e Barack Obama, abbiamo scelto quella di Maurizio Molinari, sulla STAMPA, la più accurata fra le moltissime uscite oggi, 21/05/2011, su tutti i giornali.
Dedichiamo invece questa pagina ai commenti più significativi usciti oggi, tralasciandone alcuni, che includevano anche la cronaca, come quello di Umberto De Giovannageli, sull'UNITA', e quello di Eric Salerno, sul MESSAGGERO, come al solito abile con le mezogne omissive, tali da impedire al lettore di capire le ragioni di Israele.
Abbiamo scelto di pubblicare questi commenti senza alcuna distinzione, quelli condivisi insieme a quelli critici, lasciando ai nostri lettori  la valutazione del contenuto. Anche se il pezzo di Ugo Tramballi sul SOLE24ORE è pieno di omissioni, falsità, che meriterebbero di essere confutate una per una.
                         
Eccoli:

Il Giornale-Fiamma Nirenstein:" Netanyahu non ci sta e costringe Obama a cedere sui confini"

Benyamin Netanyahu ha avuto un notevole coraggio fronteggiando ieri, nel nome degli interessi israeliani, il pre­sidente Obama che poche ore prima aveva cercato il favore dell’Islam per molte strade,fra cui quella di disegnare la divi­sione fra Israele e i Palestinesi sull’indifendibile linea del ’67. Ed è stato ricompensato: Oba­ma durante la loro conversa­zione si è impegnato molto di più sull’Iran, ha ascoltato be­ne la determinazione del pri­mo ministro israeliano a rifiu­tare i confini del ’67 come con­fini destinati a portare alla guerra e alla rovina. I due dopo 24 ore di polemica sotterranea sul discorso di Obama, hanno dato un’impressione di sostan­ziale concordia nel condanna­re la politica aggressiva e ato­mica dell’Iran e sulla condan­na di Hamas. Obama non è tor­nato sulla questione dei confi­ni del ’67, e ha ascoltato Bibi che insisteva con determina­zione sul tema della sicurezza. Obama, prima di parlare di Israele, nel suo discorso aveva gestito il suo intervento sul Me­dio Oriente con la solennità e la foga del cavaliere senza mac­chia: Tunisia, Egitto, Iran, Isra­ele e Palestinesi sono passati sotto il suo scrutinio come sot­to quello della giustizia e della forza americane stesse. Ma ha stonato nel momento in cui, nonostante le forti intenzioni, i programmi sono risultati re­torici e poco fattivi. Obama ha voluto affermare di nuovo, an­cora, i suoi principi: gli Usa so­no amici dei buoni islamici. Per lui la rivolta islamica è fat­ta di bravi ragazzi che voglio­no la democrazia contro i catti­vi tiranni; Obama ama i primi e li aiuterà. Ma alla fine, i catti­vi, cioè l’Iran, la Siria, il Bahrein, lo Yemen, hanno rice­vut­o una sgridatina senza la de­terminazione americana a fa­vore movimento dei Verdi a Teheran, o dei siriani schiac­ciati dai carri armati. Assad re­sta per lui, anche dopo aver fat­to mille morti, un leader forse da recuperare; Ahmadinejad, un orco mitologico contro cui gli Usa restano impotenti. È mancata inoltre quel minimo di cautela che occorre di fron­te al­la possibilità che masse av­velenate dal messaggio islami­sta e la Fratellanza Musulma­na possano prendere il potere. Obama è apparso contraddi­torio nel­rivendicare come ispi­razione basilare la visitaal Cai­ro compiuta all’inizio del man­dato, quando il dittatore Mu­barak era l’amico privilegiato e l’Universitàdi Al Azhar, dove Obama parlò, uno dei centri della Fratellanza Musulmana. Il sostegno promesso alle rivo­l­uzioni si è impossessato impu­nemente, nel discorso, degli scenari opposti: diritti umani, libertà di espressione, parità fra uomo e donna. Obama è ap­parso come un credente appe­na convertito, per lui tutti i ri­belli sono copie del tunisino Mohammed Bouazisi,condot­to dall’umiliazione a darsi fuo­co, e di Wael Ghonim, l’execu­tive di Google di Piazza Tahrir. Su queste complesse rivoluzio­ni ci­si poteva aspettare qualco­sa di più di un compitino. L’in­teresse americano è rimasto si­lenzioso e rannicchiato, senza le cautele necessarie anche in una situazione di entusiasmo umanitario.
Su Israele Obama ha fatto un autentico guaio, anche sta­volta contraddetto da buone intenzioni. Bibi Netanyahu, che ha visitato proprio ieri po­meriggio Obama alla Casa Bianca, ha di fatto indotto il presidente americano a scen­dere dal suo cavallo bianco, dal suo inusitato disegno del processo di pace con i Palesti­nesi,
quando ha proposto i confini del ’67. Sull’unificazio­ne fra Fatah e Hamas gli israe­liani si aspettavano una con­danna piena dell’organizza­zione terrorista che diventa uno stupefacente interlocuto­re in un colloquio che ha sem­pre rifiutato avendo nel suo programma la distruzione di Israele. Ma solo ieri Obama ha detto chiaramente che con un’organizzazione terrorista non si tratta. Aveva già compiu­to, nel discorso, il passo di af­f­ermare che a settembre quan­do Abu Mazen porterà all’Onu la richiesta di riconoscere uno Stato palestinese proclamato unilateralmente, gli Usa non ci staranno, e che Israele deve essere riconosciuta come Sta­to del popolo ebraico. Arduo e giusto. Ma poi, si era avventu­rato nell’affermazione che cambia tutte le carte in tavola: Israele nei confini del ’67 infat­ti sarebbe oltremodo vulnera­bile, specie se esposta dalla parte della Valle del Giordano, esposta oltre la Giordania, ver­so i Sauditi, l’Iraq, l’Iran….
Obama nel discorso aveva anche detto che Gerusa­lemme e i profughi devono es­sere lasciati per una fase suc­cessiva. Ma ieri Netanyahu gli ha ripetuto in conferenza stampa che un’invasione dei pronipoti dei profughi del ’48 distruggerebbe Israele demo­graficamente. E Obama ha ta­ciuto. Quanto ai confini del ’67: gli americani da decenni, basandosi sulla risoluzione 242 del novembre 1967, chie­dono un «ritiro di Israele a con­fini sicuri e riconosciuti». Ma sono confini che chiudevano Israele in 16 chilometri. Parla­re di
swaps territoriali, ricono­sce implicitamente ai palesti­nesi il diritto a rivendicare quei confini e da adesso si può essere certi che lo brandiran­no come una bandiera. Oba­ma ha riflettuto nel suo atteg­giamento la schizofrenia ame­ricana su Israele: da una parte, Israele è il suo migliore allea­to, dall’altra vuole compiacere il mondo islamico. Ma ieri Ne­tanyahu, dicendo semplice­mente «non ci sto», lo ha co­stretto a capire più di quanto non avrebbe fatto cercando di compiacerlo.

