Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Il Medio Oriente visto da Barack Obama commenti di redazione del Foglio, Massimo Gaggi, Carlo Panella, Lucia Annunziata
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - Libero - La Stampa Autore: Redazione del Foglio - Massimo Gaggi - Carlo Panella - Lucia Annunziata Titolo: «Aiuti ai popoli e sanzioni ai regimi. Il medio oriente secondo Obama - La democrazia come bussola - Senza slanci emotivi»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 20/05/2011, a pag. III, l'articolo dal titolo " Aiuti ai popoli e sanzioni ai regimi. Il medio oriente secondo Obama ". Dal CORRIERE della SERA, in prima pagina l'editoriale di Massimo Gaggi dal titolo " La democrazia come bussola ". Da LIBERO, a pag. 15, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Barack genio della retorica e dilettante della politica ". Dalla STAMPA, a pag. 1-43, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo " Senza slanci emotivi ". Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - " Aiuti ai popoli e sanzioni ai regimi. Il medio oriente secondo Obama "
Barack Obama
Ventiquattro ore dopo avere annunciato nuove sanzioni contro il presidente siriano Bashar el Assad e sei ministri del suo governo, Barack Obama ha mandato un altro segnale al regime di Damasco. “Il popolo ha mostrato il proprio coraggio nel chiedere la democrazia – ha detto ieri il capo della Casa Bianca – Assad ora ha una scelta: può guidare questa transizione o può farsi da parte”. E’ uno dei passaggi più significativi nel discorso sul medio oriente tenuto al dipartimento di stato. La linea di Obama è precisa: gli Stati Uniti non faranno sconti ai regimi che usano la forza contro i loro stessi popoli, ma garantiranno sostegno a chi sceglierà la democrazia. Così, il governo della Siria deve smettere di sparare sui manifestanti, deve rimettere in libertà i prigionieri politici e deve cominciare un dialogo serio con l’opposizione, oppure “Assad e il suo regime continueranno a essere sfidati dall’interno e isolati dall’esterno”. Non è l’avviso finale riservato due mesi fa al leader libico Muammar Gheddafi (“oggi il tempo è contro di lui – ha commentato Obama – Non ha più il controllo del paese e l’opposizione ha organizzato un Consiglio provvisorio legittimo e credibile), ma è un deciso passo avanti rispetto alle parole del segretario di stato, Hillary Clinton, che ha confidato sino all’ultimo nella volontà riformista di Assad. Obama ha citato Yemen, Iraq, paesi del Golfo e Iran (“le prime proteste pacifiche di questa stagione sono avvenute a Teheran”) e ha confermato le voci della vigilia su un piano di aiuti per Egitto e Tunisia. “Non vogliamo un nuovo Egitto funestato dai debiti – ha detto – Cancelleremo fino a un miliardo di dollari di debito per aiutare l’economia del paese. Abbiamo chiesto al Fmi e alla Banca mondiale di presentare un piano di aiuti per Egitto e Tunisia. L’Opec sosterrà l’iniziativa. La crescita economica può aiutare le richieste delle piazze. Bisogna aprire i mercati e creare posti di lavoro per i giovani”. Il capo della Casa Bianca ha ribadito anche gli sforzi per arrivare alla pace in medio oriente, nonostante il fallimento dei negoziati che lui stesso ha voluto riaprire lo scorso anno. “Crediamo che il processo debba avere come risultato due stati” con confini permanenti. Il bordo fra Israele e la Palestina, dice Obama, “dovrebbe essere basato sulle linee del 1967”. Proprio oggi arriva a Washington il premier israeliano, Bibi Netanyahu, che è reduce dagli scontri al confine nord e dalla bozza di accordo per l’unità palestinese firmato da Hamas e Fatah. “Sono più che scettico sui negoziati – dice al Foglio l’ex negoziatore Aaron David Miller – Non ci sono possibilità al momento di sedersi seriamente attorno a un tavolo ed è anche colpa dell’Amministrazione, che non ha una strategia comprensiva. Fa spostamenti tattici, ma non fa una vera pressione per un accordo”. Quella fra Netanyahu e Obama è una storia fatta di dispettose attese nei corridoi della Casa Bianca, di accordi con data di scadenza e richieste non esaudite. A complicare tutto è stata anche la primavera araba (“per gli israeliani è un problema enorme”, dice Miller) e l’instabilità che questa ha portato in paesi amici come l’Egitto e che potrebbe aggravare la posizione della Siria, facendola sprofondare definitivamente nell’orbita iraniana. In vista dell’incontro con Netanyahu – che metterà sul tavolo anche le violenze di Nakba come prova degli effetti nefasti del fermento arabo – Obama tende due mani alla preoccupazione di Israele: le sanzioni al governo siriano e gli aiuti economici all’Egitto, per dare almeno l’impressione che l’America stia facendo di tutto per evitare che la transizione del Cairo si trasformi in una confusione molto produttiva per i nemici di Israele. A partire dall’Iran, che già s’insinua nella regione.
