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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
12.05.2011 Siria: Assad manda i carri armati contro la popolazione, a Homs
Cronache e analisi di Redazione del Foglio, Rolla Scolari. Intervista a una blogger siriana di Francesca Paci

Testata:Il Foglio - Il Giornale - La Stampa
Autore: Redazione del Foglio - Rolla Scolari - Francesca Paci
Titolo: «I carri armati del regime di Assad sparano a Homs - Ora gli Usa vogliono fare pressione sul regime di Assad - Intervento della Nato? No, meglio la Turchia»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/05/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " I carri armati del regime di Assad sparano a Homs ". Dal GIORNALE, a pag. 16, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Ora gli Usa vogliono fare pressione sul regime di Assad ". Dalla STAMPA, a pag. 13, l'intervista di Francesca Paci ad Amina Abdullah, blogger siriana, dal titolo " Intervento della Nato? No, meglio la Turchia ", preceduta dal nostro commento.
Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - " I carri armati del regime di Assad sparano a Homs "

Roma. Il rais siriano, Bashar el Assad, ha risposto secondo il suo stile alle sanzioni stabilite dall’Unione europea contro dodici esponenti del regime per convincerlo a imboccare la strada delle riforme e del dialogo: ieri mattina i carri armati hanno sparato con i cannoni su alcuni quartieri di Homs, in rivolta da un mese, mentre squadre di miliziani, guidati dal generale Maher el Assad, fratello del presidente, hanno messo sotto assedio alcuni quartieri della città. Identiche operazioni hanno colpito alcuni villaggi del circondario di Deraa, epicentro della rivolta. Ha subìto la stessa sorte anche Tall Kalakh, cittadina a ridosso del confine col Libano. Alcuni profughi, arrivati a piedi alla frontiera, ma respinti dall’esercito libanese, hanno fornito al Guardian un resoconto impressionante: “Ci sono morti nelle strade e cecchini che sparano su chiunque tenti di recuperarli; se sei ferito nessuno può raggiungerti e morirai lentamente in strada”. Domani, ennesimo venerdì della collera, si avrà il segno della capacità del movimento di protesta di resistere alla repressione spietata del regime siriano. Soltanto l’adunata dei fedeli nelle moschee permette oggi la formazione di consistenti cortei nelle strade, che durante i giorni feriali sono teatro di sortite di piccoli gruppi di manifestanti. La notizia fornita dalla agenzia ufficiale Sana di due militari morti a Homs accredita l’ipotesi che anche in questa città si siano verificate sparatorie tra milizie e soldati dell’esercito che si rifiutano di sparare sulla folla. E’ interessante quello che è avvenuto a Banias, dove i dimostranti hanno innalzato manifesti con l’immagine del premier turco, Recep Tayyip Erdogan, che finalmente, due giorni fa, ha rotto il prudente silenzio su quanto avviene nel paese con cui aveva stretto alleanza nel 2005 (dopo decenni di forti attriti), con parole durissime: “Più di mille civili sono stati uccisi in Siria e io non voglio oggi vedere la ripetizione della violenza scatenata nella città siriana di Hama nel 1982, o nella città irachena di Halabija dove furono gasati e uccisi 5.000 curdi”. La frase è dirompente, perché mette sullo stesso piano le responsabilità di Hafez el Assad (che ordinò la strage di Hama) e di suo figlio Bashar con quelle dell’ex rais iracheno Saddam Hussein, acerrimo e disprezzato avversario degli Assad e del loro Baath. La decisione della confinante Turchia di schierarsi a fianco della rivolta siriana che traspare dalle parole di Erdogan – se si consoliderà e concretizzerà – infrange l’isolamento a cui sino a oggi, con l’eccezione silente della Giordania, è stata costretta la rivolta siriana. Questa volontà di isolamento è stata invece ribadita dalla Russia, che ha posto il veto a una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’Unione europea ieri, per bocca di Catherine Ashton, capo della diplomazia dell’Ue, ha minacciato ulteriori provvedimenti contro il regime di Bashar el Assad, alla luce della sua risposta al messaggio lanciato con le prime sanzioni, che evitavano di colpirlo personalmente nella speranza, dimostratasi vana, di una sua svolta dialogante.