Libero-Angelo Pezzana:"Gerusalemme non può sacrificarsi in nome di una pace impossibile"


Oggi a Sderot, domani su tutta Israele ?

Che Barack Obama abbia pronunciato il discorso sbagliato non deve stupire, ci saremmo semmai dovuti meravigliare del contrario. Da quando guida l’impero americano l’unico risultato positivo che è riuscito a portare a casa è l’eliminazione di Osama Bin Laden, ma se ne è preso il merito senza peraltro averne titolo, essendo stata l’operazione chirurgica opera di ben altri dottori. Per il resto è un fallimento dopo l’altro. La Casa Bianca è stata assente quando le piazze iraniane si sono ribellate contro la feroce dittatura dei mullah, cavandosela con ipocrite parole di incoraggiamento, con il risultato che a Teheran nulla è mutato. Sulla cosidetta ‘primavera araba’ l’atteggiamento è stato a dir poco schizofrenico, dall’abbandono di Mubarak, alleato fedele, fino ad appoggiare una ‘rivoluzione’ che, come molti avevano previsto, sta conducendo l’Egitto nelle mani dell’islam fondamentalista. Tra Gheddafi di Libia e Assad di Siria, la scelta è stata di appoggiare la caduta del primo mentre sul secondo, invece di bombe, sono caduti inviti alla moderazione, facesse stragi un po’ più contenute, quasi una supplica. Che Assad sia nella regione mediorientale il vassallo di Ahmadinejad non preoccupa l’inquilino della Casa Bianca, meno ancora che attraverso la Siria passi il traffico di armi che riforniscono Hamas e Hezbollah, visto che ritiene sufficienti gli ammonimenti in stile Piazza San Pietro. Poteva dunque non applicare a Israele la politica del doppio standard, dei due pesi-due misure ? Ad Obama va riconosciuta, nell’errore, la coerenza. Sin dal suo primo discorso, quello del Cairo, nel quale rese esplicita la sua sottomissione all’islam – era mancata solo la genuflessione – non ha fatto altro che ripetersi, arrivando adesso a sconfessare gli impegni verso Israele sottoscritti dai suoi predecessori. Mentre George W.Bush scatenava una guerra per disarcionare Saddam Hussein, nel tentativo generoso di credere che fosse possibile creare un governo arabo democratico, o almeno tentarne l’esperimento, Obama si propone l’opposto, ignora il pericolo rappresentato dal regime di Hamas a Gaza, evita di dare fastidio ad Assad in Siria, si disinteressa del Libano, dove è Hezbollah a dare gli ordini, continua a credere che il futuro stato palestinese sarà pacifico e smilitarizzato, quando è ormai chiaro a tutti che l’Anp si adeguerà agli ordini di Hamas, e ripropone, quale soluzione, il ritorno ai confini di prima della guerra dei sei giorni. Obama non è un presidente ignorante, qualche libro di storia mediorientale l’avrà pur letto, se questa è la strada che indicherà a Bibi Netanyahu si prepari ad affrontare un alleato che non ha nessuna intenzione di sottostare a un diktat che significa la fine del proprio paese. In tutti i conflitti internazionali, a una tregua sono seguiti gli accordi di pace, nei quali il compromesso si basava sulla condivisione di nuovi confini. E’ quello che Israele cerca invano da anni, era il progetto di Arik Sharon, che aveva deciso nel 2005 l’uscita da Gaza, senza chiedere alcuna contropartita, nella speranza che il suo gesto portasse ad un accordo definitivo per i territori della Cisgiordania. Sappiamo come è andata a finire. Israele, non importa quali forze politiche siano al governo, ha messo definitivamente fine all’illusione che la pace si raggiunga attraverso la perdita di territori indispensabili per la sicurezza dell’intero paese. Se lo Stato ebraico è oggi l’unica oasi democratica in una regione governata da dittature, l’una peggio dell’altra, questo lo si deve al fatto che gli israeliani hanno imparato che delegare ad altri il loro futuro è la strada maestra verso il suicidio. Obama non si faccia illusioni, Israele è sempre disponibile a sedersi la tavolo della pace, ma non rinuncerà mai a mettere in discussione la propria sicurezza. Dal 1948 ad oggi, ventitremila vite di giovani soldati sono state sacrificate per impedire una seconda Shoà, anche questa volta nella pressochè totale indifferenza dell’Occidente, mista, va detto, a complicità. Gli stati islamici imparino i valori democratici, quelle società ne avranno da guadagnare, e la smettano, come invece continuano a volere, di cercare la fine di Israele. Riconoscano Israele come lo Stato degli ebrei, perchè se è vero che la pace si fa con i nemici, è impossibile farla con chi ha come obiettivo finale la tua distruzione. Obama ripensi alla storia di Davide e Golia, la ambienti a Washington, e ne tragga le debite conclusioni.