CORRIERE della SERA - Massimo Gaggi : " La democrazia come bussola "
Massimo Gaggi
I l cuore gettato oltre l’ostacolo, abbandonando definitivamente i vecchi regimi mediorientali e incalzando l’alleato israeliano, non per il desiderio di rinverdire le parole d’ordine — hope e change, speranza e cambiamento — che tre anni fa lo proiettarono verso la Casa Bianca e fecero sognare il mondo, ma sulla base di una fredda analisi: per Barack Obama continuare a difendere lo status quo per paura dell’instabilità generata dal cambiamento non è più possibile né nei Paesi scossi dalla «primavera araba» né ai tormentati confini tra Israele e territori palestinesi. Meglio la temeraria sfida di negoziare un reciproco riconoscimento lungo le frontiere del 1967 (opportunamente corrette) dell’attuale, astiosa paralisi: il riconoscimento di una reciproca impotenza che sta facendo scivolare tutta l’area verso il baratro. Nel discorso con il quale ieri ha ridefinito la sua politica mediorientale 23 mesi dopo il celebre messaggio all’Islam pronunciato al Cairo e a sei mesi dall’inizio delle rivolte contro i dittatori del mondo arabo, il presidente americano ha ammesso i rischi insiti nelle sfide che ha deciso di accettare: nel suo piano non ci sono più approdi sicuri né una vera road map. Solo la consapevolezza di dover fronteggiare situazioni molto diverse tra loro avendo a disposizione un’unica, possibile bussola: la difesa dei principi universali — libertà e diritti umani— ai quali si ispira l’America. «Abbiamo un’opportunità storica» , ha scandito Obama. «Dopo aver accettato in Medio Oriente il mondo com’è, abbiamo la possibilità di batterci per il mondo come dovrebbe essere» . E allora, pieno appoggio ai fermenti democratici che, partiti da Tunisia ed Egitto, scuotono ormai tutto il mondo arabo. Sostegno Usa (con tanto di piano di aiuti americani presto integrati da quelli del Fondo monetario internazionale e dei Paesi del G8 che si riuniranno tra una settimana in Francia) solo ai governi che progrediscono sulla via delle riforme. Dura condanna, invece, per chi usa la violenza per bloccare il cambiamento: non solo la Libia di Gheddafi e la Siria di Assad, appena colpita dalle sanzioni di Washington, ma anche lo Yemen e perfino il Bahrein, Paese alleato che ospita la Quinta Flotta Usa, quella che protegge la «via del petrolio» lungo il Golfo Persico e lo stretto di Hormuz. Silenzio sull’Arabia Saudita, ma è chiaro che il messaggio vale anche per il gigante petrolifero. Il presidente ha fatto solo un accenno all’eliminazione di Osama Bin Laden: un trofeo da esibire in Occidente, ma non nel mondo arabo dove la popolarità di Obama è già in calo. Consapevole del rischio di essere percepito dalle masse arabe come un nuovo Bush, il presidente più che sulle politiche per la sicurezza punta sui movimenti democratici che, dice, hanno sconfitto Al Qaeda sul piano ideale prima che fosse battuta su quello militare dagli incursori della Marina Usa. Discorso lungimirante o velleitario? Cominceremo a scoprirlo già oggi, con la visita del premier israeliano alla Casa Bianca. Certo, un cambio di regime comporta sempre il rischio di un vuoto di potere, la cosa che più spaventa chi fa politica. Ma Obama si è ormai convinto che l’America non può più colmare quello lasciato dalla caduta dell’impero ottomano e poi dalle amministrazioni inglesi e francesi fino al 1945, con l’egemonia fin qui esercitata sul mondo arabo accettando compromessi a raffica in nome della realpolitik.
