Con l'eliminazione di Bin Laden il presidente americano risale nei sondaggi, il che dimostra quanto fosse male orientata la sua politica estera precedente. Maurizio Molinari, sulla STAMPA di oggi, 14/05/2011, a pag.15, riferisce sulle dimissioni di George Mitchell dall'incarico in M.O., vedremo su chi cadrà la scelta del prossimo. Christian Rocca, sul SOLE24ORE, a pag.9, analizza i rapporti di forza tra democratici e repubblicani alla luce della nuova immagine di Barack Obama.
Ecco gli articoli:
La Stampa-Maurizio Molinari:" Lascia lo zar del Medio Oriente "

a destra George Mitchell
George Mitchell si dimette da inviato della Casa Bianca per il processo di pace in Medio Oriente lasciando intendere che Obama si appresta a cambiare approccio ad un negoziato in stallo da mesi. Mitchell era stato nominato il 22 gennaio 2009 ed aveva ricevuto l’incarico di mediare fra Israele ed Autorità nazionale palestinese (Anp) senza interruzione, arrivando a concordare nel settembre 2010 con Benjamin Netanyahu e Abu Mazen l’obiettivo di raggiungere un accordo definitivo entro un anno. «Ma dopo oltre venti mesi il risultato è l’assenza di negoziati, l’impossibilità di un accordo e l’irritazione dell’amministrazione», spiega Aaron David Miller, ex negoziatore Usa. «L’ultimo viaggio di Mitchell nella regione risale a molti mesi fa», aggiunge Patrick Clawson, analista di Medio Oriente al Washington Institute, ed entrambi i suoi binari di azione «sono bloccati da tempo» a causa dei «veti incrociati fra israeliani e palestinesi» come «dell’assenza di progressi fra israeliani e siriani». «L’ultimo tentativo di Mitchell è stato definire con le parti parametri comuni sul negoziato ma ha fallito», assicura Daniel Levy, ex negoziatore israeliano, mentre Hussein Ibish dell’American Task Force on Palestine ritiene che «Mitchell paghi il prezzo del fatto che Obama ha rischiato per la pace più delle parti in causa». L’impatto delle rivolte arabe ha fatto il resto perché «l’instabilità in Siria rende impensabile la trattativa con Israele su cui lavorava» aggiunge Clawson, mentre sul fronte palestinese l’accordo fra Anp e Hamas è stato uno smacco per l’amministrazione in quanto Hamas è considerata un’«organizzazione terroristica» e ogni passo verso di lei significa allontanarsi dagli Usa.
A tutto ciò bisogna aggiungere il corto circuito sugli insediamenti israeliani in Cisgiordania causato dal fatto che la Casa Bianca ne ha prima chiesto a Netanyahu il blocco totale - inclusa Gerusalemme Est - ma poi ha fatto marcia indietro. La reazione di Abu Mazen è arrivata da Newsweek quando ha chiamato in causa il presidente Usa: «È stato Obama a suggerire il blocco totale degli insediamenti, io ho accettato ed entrambi siamo saliti su quest’albero ma poi lui ha tolto la scala e mi ha detto di saltare». A conferma dell’allontanamento di Obama l’Anp punta ora ad ottenere l’indipendenza attraverso un voto dell’Assemblea Generale dell’Onu e non un accordo con Israele. Le dimissioni di Mitchell, motivate da «ragioni personali», sono il risultato della somma di più fallimenti che hanno spinto altri consiglieri di Obama - a cominciare da Tom Donilon - a suggerire di «riprendere l’iniziativa» facendo leva sulle trasformazioni in Medio Oriente e Nordafrica a seguito delle rivolte arabe. Non a caso l’addio di Mitchell coincide con quello che sembra un nuovo inizio dell’impegno Usa. Commentando le dimissioni Obama e Clinton hanno detto che «l’America resta impegnata al perseguimento della pace per costruire sui risultati di Mitchell» che sarà sostituito dal vice David Hale. Il presidente ha rigraziato Mitchell e detto che sapeva che si era dato due anni di tempo per lavorare. È l’agenda a suggerire cosa si sta preparando: martedì Obama riceve il re giordano Abdallah e venerdì il premier israeliano Netanyahu mentre giovedì pronuncerà dal Dipartimento di Stato un discorso teso a «riaffermare la leadership americana in Medio Oriente» come fanno sapere fonti della Casa Bianca. Sarà poi Netanyahu a parlare al Congresso, il 24 giugno, per illustrare la posizione di Israele.