Informazione Corretta-Federico Steinhaus: " Opinione personale"


Si siederanno al tavolo della pace ?

Il tempo non ha mai giocato a favore di Israele, solo che i governanti d’Israele spesso la pensavano diversamente. Proviamo a riconsiderare sinteticamente alcune sequenze cronologiche: Dopo l’imprevedibile dimensione della vittoria nel 1967 Israele avrebbe potuto sfruttare la sua forza contrattuale e giocare la carta di un’ esclusione dell’OLP, invisa a tutti i vicini arabi, da una trattativa, che forse avrebbe anche potuto dividere il fronte arabo fra possibilisti e radicali. La firma del trattato di pace con l’Egitto , dieci anni dopo, avrebbe potuto aprire anche la porta ad un accordo simile con la Giordania, che aveva partecipato di malavoglia alle guerre contro Israele e non amava di certo Arafat. Dopo gli accordi di Oslo entrambi, Israele ed Autorità Palestinese, cercarono di tirare la coperta dalla loro parte, fino a quando l’intifada del 2000-2005 scatenata da Arafat fece tabula rasa di ogni speranza. Le stragi di civili compiute dai kamikaze segnarono anche la fine della generosa ipotesi di accordo proposta da Israele. L’abbandono unilaterale da parte di Israele del Libano meridionale e della striscia di Gaza senza negoziare contropartite fu un regalo all’estremismo dei palestinesi ed alle ambizioni siriane, invece di rappresentare una tappa del processo di pace. Il rifiuto israeliano della proposta saudita di un accordo globale che avrebbe garantito il riconoscimento dello stato d’Israele e dei suoi confini fu uno schiaffo all’autorevolezza della casa regnante saudita e l’assenza di una controproposta da parte di Israele, che si differenziasse dalle abituali richieste per fare un passo sostanziale in direzione della pacificazione, mise Israele alle corde. Oggi il quadro della situazione è il seguente: il regime siriano sta per cedere il posto ad una opposizione islamista, che rafforzerebbe il legame con Hezbollah e Hamas; Hamas e Fatah, formalmente uniti anche se divisi su tutto, possono trovare la loro concordanza specifica solamente nella lotta (politica e non solo) contro Israele; Yemen e Bahrein stanno per cadere nelle grinfie dell’Iran; i paesi arabi del Nord Africa stanno cercando di liberarsi dai vincoli del passato, e non sappiamo in che modo; l’Egitto rischia una deriva islamista come conseguenza delle elezioni presidenziali di settembre. Ed eccoci al discorso di Obama. Per consentire di formarsi un giudizio indipendente è opportuno tradurre testualmente alcuni dei passaggi più significativi: “....Per decenni il conflitto...per gli israeliani ha significato vivere con la paura che i loro figli potrebbero essere fatti esplodere su un autobus o da razzi sparati contro le loro case....”. E’ indispensabile “una pace duratura che ponga fine al conflitto e risolva tutte le rivendicazioni...per i palestinesi gli sforzi per delegittimare Israele falliranno...per Israele, la nostra amicizia è radicata profondamente nella condivisione della storia e dei valori...noi saremo fermi nel respingere i tentativi di additare Israele (single out) alle critiche nelle assise internazionali...”. “Una pace durevole coinvolgerà due stati per due popoli: Israele come stato ebraico e patria del popolo ebraico, e lo stato di Palestina come patria del popolo palestinese...”. La “base” per gli accordi di pace saranno i confini del 1967, con “scambi concordati mutualmente”; lo stato palestinese dovrà essere “smilitarizzato” e dovrà “dimostrare l’efficacia delle misure di sicurezza (s’intende: per tutelare Israele)”. “...Gli accordi fra Fatah e Hamas pongono profonde e legittime domande per Israele” ed i palestinesi “dovranno fornire una risposta credibile”. Questa è dunque la linea politica che gli Stati Uniti seguiranno nei prossimi 5 anni (Obama sarà quasi certamente rieletto). In cosa differisce dalla risoluzione 242, accettata da Israele? In cosa differisce da quanto i vari governi israeliani, quello attuale incluso, hanno sempre chiesto? Non parla del Golan, rimanda il problema di Gerusalemme, afferma il diritto di Israele ad essere riconosciuto come stato ebraico e patria del popolo ebraico, afferma che i confini del 1967 dovranno essere rivisti con scambi di territori concordati fra le parti, chiede che lo stato palestinese sia smilitarizzato... Leggiamo già anatemi e richiami ad Auschwitz come prime reazioni di alcuni gruppi di estremisti (israeliani e non), ma cosa succederà se Israele respingerà anche queste ipotesi di accordo – tutte da verificare del resto, per quanto riguarda un consenso da parte palestinese – e vorrà optare per il mantenimento dello status quo? Probabilmente questa è l’ultima occasione che viene offerta ad Israele di ottenere più di quanto accettò a suo tempo con la risoluzione 242, inclusa quella richiesta recentissima di essere riconosciuto come stato ebraico. Se è vero che Arafat nel 2000 rinunciò ad ottenere uno stato per il suo popolo, e per giunta con metà Gerusalemme come capitale, come gli fu offerto da Israele su un piatto d’argento, è però anche vero che quella fu l’unica volta in cui Israele scelse coraggiosamente e saggiamente di prendere l’iniziativa senza curarsi di alcuni tabù tradizionali. Saprà farlo ancora, e presto? Fra sei mesi potrebbe essere tardi.