Il GIORNALE - Rolla Scolari : " Ora gli Usa vogliono fare pressione sul regime di Assad "


Barack Obama

L’Amministrazione Obama si prepara ad alzare la voce con il regime del giovane Bashar El Assad. La violenta e ininterrotta repressione delle forze di sicurezza siriane contro la rivolta popolare iniziata due mesi fa nel Paese ha portato gli Stati Uniti e l’Unione europea a criticare il regime di Damasco, a imporre sanzioni contro alcuni uomini dell’entourage presidenziale, a chiedere ad Assad di aprire la via alle riforme. Ma finora, nessuno ha ancora messo in discussione la poltrona del presidente, come è successo invece negli ultimi giorni di regno del faraone Hosni Mubarak in Egitto e in Libia con il colonnello Muammar Gheddafi. Il crescere della violenza contro i civili in protesta sembra aver fatto cambiare corso alla diplomazia. Alti funzionari dell’Amministrazione Obama hanno rivelato ieri all’Associated Press che è questione di ore: a breve Washington potrebbe dichiarare che il presidente Assad ha perso la legittimità di governare, che è ora che il rais e la sua famiglia lascino il potere.
Gli Stati Uniti, che nei mesi passati avevano scelto la via del dialogo con il regime di Assad, riaprendo a gennaio la sede diplomatica di Damasco, chiusa sei anni fa, hanno iniziato ad alzare i toni con il crescere della repressione in Siria: hanno imposto sanzioni a due importanti esponenti del regime. Gli indizi che emergono ora sulla stampa americana suggeriscono la possibilità di mosse più radicali. Da giorni i mass media nazionali parlano di un dibattito interno all’Amministrazione americana su come muoversi con Damasco.
L’America spera anche nella collaborazione con gli alleati. Obama ha espresso apprezzamento per l’Europa: Bruxelles ha varato martedì un pacchetto di misure economiche contro 13 uomini del regime siriano. L’Unione è il principale partner commerciale di Damasco e le sanzioni imposte dai 27 dovrebbero avere una maggiore capacità di colpire il regime di Assad rispetto a quelle americane. Eppure, poche ore dopo l’annuncio europeo, la repressione del regime non è diminuita e sembrano ogni giorno più reali le parole che Rami Makhlouf, cugino del presidente, ha detto al New York Times: «L’élite siriana al potere combatterà fino alla fine».
Ieri i carri armati dell’esercito sono entrati nella città occidentale di Homs e secondo testimoni oculari avrebbero sparato sugli abitanti, uccidendo almeno nove persone. A Daraa le vittime sarebbero 13, sempre secondo attivisti e testimoni, visto che la stampa internazionale resta bandita dal suolo siriano. Finora, secondo i gruppi per i diritti umani locali, i morti sarebbero oltre 750 e oltre 10mila persone sarebbero state arrestate. La Casa Bianca ha «condannato con forza» le repressioni di ieri contro la popolazione. «Un atteggiamento del genere può portare soltanto a più instabilità nel Paese», ha detto il portavoce Jay Carney. E Damasco, criticata da ogni parte per le brutalità contro i civili e l’uso indiscriminato della forza militare contro i manifestanti, ha deciso di ritirare la sua stonata candidatura per un seggio al consiglio per i diritti umani dell’Onu. Sarà il Kuwait a presentarsi al voto fra poche settimane.