IlSole24Ore-Christian Rocca: "Obama sempre più number one"

Barack Obama non ha bisogno del corpo di Osama Bin Laden, e nemmeno del gran discorso al mondo arabo e islamico di giovedì prossimo, per assicurarsi la rielezione alla Casa Bianca il 6 novembre del 2012. A quello ci pensa con maggiore efficacia il fiacco campo degli sfidanti repubblicani. L'operazione militare guidata da Obama nel rifugio terrorista di Abbottabad, in Pakistan, ha spazzato via i dubbi di una parte dell'opinione pubblica sulle doti di leadership e sulle capacità di comandante in capo del giovane presidente. Ma la grande forza di Obama 2012 è soprattutto la debolezza degli avversari. Nessuno dei dodici possibili candidati repubblicani sembra oggi in grado di reggere il confronto con il presidente.
A livello nazionale, secondo i sondaggi vecchi e nuovi, Obama sconfiggerebbe agevolmente uno per uno i dodici repubblicani, nonostante i dati sull'occupazione, il costo della benzina e una certa incertezza sul futuro non siano mai elementi favorevoli a un presidente in carica.
Il paradosso, però, è che la fine di Bin Laden possa favorire anche i repubblicani. Dalla guerra del Vietnam in poi, a torto o a ragione, la destra conservatrice è considerata dagli americani più affidabile sulle questioni di sicurezza nazionale. I risultati ottenuti da Obama, grazie anche alla conferma dell'architettura antiterrorismo costruita dopo l'11 settembre da George W. Bush, potrebbero anche aver ribaltato la percezione. Ma in realtà il tavolo della politica estera era già stato fatto saltare dai repubblicani per ragioni ben precise. Nessuno dei dodici possibili candidati, infatti, ha competenze, esperienza e profilo di sicurezza nazionale. I dodici repubblicani vogliono affrontare Obama sulle questioni di politica interna, sui conti federali, sul debito pubblico, sulla riforma della sanità, sulle tasse. L'uscita di scena di Bin Laden facilita questa strategia.
Le possibilità dei repubblicani sono poche, ma ci sono. Al Senato, intanto, potrebbero conquistare la maggioranza perché su 33 dei seggi in palio i democratici dovranno difenderne 23 e i repubblicani soltanto 10. Ai conservatori basterà confermare i propri e strapparne 4 agli avversari.
La strada per la Casa Bianca è più complicata. Senza un leader serio, competente e riconoscibile, una vittoria è improbabile. Ma se si incrociano i risultati delle elezioni di metà mandato dell'anno scorso con il peculiare sistema di voto presidenziale (538 Grandi elettori suddivisi tra i 50 stati, maggioranza a 270), una possibilità politica e aritmetica c'è. La formidabile campagna elettorale di Obama del 2008 ha sconfitto la scricchiolante macchina politica di John McCain con uno scarto di 192 grandi elettori. Il prossimo anno lo sfidante di Obama per diventare presidente dovrà strappargliene 97, anzi soltanto 91 visto che il nuovo censimento ha ridistribuito i Grandi elettori in modo favorevole agli stati più conservatori. Gli Stati Uniti sono tradizionalmente divisi tra stati repubblicani e democratici, restringendo la partita a quei cinque stati in bilico che nel 2004 sono andati a Bush e nel 2008 a Obama: Ohio, Florida, Virginia, Indiana e Wisconsin. In totale, lì, ci sono 81 Grandi elettori a disposizione.
Con i risultati del midterm dell'anno scorso, quegli 81 voti andrebbero ai repubblicani. In questi cinque stati, l'appeal di Obama non è più quello di tre anni fa, e i sondaggi locali ne risentono. Il presidente rischia anche altrove, dalla North Carolina al Colorado, dal Nevada al Minnesota. Altri stati (e 40 voti) che Obama ha conquistato nel 2008, ma dove l'anno scorso i repubblicani sono riusciti ad essere più che competitivi.
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