LIBERO - Carlo Panella : " Barack genio della retorica e dilettante della politica"
Carlo Panella
Barack Obama è riuscito a scontentare tutti: israeliani come palestinesi. Il suo “secondo discorso all’Islam” ha dimostrato ancora una volta che il presidente americano è tanto bravo a toccare i tasti della retorica, quanto incapace di affrontare con chiarezza le crisi internazionali reali, a partire da quella israelo palestinese. Da questa seconda parte del suo discorso è dunque indispensabile partire, non solo per la immediata reazione negativa dell’una come dell’altra parte, ma anche perché per l’Islam la questione palestinese è la cartina di tornasole per verificare i reali comportamenti degli Usa. Obama ha dunque scontentato la parte israeliana perché ha affermato che «Israele deve tornare ai confini del 1967». Frase che Obama ha voluto oscura e generica – per non prendere posizione sui nodi della trattativa - e che suona inaccettabile per Gerusalemme. I confini del 1967, infatti, separavano non solo la Cisgiordania e Gaza da Israele, ma anche dividevano in modo inaccettabile Gerusalemme stessa. Il Muro del Pianto faceva parte della Gerusalemme araba e gli ebrei non potevano neanche recarvisi a pregare. È evidente che lo status di Gerusalemme deve essere ancora oggetto di una complessa trattativa, ed è chiaro che Obama avrebbe dovuto dire qualche cosa nel merito. Ma si è guardato bene dal affrontare questo nodo ineludibile. Non solo, gli Usa hanno sempre sostenuto che i confini tra Israele e Palestina devono essere oggetto di modifiche e di compensazioni e Netanyahu ha avuto buon gioco per ricordare a Obama che ha smentito solenni posizioni ufficiali dei suoi predecessori. Obama è però riuscito a creare imbarazzo anche ad Abu Mazen, perché ha ribadito la necessità di «preservare la sicurezza di Israele e di riconoscerne il diritto a esistere». Ma Abu Mazen sta varando un governo di unità nazionale con Hamas che non è affatto disposta a accettare queste due condizioni, tanto che i suoi leader hanno immediatamente rigettato con sdegno «l’indebita ingerenza americana», ribadendo: «Noi comunque non accettiamo la politica di Obama e non accettiamo la sua richiesta di riconoscere quello che lui ha definito lo Stato ebraico». Ora Abu Mazen si trova in mezzo al guado. Aulica, la prima parte del discorso in cui Obama ha preso atto della svolta imposta nei Paesi arabi dalle recenti rivolte. Avrebbe fatto meglio a assumere questa posizione anche quando tacque a fronte della rivolta dell’Onda Verde iraniana, ma comunque è un riconoscimento positivo. Con un limite. A fronte della repressione messa in atto dal regime siriano, la più feroce mai vista, Obama ha usato di nuovo una frase ambigua: «Assad faccia le riforme o lasci il potere». Ma è chiaro che Assad non ha nessuna intenzione di fare riforme nel momento in cui riempie le fosse comuni dei corpi degli oppositori falciati dalle sue milizie. E per costringerlo a lasciare il potere c’è bisogno di una pressione anche degli Usa che non c’è stata, perché, sino a pochi giorni fa, l’amministrazione Obama definiva Assad «un riformista». E che ora è tardiva.
La STAMPA - Lucia Annunziata : " Senza slanci emotivi "
Annunziata non sembra aver appezzato il discorso di Obama, troppo piatto e senza slanci particolari. Avrebbe preferito qualche cosa di più emotivo, di più sbilanciato, di più approfondito? La questione palestinese è stata toccata solo nella conclusione del discorso, come mai? Ecco l'articolo:
Lucia Annunziata
Il tanto atteso intervento del Presidente degli Stati Uniti sul Medioriente, arrivato nel pieno di grandi eventi, forse non passerà alla storia. Un discorso troppo minuzioso, ragioneristico nell’elencazione e cauto nelle soluzioni. Obama questa volta non ha avuto né lo slancio emotivo né la visione politica del discorso con cui al Cairo, solo un paio di anni fa, aveva aperto una nuova era nelle relazioni fra Stati Uniti e mondo musulmano.
Barack Obama ha parlato ieri a fine mattina al Dipartimento di Stato, cioè nel sancta sanctorum della politica estera Usa, e accanto a Hillary Clinton, cui ha dedicato ogni possibile complimento – incluso quello errato (e lo hanno subito sgamato i blog) di aver già volato 1 milione di miglia (sono in realtà la metà, e la Rice aveva raggiunto la mitica cifra, resa tale dal George Clooney di «Tra le nuvole», dopo soli 4 anni). Nulla lasciato al caso, dunque, «per fornire una nuova narrativa», come dicono gli analisti americani, a una storia di tensioni fra Usa e Medioriente ormai più lunga di mezzo secolo. Nessun compito avrebbe potuto essere più facile, dopo le rivoluzioni in Egitto, la cacciata di Mubarak, il ritrovato accordo con l’Europa sulla Libia; nulla di più trionfale da annunciare, dopo l’uccisione di Osama, il ritiro dei soldati americani dall’Iraq l’anno scorso, e la promessa di un altro ritiro in Afghanistan. Abbiamo ascoltato invece un solo acuto, un unico passaggio in puro stile Obama. Onorando il venditore ambulante di 17 anni Mohammed Bouazizi, che bruciandosi vivo per protesta contro le vessazioni della polizia ha acceso la miccia della rivoluzione in Tunisia, il Presidente ha paragonato i moti dei giovani arabi alla rivoluzione americana, e al movimento dei diritti civili: «A volte nel corso della storia le azioni di cittadini comuni avviano grandi cambiamenti perché colgono un desiderio di libertà che negli anni si è accumulato. In America penso ai patrioti di Boston che rifiutarono di pagare le tasse al re, e penso a Rosa Parks che rimase con coraggio al suo posto». Un audacissimo parallelo da proporre alla sua nazione, gli Usa, in cui oggi l’estrema destra ha eletto la rivolta dei patrioti di Boston a simbolo contro Obama, e in cui contro Obama questa stessa destra solleva di continuo lo spettro del razzismo.