La Stampa-Abraham B.Yehoshua:" I confini del '67 vanno rispettati"

In attesa che esploda ?

L’ accordo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese ha provocato l’ostile reazione ufficiale di Israele.
Tanto per cominciare il fatto che dopo tanti tentativi di riconciliazione le due fazioni rivali del popolo palestinese abbiano firmato un accordo ha colto completamente di sorpresa i nostri servizi di intelligence. E per questo i loro responsabili si sono affrettati a proclamare che l’accordo non durerà. Non so se tale ipotesi sia veramente fondata o sia piuttosto un tentativo di giustificare lo smacco. Io, ormai, ho smesso di sgomentarmi per fiaschi ben più gravi dei servizi di intelligence di Israele e di altri Paesi. Se nessuno di loro è riuscito ad anticipare la rapida disgregazione del regime comunista sovietico e dei Paesi sotto il suo controllo faremmo meglio a non riporre troppe speranze nelle loro capacità di previsione. Spesso, invece, sono intellettuali o persone dallo sguardo acuto che non siedono in stanze buie in ascolto di messaggi segreti a possedere virtù profetiche. Ricordo un anziano professore, esperto di storia orientale antica, arrivato negli Anni 80 da Mosca alla nostra università di Haifa col quale chiacchieravo nei corridoi tra una lezione e l’altra che proclamò con sicurezza che l’impero sovietico era un castello di carte che sarebbe crollato di colpo. All’epoca pensavo che quello fosse soltanto un suo pio desiderio, ma a quanto pare proprio un docente di antichità orientali era riuscito a diagnosticare il marciume all’interno del regime comunista che a quel tempo appariva solido e forte.

Il Mossad israeliano, che gode di ottima fama presso le organizzazione di intelligence del mondo intero, non riuscì a prevedere, ad esempio, lo scoppio della seconda Intifada (che per qualche anno provocò un bagno di sangue fra palestinesi e israeliani) nel settembre 2000 nonostante i suoi agenti e le sue spie fossero sparsi in tutto il territorio palestinese. Talvolta una ricca esperienza accumulata in passato può paralizzare e distruggere ogni capacità di analisi e di comprensione di nuovi segnali.

Quindi, anche se non so quali conseguenze avrà l’accordo tra il governo di Hamas a Gaza e l’Autorità palestinese, io e molti altri miei compagni del movimento pacifista israeliano speriamo, contrariamente al nostro governo, che questa riconciliazione perduri. E cercherò di spiegare la mia posizione.

1. Innanzitutto una riconciliazione di questo tipo tende a ridurre la violenza e l’estremismo giacché un governo di unità nazionale non è tenuto ad allinearsi a posizioni oltranziste e può intraprendere iniziative moderate.

