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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - La Stampa - L'Unità Rassegna Stampa
16.05.2011 Profughi palestinesi contro Israele. Una dimostrazione delle intenzioni pacifiche dei palestinesi?
Commenti e interviste di Antonio Ferrari, Vittorio Emanuele Parsi, Umberto De Giovannangeli, Francesco Battistini, Francesca Paci

Testata:Corriere della Sera - La Stampa - L'Unità
Autore: Antonio Ferrari - Vittorio Emanuele Parsi - Umberto De Giovannangeli - Francesco Battistini - Francesca Paci - Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Lo specchio della fragilità - Obama ora è ostaggio del 'conflitto irrisolto' - Assad - Netanyahu. Gioco di sponda per fermare la storia - Nei campi profughi cavalcano le rivolte. E Damasco li spinge - Lo Stato ebraico dovrà accettare le frontiere del ’67»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 16/05/2011, a pag. 1-38, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Lo specchio della fragilità ", a pag. 15, l'intervista di Francesco Battistini a Nahum Barnea dal titolo " Nei campi profughi cavalcano le rivolte. E Damasco li spinge ". Dalla STAMPA, a pag. 7, l'articolo di Vittorio Emanuele Parsi dal titolo " Obama ora è ostaggio del 'conflitto irrisolto' ", l'intervista di Francesca Paci a Samih al-Qasim dal titolo " Lo Stato ebraico dovrà accettare le frontiere del ’67 ", preceduti dai nostri commenti. Dall'UNITA', a pag. 25, l'articolo di Umberto De Giovannangeli dal titolo " Assad - Netanyahu. Gioco di sponda per fermare la storia ", preceduto dal nostro commento.
Ecco gli articoli:

CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Lo specchio della fragilità  "


Antonio Ferrari

Israele-Palestina-Libano-Siria. Il quadrilatero che è poi la cornice di un conflitto senza fine, sempre vivo ma apparentemente senza spiragli risolutivi, si è infiammato nel giorno della Nakba, una voce del vocabolario arabo che richiama la «Grande catastrofe» , cioè il giorno dell’Indipendenza di Israele nel 1948. Gli arabi ricordano la ricorrenza da 63 anni, ma ieri è stato un anniversario particolarmente doloroso e sanguinoso. È bastato poco, un incidente a Tel Aviv o forse qualche altro pretesto, ad accendere una spirale di violenza che, mentre scriviamo, non è ancora esaurita. La Nakba è sempre occasione di scontri, solitamente limitati. Stavolta l’anniversario si innesta, quasi fosse un nuovo detonatore, nel tessuto delle rivolte che stanno attraversando, con intensità variabile, l’intero mondo arabo. Quel che colpisce, nelle violenze di ieri, non è soltanto la volontà di ricordare quello che gli arabi considerano un giorno infausto della loro storia, ma il coinvolgimento di Paesi che, per quasi trent’anni, si erano impegnati a non utilizzare tra loro le armi, come Israele e Siria. La guerra tra i due si combatteva sempre in un terzo Paese, il Libano, che ha sofferto e pagato le ciniche regole di un conflitto per interposto Stato. Ieri lo sconfinamento di alcuni cittadini arabi (siriani, rifugiati palestinesi?) in Israele, dalle alture del Golan, ha provocato una catena di gravi reazioni. Dimostrando, con il gesto e la conseguente durissima reazione israeliana, che il «vecchio codice» che aveva segnato i rapporti tra i due Paesi è ormai fuori corso. La Siria, colpita da quella che molti osservatori internazionali ritengono una crisi dal cammino incerto ma dall’esito quasi ultimativo per il regime di Bashar el Assad, non ha avuto esitazione a consentire ai manifestanti di violare confini fragili, quindi più delicati; Israele, indebolito da un governo che pare inadeguato ad affrontare le sfide che si alzano dalle società di tutti i Paesi vicini, reagisce senza una precisa strategia, colpendo senza prevedere e calcolare le conseguenze. La Palestina, dopo l’accordo tra i laici del Fatah e gli integralisti di Hamas, sembra in mezzo al guado. E il Libano, con le sue divisioni trasversali, sembra lo specchio regionale di una fragilità che fa davvero paura.