Forzatura retorica, dunque, usata dal Presidente per avocare a sé la riscrittura di una nuova piattaforma di politica estera, che passi dalla «sicurezza e stabilità» per sé stessi, all’appoggio a un sistema di valori. «L’equilibrio attuale non è più sostenibile. Società tenute insieme da paura e repressione possono dare l’illusione di stabilità per un periodo, ma alla fine crollano. Noi appoggiamo diritti universali che includono libertà di parola, di riunione, di religione, di eguaglianza per uomini e donne davanti alla legge, e il diritto di scegliere i propri leader – che si sia cittadini di Baghdad o Damasco, di Sanaa o di Teheran».
Il giorno per giorno di quest’appoggio non è però molto chiaro. E infatti, a parte questi passaggi ispirati, il Presidente si è inoltrato con grande cautela, passo per passo, pragmaticamente, in tutti i problemi aperti nella regione. E di ognuno di questi interventi è stata pesata parola per parola, nelle varie capitali mediorientali, dove l’attesa per il discorso ieri era massima. Nulla di nuovo sulla Libia, salvo la rassicurazione che «Gheddafi se ne andrà o sarà deposto». Più vigoroso invece il tanto atteso richiamo alla Siria, in cui Obama adombra un ultimatum, ma senza davvero spingersi a formularlo: «Il presidente Assad ha una scelta: può guidare lui la transizione, o può andarsene». Del resto, le sanzioni appena applicate al governo di Damasco sono un segno di un indurimento di Washington, ma ben al di qua di ogni sfida. Duro avvertimento anche all’«ipocrisia del regime iraniano, che dice di sostenere le rivolte negli altri Paesi e massacra i suoi giovani che protestano». Ma forse la parte più rivelatrice di questa lista è quella che riguarda i Paesi «amici», come definiti nel discorso. E’ lì infatti che covano il disagio e il dilemma sulle cose da fare: su Israele, sull’Arabia Saudita, sul Bahrein e sullo Yemen, tutti alleati a diverso titolo e con diversa grandezza, ma tutti fondamentali per gli Usa. Al presidente yemenita Saleh, Obama ha ripetuto il suo invito (nulla di nuovo, qui) a mantenere la promessa di lasciare il suo posto. Per la prima volta, invece, abbiamo sentito un chiaro messaggio al Bahrein, dove è di stanza la 5ª Flotta americana. Il movimento di piazza nel piccolo Stato è agitato dall’Iran, e il Presidente Usa lo ha ricordato, «ma ugualmente abbiamo insistito privatamente e pubblicamente», ha rivelato, «perché arresti di massa e forza bruta non esprimono rispetto per i diritti umani». E’ il primo cenno esplicito alle brutalità in corso nel Paese. Mai pronunciato invece il nome dell’Arabia Saudita.
Solo in conclusione Obama ha affrontato il tema più dolente, Israele e Palestina. Ha parlato di nuovo di una soluzione che arrivi alla creazione di due Stati, e ha fatto un riferimento al 1967 «come base» dei confini reciproci. Il ripescaggio dell’anno 1967 ha provocato un certo trambusto nella comunità internazionale dal momento che è la data della Guerra dei Sei giorni che portò alla conquista da parte di Israele della maggior parte dei territori poi occupati e di Gerusalemme. Ma l’uso cautelare dell’espressione «sulla base di» tiene il riferimento dentro le possibili revisioni di quei confini in accordi di scambio, come è sempre stato nelle trattative. La realtà di cui Obama ha preso indirettamente atto nel chiedere il rilancio di un’inizitiva di pace è in effetti il fallimento di due anni di tentativi di stabilire un nuovo dialogo. Pochi giorni fa l’inviato Usa George Mitchell (l’uomo che ha costruito il dialogo fra Irlanda e Inghilterra, per capirsi) ha gettato la spugna. E il nuovo accordo tra Fatah e Hamas ha scombussolato gli schemi di lavoro fin qui usati. Il futuro di Israele e Palestina rimane dunque, come sempre, terra incognita.
Giunti alla fine, non si può che prendere atto che nell’elenco fatto i problemi rimangono più numerosi delle soluzioni. Questo è del resto il Medioriente. E nemmeno l’uomo più potente del mondo può illudersi di plasmarlo. In questo senso, forse, la modestia di questo discorso, di cui parlavamo all’inizio, è l’unico possibile, realistico e anche commendevole tono da assumere.
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