2. Nonostante l’estremismo religioso di Hamas le sue posizioni non sono lontane da quelle dell’Olp di Yasser Arafat negli Anni 70 e 80 del secolo scorso. E come l’Olp ha escogitato una soluzione ideologica per retrocedere dal suo fermo rifiuto di riconoscere Israele e dichiararsi disponibile al negoziato, così Hamas (che un tempo era parte dell’Olp) potrebbe cambiare e modificare le proprie convinzioni al fine di legittimare in linea di principio l’esistenza di Israele e ricevere a sua volta un riconoscimento.

Nel corso della mia lunga vita ho assistito a cambiamenti di posizioni ideologiche sia da parte del centro destra israeliano che da parte dei palestinesi. E talvolta provo imbarazzo per il fatto che proprio noi del movimento pacifista siamo rimasto fermi nelle nostre convinzioni, non tanto a causa di una mancanza di immaginazione e flessibilità quanto, probabilmente, perché la realtà ha dimostrato che tali idee sono le più appropriate.

3. L’impegno verbale di Hamas di sottostare a un unico comando militare è estremamente importante. Non so se Hamas lo rispetterà, e soprattutto se sarà in grado di controllare tutte le piccole organizzazioni estremistiche che brulicano nella Striscia di Gaza e sfidano la sua autorità. Nel frattempo, da quando l’accordo è stato firmato, al confine tra Gaza e Israele regna la calma. Occorre anche ricordare che la volontà di Hamas di raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese non deriva soltanto dalla debolezza del regime siriano ma soprattutto dal fallimento delle azioni belliche da esso intraprese dopo il ritiro unilaterale di Israele dalla Striscia di Gaza nel 2005. Anche se i razzi sparati dalla Striscia sono stati estremamente molesti i danni che hanno causato in termini di vite umane e di distruzione sono stati relativi. Viceversa il prezzo pagato dagli abitanti di Gaza per le rappresaglie israeliane, per l’operazione «Piombo Fuso» e per l’assedio imposto da Israele e dall’Egitto è stato molto elevato. Così, questo accordo è un’occasione per Hamas di raggiungere un cessate il fuoco con Israele senza doverlo ammettere.

4. E un’ultima cosa. Non dobbiamo dimenticare che nonostante l’accordo tra l’Autorità palestinese e Hamas la Striscia di Gaza rimane isolata e separata dai territori dell’Autorità Palestinese e Israele è responsabile di tutti i valichi di confine tra queste due zone. La possibilità che Hamas sconfigga l’Autorità palestinese nelle prossime elezioni o provochi apertamente il governo di Abu Mazen è dunque assai limitata. Il potere di Hamas si concentra nella Striscia di Gaza e l’accordo con l’Autorità palestinese, se si rivelerà duraturo, potrà mantenere un governo unitario moderato e razionale in vista della dichiarazione di indipendenza palestinese alle Nazioni Unite il prossimo settembre.

A mio parere le giuste basi di tale dichiarazione dovrebbero essere le seguenti: 1. Il rispetto dei confini del ’67. 2. Lo smantellamento dell’artiglieria pesante nello Stato palestinese. 3. Il diritto al ritorno dei profughi del ’48 nello Stato palestinese, non in Israele. 4. Il riconoscimento di Gerusalemme Est come capitale del nuovo Stato.

E tutto questo sotto la stretta supervisione e con il generoso aiuto della comunità internazionale.

Solo in futuro sapremo se queste ottimistiche ipotesi si riveleranno giustificate. Nel frattempo consiglio a tutti coloro che appaiono sgomenti e atterriti da questo accordo tra Hamas e l’Autorità palestinese di pazientare.

IlSole24Ore-Ugo Tramballi:" Non si torna al '67, ma il negoziato può ripartire da lì"


Heil Hamas !

Frontiere del 1967, cioè la Linea verde. Una indicazione così apparentemente semplice impedisce a israeliani e palestinesi di tornare al negoziato, fa litigare gli israeliani con gli americani e mette destra d'Israele contro sinistra. Perché un confine che prima della guerra dei Sei Giorni, 44 anni fa, divideva lo Stato ebraico dal regno giordano, oggi è così importante?

La ragione è che quella indicazione, che sottintende anche la spartizione di Gerusalemme (altro punto fondamentale e controverso della trattativa), definisce quale pace avranno, se ce ne sarà una, i due nemici. Nessuna amministrazione americana aveva così esplicitamente menzionato le frontiere del '67. Prima del discorso di Barack Obama, giovedì, solo gli europei, gli arabi moderati e l'Onu insistevano su quella demarcazione come base del negoziato di pace. Con una lettera ad Ariel Sharon, George Bush aveva al contrario riconosciuto le successive annessioni territoriali israeliane. Obama ha vanificato quel documento, mettendo le rivendicazioni dei palestinesi sullo stesso piano delle israeliane.
Nessuno, nemmeno i palestinesi dell'Autorità di Abu Mazen, pensa che quella antica del 1967 debba essere la nuova frontiera fra Israele e Palestina. È solo il punto di partenza dal quale negoziare quella definitiva. In Cisgiordania ci sono 517mila israeliani (21 ogni 100 palestinesi) e 470 insediamenti, alcuni sono ormai delle città: anche i palestinesi capiscono che è impossibile evacuarli tutti. Uno scambio territoriale dell'8% per esempio, permetterebbe a Israele di annettere circa l'80% delle colonie, quelle più popolate. Per la comunità internazionale, dunque, la Linea verde è solo l'unità di misura per stabilire quanto deve essere dato in cambio di quanto.