La STAMPA - Vittorio Emanuele Parsi : " Obama ora è ostaggio del 'conflitto irrisolto' "

Parsi scrive : "Naqba, la giornata in cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele e l'inizio della catastrofe per il loro popolo". E questo è ciò che sostengono i palestinesi. Definire 'catastrofe' la nascita di Israele è sufficiente a rendere l'idea di quanto la controparte araba sia interesata alla pace. Parsi, però, non specifica che cos'è che ha reso i profughi tali. Non è stato Israele a cacciare dai suoi confini la popolazione araba locale, ma gli Stati arabi limitrofi, convinti di poter cancellare Israele da subito.
Parsi continua : "
Che le autorità di Tel Aviv siano in grande difficoltà rispetto agli avvenimenti di questi mesi è testimoniato dai toni aspri impiegati nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la «pace» stipulata con Hamas e dalla timidezza mostrata verso il regime di Damasco ". Autorità di Tel Aviv? E che cosa sarebbero? La capitale di Israele è Gerusalemme, non Tel Aviv.
Parsi scrive : "
un ritorno al consueto potrebbe non dispiacere neppure al governo di Tel Aviv, preoccupato che il tentativo dell’amministrazione statunitense di riguadagnare consenso nel mondo arabo possa implicare ulteriori pressioni americane a favore di concessioni che Israele ritiene impossibili". Perciò a Israele i terroristi palestinesi che cercano di entrare nei suoi confini per attaccare la popolazione farebbero comodo. Un commento del genere sarebbe stato bene sulle pagine del quotidiano di Rocca Cannuccia, non ci saremmo aspettati di trovarlo in un articolo firmato da Vittorio Emanuele Parsi, un tempo equilibrato.
Ecco il pezzo:


Vittorio Emanuele Parsi

Assumono quest'anno un significato particolare i sanguinosi disordini che accompagnano la ricorrenza della Naqba, la giornata in cui i palestinesi ricordano la nascita dello Stato di Israele e l'inizio della catastrofe per il loro popolo. Ci rammentano infatti che, mentre per la prima volta da molti decenni il mondo arabo è attraversato da inedite spinte al cambiamento, il Medio Oriente continua a restare ostaggio del suo grande, irrisolto conflitto. Il nuovo atteso discorso del Presidente ai popoli arabi, dopo quello del Cairo di quasi due anni orsono, arriverà a pochi giorni dal siluramento di George Mitchell da parte di Obama e non potrebbe cadere in un momento più delicato.

Nei mesi scorsi l'amministrazione statunitense aveva dovuto riguadagnare terreno dopo aver fornito l'impressione non tanto di essersi fatta cogliere di sorpresa dalla «grande rivolta araba del 2011», quanto soprattutto di aver faticato oltre misura ad articolare una reazione adeguata, dimostrando oltre a una comprensibile difficoltà in termini di pre-visione una meno giustificabile mancanza di visione riguardo a un'area del mondo dove gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti dalla fine della Guerra Fredda.

L’eliminazione di Osama bin Laden, un innegabile importante successo, era tornata a fornire l’immagine di una Casa Bianca nuovamente all'offensiva, capace di assumere l'iniziativa e di produrre fatti importanti in grado di bilanciare sia la sensazione di stallo nelle operazioni militari in Libia (dove peraltro l'America ha assunto una posizione defilata), sia la preoccupazione per la piega che gli eventi sembrano prendere in Egitto, dove i Fratelli Musulmani stanno lentamente ma costantemente riguadagnando il centro della scena politica, con la benevola neutralità delle forze armate, mentre l’infittirsi e il ripetersi di gravi episodi di violenza contro la minoranza copta getta ombre inquietanti sulla possibile evoluzione futura della rivoluzione.

Il discorso del Presidente avrebbe dovuto cercare di fornire una risposta coerente alle sfide poste da un regime ostile che non si riesce a ribaltare neppure con la forza militare e di uno alleato che appare sempre meno condizionabile, nonostante l'enorme messe di aiuti economici che riceve da Washington. Ma dopo quello che è successo ieri in Israele e ai confini con Siria e Libano, esso non potrà eludere l'eterna questione israelo-palestinese, cioè il tema peggiore, il più intrattabile per qualunque Presidente americano e per Obama in particolare. Che le autorità di Tel Aviv siano in grande difficoltà rispetto agli avvenimenti di questi mesi è testimoniato dai toni aspri impiegati nei confronti dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per la «pace» stipulata con Hamas e dalla timidezza mostrata verso il regime di Damasco.

Determinatissima, invece, è stata la reazione delle truppe israeliane ai tentativi di violazione della linea di demarcazione tra lo Stato ebraico e il Libano e la Siria da parte di qualche migliaio di palestinesi. Impossibile che simili manifestazioni abbiano avuto luogo senza l’attivo «incoraggiamento» delle autorità siriane e delle milizie di Hezbollah (per quanto riguarda il Libano). Da molte settimane, il regime di Bashar Al Assad è in grave difficoltà per un'ondata di protesta che non accenna a scemare nonostante l'estrema brutalità della repressione, e non è irrealistico ritenere che il soffiare sul fuoco della tensione nel giorno della Naqba sia stata un' opportunità troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, allo scopo di tornare a posizionare la Siria come il «primo Paese sulla linea del fronte antisionista» e non come la brutale dittatura che pure è.

Evidentemente anche l’Iran non può che essere interessato a vedere tornare in primo piano la «tradizionale» chiave di lettura del Medio Oriente (il conflitto arabo-israeliano) rispetto a quella «nuova» di questi mesi (la domanda di libertà). Ma un ritorno al consueto potrebbe non dispiacere neppure al governo di Tel Aviv, preoccupato che il tentativo dell’amministrazione statunitense di riguadagnare consenso nel mondo arabo possa implicare ulteriori pressioni americane a favore di concessioni che Israele ritiene impossibili.

Di tutte queste variabili Obama dovrà tener conto nel confezionare il suo discorso, attento anche a non cadere nel cliché di cui molti dei suoi critici lo accusano: di essere sìcuramente un Presidente che «ascolta prima di parlare», ma soprattutto un Presidente che «parla invece di agire».

L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Assad - Netanyahu. Gioco di sponda per fermare la storia "


Udg

Come Vittorio Emanuele Parsi, anche Udg ritiene che, in realtà, Israele abbia da guadagnarci dagli scontri di ieri. Una teoria improponibile, che parte da presupposto che Israele non sia interessato alla pace e che utilizzi qualsiasi pretesto per 'sviare l'attenzione' e continuare con la sua presunta politica di colonizzazione. Niente di più lontano dal vero. La preoccupazione primaria di Israele, come succede in qualsiasi stato democratico e pacifico, è la sicurezza dei propri cittadini. Quindi la massima attenzione ai propri confini.
Ecco l'articolo:

Un regime, messo in crisi da una rivolta popolare che reclama diritti e libertà, pronto a giocare la carta del Nemico sionista per provare a sopravvivere. È il regime siriano di Bashar al Assad. Un governo, messo in difficoltà da una «Primavera araba» che ha incrinato il vecchio ordine regionale, che rilancia la tesi del Nemico esterno, pronto di nuovo ad attentare all'esistenza stessa dello Stato ebraico, per provare a dare un tono, cupo, alle sue relazioni internazionali, in primis con gli Usa. È il governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu. Damasco che «usa» la «Giornata della catastrofe» palestinese per lanciare un messaggio all'Occidente - Stati Uniti ed Europa - inquietante: se continuate sulla strada delle sanzioni, abbiamo i mezzi, e la volontà, per trasformare di nuovo il Medio Oriente in una polveriera pronta ad esplodere. Un messaggio, quello del regime siriano, che trova attenti e partecipi sponsor a Teheran, a Beirut ( gli Hezbollah di Hassan Nasrallah) in quella nebulosa jihadista che l'«89 Arabo» aveva messo ai margini. A ben vedere, il primo bersaglio di questa escalation di morte, sono proprio le forze del cambiamento che hanno rivoluzionato l'agenda politica mediorientale. In Tunisia come in Egitto, nella stessa Siria come nello Yemen o in Bahrein, la gente è scesa nelle strade, rischiando la vita e perdendola in migliaia, per imporre una svolta interna, per liberarsi di gerontocrazie corrotte, di regimi sanguinari, di satrapie oscurantiste. Non una bandiera americana o israeliana è stata fin qui bruciata nelle Piazze arabe. Un segnale di straordinaria portata, un elemento di speranza. Che oggi in molti vorrebbero cancellare. E per farlo si cerca un ritorno al passato; un passato fatto di proclami antisionisti .e, sul versante israeliano, di richiami alla «trincea» contro un mondo arabo vissuto nuovamente non come un possibile Spazio di dialogo e di cooperazione ma come una Minaccia mortale. La seconda «vittima» di questo sinistro ritorno al passato è la «questione palestinese». Una radicalizzazione dello scontro, una sua «regio-nalizzazione», finisce per ricacciare in un angolo del tutto marginale il negoziato israelo-palestinese, da mesi in fase di stallo. Una marginalizzazione che fa il gioco di chi, come Bashar al Assad, intende gestire in proprio - magari in partnership con l'alleato iraniano - la «questione palestinese» come «merce» di scambio con l'Occidente. Una marginalizzazione che non dispiace, tutt'altro, al governo israeliano del duo Netanyahu-Lieberman indisponibile a quei sacrifici, non solo territoriali, necessari per dare una chance alla trattativa con lAutorità nazionale palestinese di Abu Mazen costretto a sua volta a onorare l'accordo con Hamas i cui leader hanno ripetuto più volte che la «riconciliazione nazionale» sancita al Cairo non contempla «cedimenti» negoziali a quello che resta il Nemico di sempre: Israele. Gli scontri di confine, i morti onorati , da una parte, come «martiri» e dall'altra liquidati come «terroristi», gli avvertimenti, i proclami, i Gabinetti di guerra... Il Medio Oriente sembra rivivere un vecchio «film», Che non contempla, anche nella sua nuova versione, un lieto fine.

CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Nei campi profughi cavalcano le rivolte. E Damasco li spinge "