Per Israele le frontiere del 1967 sono inaccettabili perché insicure. Per i militari è essenziale mantenere il controllo della valle del Giordano, cioè il confine orientale del futuro Stato palestinese. Alcuni ex generali, ex capi del Mossad e dei servizi interni, lo Shin Bet, sostengono invece che niente garantisca la sicurezza d'Israele quanto uno Stato palestinese in pace e che possa funzionare. Una corrente di pensiero politica ritiene che una Palestina possa nascere nell'attuale autonomia palestinese: isole semi-indipendenti, separate fra loro e circondate da colonie, zone militari e strade per gli israeliani. Il Governo Netanyahu però è controllato da una maggioranza ideologica che nega ogni forma di Stato palestinese. Solo Hamas verso Israele è altrettanto negazionista.
Isolando i palestinesi, Israele rischia di isolare se stesso dalla comunità internazionale. Ma il problema è un altro e lo aveva denunciato per primo Ariel Sharon un decennio fa, sollecitato dallo studioso italo-israeliano Sergio Della Pergola: la questione demografica. Dal Mediterraneo al fiume Giordano oggi vivono 5,7 milioni di ebrei e 5,5 di arabi fra Israele, Gaza e Cisgiordania. Nel 2014 raggiungeranno la parità, ciascuno a 6,1 milioni. Nel 2020 la popolazione palestinese supererà quella ebraica: 7,2 milioni a 6,7. I dati sono dell'Ufficio centrale di statistiche palestinese. È questo che intendeva Barack Obama quando ricordava che la politica territoriale annessionista del Governo israeliano non è l'arma più efficace per la sicurezza di uno "Stato ebraico e democratico".

Corriere della Sera-Paolo Valentino:" Da Kissinger alle sfuriate di Bush padre, tutte le crisi di una relazione speciale "