Nahum Barnea

«È chiaro che sta succedendo qualcosa: i palestinesi dei campi profughi si sono messi a correre sulla schiena del leopardo. Dove il leopardo è la rivolta araba. Ci sono saliti per ultimi, non so quanto ci staranno sopra» . Nahum Barnea, il più letto dei commentatori israeliani, è sorpreso solo d’una cosa: «Non capisco perché l’intelligence israeliana si sia fatta sorprendere da questi disordini ai confini. Tutti sapevano che la giornata della Nakba si presentava a rischio. Se ne parlava da giorni. E sono quattro mesi che, il leopardo, aspettavamo arrivasse anche qui. I campi palestinesi in Siria e in Giordania, in Libano e a Gaza, sono posti terribili. C’è gente che da 63 anni non ha diritti. Manifestazioni come queste, per loro sono ossigeno» . La Siria sta cercando di deviare l’attenzione internazionale dai suoi problemi? «L’interesse di Damasco è evidente. È lo stesso di chi controlla i campi in Libano. In Siria è impossibile che bus organizzati arrivino al confine d’Israele senza il consenso di Assad. Non erano manifestazioni spontanee, quella gente era chiaramente pagata. Una cosa sincronizzata con Gaza» . Ma i palestinesi cambiano strategia? Era da anni che non mobilitavano i fuoriusciti... «No, qui c’entra solo Assad. La strategia di Abu Mazen è politica: lui non vuole disordini. Tanto che in Cisgiordania non è successo quasi nulla. Lui vuole indebolire Israele sul piano internazionale e ci sta riuscendo. Altro che Arafat! I profughi palestinesi sono un caso unico al mondo. Sono figli della Seconda guerra mondiale, come milioni d’europei. Ma se gli jugoslavi o i polacchi si sono integrati, dove li hanno messi, i palestinesi non hanno trovato un solo Paese arabo che li accogliesse. L’Onu poi li ha trasformati in rifugiati perenni, mantenendoli per 63 anni. Non ci sono eguali al mondo. La Nakba fa parte d’un progetto per delegittimare Israele e siccome i palestinesi sono molto intelligenti, e Netanyahu non è capace di proporre alcunché, ecco che ora alcuni saltano sul leopardo. Chi come me crede nella soluzione dei due Stati, però, e vuole che Israele si ritiri totalmente dalla Cisgiordania, non può appoggiare il loro diritto al ritorno: ormai non c’è più spazio per tutti» . Il nuovo ruolo di Hamas, alleato del Fatah, può cambiare qualcosa? «L’accordo dipende da quel che è accaduto in Egitto, dall’opinione pubblica palestinese che chiedeva unità, dall’incapacità d’Israele di proporre qualcosa. Ma non è una storia d’amore, né un matrimonio: è solo una pace strategica. Che alla fine rafforza solo Israele» . Obama vedrà Netanyahu e parlerà al Medio Oriente: che cosa si aspetta? «Niente. Gli Usa sanno che non c’è materia su cui lavorare. E per Israele, questo è un dramma» . Si riferisce allo Stato palestinese che Abu Mazen vuole proclamare in settembre all'Onu? «Nessun palestinese può considerare settembre una data epocale: la Palestina è nata con l’Olp, tanti anni fa. Sarà solo un’altra corsa sulla schiena del leopardo» .

La STAMPA - Francesca Paci : " Lo Stato ebraico dovrà accettare le frontiere del ’67 "

L'intervista è un concentrato di menzogne palestinesi e odio verso Israele. Le timide domande di Francesca Paci, comunque, riescono a far emergere tutto l'odio che Samih al-Qasim nutre per Israele. Secondo lo scrittore palestinese : "quelle di ieri sono vittime dell’occupazione (...) il destino dei palestinesi non dipende dalle fazioni e dai conflitti intestini ma dalla fine dell’occupazione ".
Ecco il commento di Samih al Qasim sulla nascita di Israele : "
allora, come oggi, avevamo capi reazionari che decisero il nostro destino insieme ai peggiori tra sionisti e britannici. Basta. È l’ora della democrazia palestinese". Quale sia questa fantomatica democrazia palestinese, non è dato saperlo. Basta osservare ciò che succede a Gaza, amministrata da Hamas, o in Cisgiordania, amministrata dall'Anp. Samih al-Qasim parla di democrazia palestinese come se potesse esistere, ma la realtà dimostra il contrario.
Al-Qasim continua : "
Lo stallo dei negoziati di pace non dipende da noi. Israele mostra i muscoli e potrebbe anche lanciare nuove offensive, riprendersi il Sinai, chissà. Ma prima o poi dovrà accontentarsi dei confini stabiliti dall’Onu". Non è Israele a minacciare i palestinesi, ma il contrario.
Ecco la soluzione ideale al conflitto, secondo al-Qasim : "
Personalmente preferirei uno Stato per due popoli perché ho amici israeliani, ci assomigliamo, abbiamo le stesse radici linguistiche ". Uno Stato unico binazionale. Quando Paci gli fa notare che questo comporterebbe la cancellazione di Israele, al-Qasim risponde : "Il problema demografico esiste, alla lunga Israele sparirà comunque. Penso che sarebbe più conveniente per tutti superare il razzismo. Ma alla fine vanno bene anche due Stati lungo i confini del ‘67". Israele è destinato a scomparire, ma per cominciare al-Qasim si accontenterebbe dei confini del'67. Poi tanto Israele verrà cancellato, in nome di una Palestina 'dal fiume al mare', possibilmente 'judenrein'. Democrazia palestinese?
Ecco l'intervista:


Samih al-Qasim

Tra un dibattito letterario e un incontro con i lettori il poeta palestinese Samih al-Qasim siede nello stand dedicato alla sua terra del Salone del Libro di Torino e sgrana la misbaha, il rosario islamico. La sua calma esorcizza la frenesia dei connazionali dell’organizzazione che cercano di capire se gli scontri al confine con Siria e Libano debbano compromettere il meeting fissato con la comunità ebraica cittadina.