1967, la liberazione di Gerusalemme

«Let Israel bleed» , faccia sanguinare Israele, disse Henry Kissinger a Richard Nixon. Succedeva nel 1973, nel pieno della guerra del Kippur. Di fronte alla richiesta del premier Golda Meir agli USA di lanciare un ponte aereo strategico per rifornire l’esercito israeliano in difficoltà di fronte alle forze arabe, il cinico segretario di Stato, come rivelò il New York Times, voleva che «Israele sanguinasse quel tanto necessario a renderlo più cedevole in vista della diplomazia post-conflitto che aveva in mente» . E quindi consigliò al presidente di ritardare l’operazione, che quando finalmente venne avviata passò alla storia come «il ponte aereo che salvò Israele» . Due anni dopo, da capo della diplomazia nell’amministrazione Ford, fu ancora Kissinger a incendiare i rapporti con lo Stato ebraico, chiedendo a muso duro al premier Yitzhak Rabin di ritirare parzialmente le truppe dal Sinai (che occupavano dal 1967) e ricevendone un rifiuto. A credere all’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, fu uno dei peggiori momenti di crisi nei rapporti Usa-Israele degli ultimi 35 anni. Oren, storico di vaglia, ricordava il precedente nella primavera di un anno fa, per sottolineare la gravità della tensione venutasi a creare tra Washington e Gerusalemme, dopo lo «schiaffo in faccia» subito dal vicepresidente Joe Biden il 12 marzo 2010: arrivato in Terra Santa con tutte le buone intenzioni, il filoisraeliano Biden si era visto accogliere con l’annuncio della costruzione di 1.600 nuove case a Gerusalemme est, cioè in territorio occupato: una provocazione. Era seguita la lavata di capo telefonica di Hillary Clinton a Benjamin Netanyahu, su preciso mandato di Barack Obama, nella quale il segretario di Stato aveva detto fra l’altro che il presidente si considerava «profondamente ferito e offeso» . E di nuovo su tutte le furie era andato Obama poche settimane dopo, quando in visita a Washington Netanyahu prima d’incontrarlo gli aveva inflitto un’altra umiliazione, dicendo al pubblico amico di un’organizzazione filoisraeliana: «Gerusalemme non è un insediamento, ma la nostra capitale» . Seguì un incontro semiclandestino alla Casa Bianca, che solo in parte ricucì lo strappo. Insomma, c’è una chimica personale complicata e problematica tra i due attuali responsabili del più centrale, stretto e indiscutibile rapporto strategico dell’intero scacchiere mondiale: quello tra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico. È bene fissare subito i paletti. Nessuna antipatia o idiosincrasia personale ha mai messo in dubbio in 35 anni (il periodo qui considerato) le ragioni e la realtà di un’alleanza, a cui una media annuale di 3 miliardi di dollari in aiuti economici, umanitari e soprattutto militari da parte degli Usa, dà forza ineguagliata e sostanza concreta a un pilastro bipartisan della politica estera americana: l’impegno imprescindibile alla sicurezza dello Stato d’Israele e alla difesa del suo diritto di esistere. Ma questo filo rosso, che si dipana ininterrotto attraverso il dopoguerra e deve la sua robustezza tanto alla forza della comunità ebraica d’America, quanto alla scelta naturale di schierarsi al fianco dell’unica, vera democrazia della regione, non ha impedito brusche impennate e passaggi critici. Non corse buon sangue, per esempio, tra il presidente democratico Jimmy Carter e il premier conservatore Menachem Begin, che dopo aver firmato il Trattato di Camp David con il leader egiziano Anwar Sadat nel 1978, mai accettò il corollario carteriano di una «homeland» per i palestinesi. Meglio andò negli 8 anni di Ronald Reagan, il primo repubblicano a vincere una fetta significativa del voto ebraico, quando le priorità antiterrorismo e antisovietiche dell’amministrazione fecero combaciare perfettamente le relazioni bilaterali. Neppure il caso Pollard, la spia americana che passò segreti nucleari a Israele, e l’iniziativa di pace del segretario di Stato George Shultz, preceduta dall’apertura di un dialogo con l’Olp di Arafat, impedirono che la Casa Bianca di Reagan e il Congresso della legislatura numero 100 siano ancora considerati «i più filoisraeliani di sempre» . — la musica cambiò con il primo Bush, figlio di quel Prescott Bush che aveva anche diretto una banca newyorkese dove ricchi tedeschi filonazisti depositavano i loro beni. Appena insediatosi nel 1989, George Bush senior fece dire al suo segretario di Stato James Baker che Israele doveva abbandonare le sue politiche espansionistiche. Certo lo difese dalle minacce e dagli Scud di Saddam Hussein nella Guerra del Golfo del 1990. Separato da reciproca antipatia con il premier israeliano Shamir, il primo Bush fu l’unico presidente a minacciare il blocco degli aiuti se Gerusalemme non avesse sospeso gli insediamenti nei territori. Quanto scarse, per usare un eufemismo, fossero le affinità dei due amici «wasp» Bush e Baker con Israele, lo rivelò, voce dal sen fuggita, quest’ultimo. In una mai smentita conversazione privata con un collega, all’obiezione che la comunità ebraica d’America non avrebbe gradito la politica dell’amministrazione, Baker rispose: «Fuck the Jews, they didn’t vote for us anyway» , al diavolo gli ebrei, comunque non hanno votato per noi. Il che era stato vero nel 1988 (27%contro il 73%di Dukakis) e sarebbe stato ancora più vero nel 1992, quando a Bill Clinton andò il 78%del voto ebraico e a Bush solo il 15%. Clinton ebbe ottimi rapporti con i leader laburisti, Rabin e Barak, ma non vita facile col solito Benjamin Netanyahu, il quale pure firmò gli accordi di Wye nel 1998. Il resto fu una serie di inutili tentativi di salvare la faccia, sporcata dallo scandalo Lewinsky: ma da Oslo a Camp David, nonostante le buone intenzioni di Ehud Barak, Clinton non riuscì mai a convincere Arafat. E fu singolare destino quello di Bush il giovane, figlio di cotanto padre, trasfigurare la storia familiare e trasformarsi, sull’onda dell’ 11 Settembre, in uno dei presidenti più filoisraeliani, aiutato da buoni rapporti con Ariel Sharon nonostante qualche incomprensione iniziale. Harte Wendung, svolta brusca è invece quella impressa non da un presidente ma da un generale, sia pure il più importante di questo scorcio di secolo: David Petraeus. Fu lui a dire, poco più di un anno fa, che la politica di appoggio incondizionato degli Usa a Israele va contro gli interessi americani nella regione, mettendo anche a rischio la vita dei soldati impegnati nell’area. Un dato di fatto che non cambia l’alleanza strategica, ma sicuramente la rende oggetto di più attenta riflessione.

La Repubblica-Lucio Caracciolo: " L'arrocco di Gerusalemme "


Prima di leggere Caracciolo, un'occhiata alla carta geografica della regione

Quando due leader alleati escono da un incontro ammettendo che fra loro esistono «differenze», significa che la loro conversazione è stata piuttosto animata. Netanyahu e Obama non si amano e il colloquio di ieri alla Casa Bianca non li ha resi più amici.
L´uno e l´altro sperano di restare in carica almeno il tempo necessario per confrontarsi con i rispettivi successori. Ma le "differenze" non sono solo di gusti personali. Gerusalemme e Washington sognano due mondi opposti.
Israele è l´unica democrazia del Medio Oriente. E intende restarlo. Gli Stati Uniti sono invece convinti che la regione possa finalmente evolvere verso qualche forma di democrazia, come confermerebbero le rivolte in corso, dalla Tunisia all´Egitto, dalla Libia alla Siria. Il ragionamento israeliano si vuole strettamente pragmatico. Nella linea americana convivono, come d´abitudine, idealismo e realismo. Ma alla fine la scelta di entrambi è guidata dalla sicurezza. Solo che la sicurezza di Israele secondo Netanyahu equivale all´insicurezza dell´America secondo Obama. E viceversa.
L´alleanza privilegiata dello Stato ebraico con gli Usa ha sempre poggiato sul fatto di essere la sola democrazia nella regione: un decisivo fattore di legittimazione presso il pubblico americano. Nel momento in cui perdesse questa sua unicità perché altri paesi mediorientali si fossero riconfigurati come democratici, l´influenza di Israele a Washington ne sarebbe seriamente intaccata. E con essa la sua sicurezza. Gli israeliani non apparirebbero più agli americani come una nazione "speciale", quasi sorella, ma rischierebbero di essere confusi con le democrazie arabe. La posizione negoziale di Gerusalemme ne sarebbe erosa. Una cosa è disputare con le classiche autocrazie più o meno islamiche. Altra è avere di fronte interlocutori dotati, almeno agli occhi dell´Occidente, di credenziali democratiche.
L´argomento con cui i recenti leader israeliani, da Sharon a Netanyahu, hanno costantemente respinto il negoziato con i palestinesi, gioca infatti sull´inaffidabilità di interlocutori non democratici, dunque non omologhi. Ai tempi della coppia George W. Bush-Sharon, questa linea era stata così codificata da Dov Weisglass, braccio destro dell´allora premier di Gerusalemme: «Ho concordato con gli americani che di una parte degli insediamenti non si discuterà affatto, quanto agli altri se ne tratterà quando i palestinesi si trasformeranno in finlandesi». Un modo elegante per dire mai.
Certo i palestinesi non sono ancora "finlandesi", se con questa metafora si intende una qualche affinità con le prassi di una consolidata democrazia liberale. Forse non lo saranno mai. Ma per Obama non c´è tempo da perdere. Bisogna negoziare adesso sulla base dei confini del 1967. Nessuna colonia ebraica in Cisgiordania può considerarsi intangibile.
Il presidente americano ci ha abituato a una retorica alta, seguita spesso da una prosa realistica, da azioni o inazioni contraddittorie con i valori proclamati. Ma stavolta non si possono trascurare le parole del capo della Casa Bianca, perché esprimono una sia pur vaga scelta di fondo: gli Stati Uniti intendono alzare la bandiera della democrazia in Nordafrica e in Medio Oriente. Non vogliono più rincorrere le rivoluzioni, anche se non necessariamente le promuoveranno. Certo a Washington non auspicano il rovesciamento del regime saudita e dei suoi satelliti nel Golfo, la cui rilevanza strategica ed energetica fa per ora premio sulle considerazioni di principio. Ma si augurano che l´onda del cambiamento proceda.
Come aveva detto Obama giovedì al Dipartimento di Stato: «Dopo aver accettato per decenni il mondo com´è nella regione, abbiamo la possibilità di perseguire il mondo come dovrebbe essere». Di più, «il nostro sostegno per questi principi non è un interesse secondario (…), è una priorità assoluta».
Non è solo né primariamente una questione ideale. È la coscienza che identificandosi con l´arrocco israeliano, come Bush figlio aveva fatto con Sharon e con Olmert, gli Stati Uniti perderebbero molta della loro residua credibilità in Medio Oriente. Ne scapiterebbe infine la loro stessa sicurezza.
Netanyahu resta fermo nella sua convinzione: meglio un autocrate amico – stile Mubarak - che uno pseudodemocratico nemico, quali sarebbero secondo Gerusalemme i Fratelli musulmani e la loro filiazione palestinese di Hamas, da lui equiparata ad al-Qaida. Ecco perché a Gerusalemme si è sempre tifato contro le rivolte che minacciavano non solo i dittatori amici, ma financo i «cari nemici»: molto meglio Ahmadinejad dell´«onda verde». Tanto più indifendibili i suoi nemici agli occhi degli americani, tanto più sicuro lo Stato ebraico.
Questo approccio manca di realismo. Non vuole prendere atto dei cambiamenti in corso nello scacchiere arabo. Esclude anzi che ne possano avvenire. Nel caso, rifiuterebbe di vederli, perché non conviene che gli arabi assomiglino ai "finlandesi". Certo, si può rimpiangere Mubarak e demonizzare l´apparente ricomposizione del campo palestinese. Anche con buoni argomenti. Ma questa non è una politica. E´ l´autocondanna all´immobilismo.
Il tempo non lavora per Israele. Restare fermi mentre tutt´intorno si corre, significa ridursi in prospettiva a due opzioni non confortevoli: il lento logoramento della propria potenza o nuove guerre. Ma a differenza di qualche anno fa, Israele non può confidare di vincere ogni futura partita militare. Per non cambiar nulla, lo Stato ebraico rischia di perdere tutto.


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