Cosa significano questi morti: siamo di nuovo al punto di rottura?

«Da 63 anni non contiamo quasi più i nostri morti: aspettiamo sempre il peggio. Questo non significa che siamo rassegnati, ma sappiamo che la politica non c’entra: quelle di ieri sono vittime dell’occupazione».

La tensione tra israeliani e palestinesi porterà alla terza intifada?

«La rabbia dei palestinesi è come un vulcano: ci sono movimenti tellurici, poi c’è l’esplosione, infine si avvertono nuovi assestamenti fino alla scossa successiva. Tocca al Richter-Obama di turno misurarne l’intensità. Noi non abbiamo “remote control”, è impossibile prevedere l’eruzione del vulcano perché non nasce dalla decisione politica di un leader ma dalla rabbia popolare repressa».

All’inizio di maggio Fatah e Hamas si sono stretti la mano. Ha fiducia?

«Sono entrato nelle carceri israeliane assai prima che esistesse Hamas, figuriamoci lo scontro con Fatah. Voglio dire che il destino dei palestinesi non dipende dalle fazioni e dai conflitti intestini ma dalla fine dell’occupazione. E comunque sono ottimista, conosco bene il mio popolo: le fratture si saneranno e torneremo uniti».

Che effetto fa ai palestinesi la primavera araba, l’intifada degli altri?

«Più che alla primavera, un’immagine bella ma europea, preferisco associare le rivolte arabe alla “nabtat assahara”, la pianta del deserto che viene sradicata e trasportata dal vento finché si posa, assorbe una goccia d’acqua e rifiorisce. Ogni regime arabo è diverso, in Egitto per esempio l’inimicizia tra regime e popolo era totale mentre in Siria c’è almeno un accordo sulla politica estera. Ma la sfida alle dittature e la richiesta di partecipazione influenzano positivamente i palestinesi».

In che modo?

«Non avremo mai pace senza democrazia. Le dittature alimentano le guerre, pensate a Hitler, Mussolini, Franco, Saddam, Gheddafi. I palestinesi hanno bisogno di democrazia».

È un messaggio ai leader in carica?

«Certo. Con leader rappresentativi non avremmo perso la Palestina. Ma allora, come oggi, avevamo capi reazionari che decisero il nostro destino insieme ai peggiori tra sionisti e britannici. Basta. È l’ora della democrazia palestinese».

Vale a dire?

«Mi risulta per esempio che la democrazia americana odi due cose: il razzismo e i neri. Mi piacerebbe sperimentare una democrazia non discriminatoria che non distingua bianchi/neri, ebrei/arabi, arabi/berberi, ma valga per tutti».

Una bella utopia. E nell’attesa? Razzi lanciati da Gaza e rappresaglie?

«Lo stallo dei negoziati di pace non dipende da noi. Israele mostra i muscoli e potrebbe anche lanciare nuove offensive, riprendersi il Sinai, chissà. Ma prima o poi dovrà accontentarsi dei confini stabiliti dall’Onu».

Si riferisce a quelli del ‘67?

«Personalmente preferirei uno Stato per due popoli perché ho amici israeliani, ci assomigliamo, abbiamo le stesse radici linguistiche. Il poeta sionista Bialik diceva di odiare gli arabi perché gli ricordavano i sefarditi. Insomma, potremmo vivere insieme».

Finché non ci pensi la demografia?

«Il problema demografico esiste, alla lunga Israele sparirà comunque. Penso che sarebbe più conveniente per tutti superare il razzismo. Ma alla fine vanno bene anche due Stati lungo i confini del ‘67: Hamas e Fatah hanno accettato. Israele che aspetta?».

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