La STAMPA - Francesca Paci : " Intervento della Nato? No, meglio la Turchia "


Bashar al Assad

Amina Abdullah dichiara che " la Nato non potrebbe mai lanciare un’invasione da Anbar e l’immagine di soldati occidentali che si congratulano con gli israeliani sul Golan spingerebbe qualsiasi vero siriano a sostenere Assad.". Piuttosto che avere a che fare con gli israeliani, è meglio stare con Assad. Il Golan è stato conquistato da Israele per impedire ad Assad di bombardare le città israeliane. Israele è una democrazia, ma secondo Abdullah tra Israele e il regime di Assad, è meglio quest'ultimo, anche se manda i carri armati contro la popolazione.
Ecco l'intervista:

Fino a poco tempo fa non avrei mai creduto che qualcuno al di fuori dei miei amici potesse interessarsi a cosa pensavo». Amina Abdullah parla della propria vita di giovane omosessuale nella Damasco scossa dalla protesta. Nata negli Stati Uniti da padre siriano e madre americana convertita all’islam, è cresciuta a cavallo tra due mondi imbarcandosi in un matrimonio «fallimentare» prima d’accettare che il suo orientamento sessuale non fosse «una malattia». Lo scorso anno è tornata a Damasco dove insegna inglese e tiene un blog che da due mesi è il faro del dissenso liberal.

Da quando ti occupi di politica?

«Sebbene sia nata in una famiglia impegnata mi sono sempre interessata poco di politica. In America partecipavo a qualche riunione da osservatrice esterna. Oggi però, come araba e come siriana, non vorrei essere in alcun posto che non fosse Damasco».

Ti aspettavi che la primavera araba arrivasse fino in Siria?

«Lo speravo e al tempo stesso mi chiedevo se Assad sarebbe stato tanto astuto da promuovere riforme prima che le chiedessimo. Non è andata così. Ricordo il primo corteo a febbraio, mi guardavo intorno, contavo i poliziotti e vedevo la paura della gente».

Il regime attribuisce la protesta agli islamisti. Cosa ne pensi?

«Balle. Tutti i regimi giocano le stesse carte: Osama sarà pure morto ma resta utile per spaventare la gente. Il regime vorrebbe che l’opposizione fosse guidata da neotalebani per convincere la maggioranza dei siriani - le minoranze religiose e gran parte dei sunniti - di essere l’opzione migliore. Purtroppo per loro chiunque in strada può testimoniare che l’opposizione è composta da persone comuni che chiedono democrazia e unità nazionale».

E se ad Assad seguisse il caos?

«Uno scenario improbabile. Mi preoccupa più l’ipotesi di una guerra civile».

Che faccia hanno i dissidenti siriani?

«In buona parte provengono dalla popolazione non rappresentata dal regime. Nel Nord-Est molti sono curdi, a Homs è attivo il partito comunista, i Fratelli Musulmani si danno da fare un po’ dovunque e poi c’è la società civile. Non esiste un programma comune ma chiediamo compatti la fine della dittatura, libere elezioni, l’abolizione della tortura. Vogliamo che il regime com’è oggi se ne vada. Siamo un movimento democratico che non ha leader perché esprime la volontà nazionale».

Vorresti un aiuto Nato come in Libia?

«No, non voglio liberarmi di Assad al prezzo di perdere la libertà della Siria. Se un esercito straniero ci invadesse sarei fiera di combattere e morire per Assad. Il ricordo della lotta per l’indipendenza è forte qui. E poi guardate la mappa: la Nato non potrebbe mai lanciare un’invasione da Anbar e l’immagine di soldati occidentali che si congratulano con gli israeliani sul Golan spingerebbe qualsiasi vero siriano a sostenere Assad. Resta solo la Turchia».

Perché la Turchia?

«E’ l’unico Paese le cui truppe di terra sarebbero accolte con fiori e non con razzi. Lo sanno tutti qui. L’opposizione ammira i progressi economici e sociali della Turchia e a molti tranquillizza il fatto che gran parte dei Fratelli Musulmani siriani s’ispiri all’Akp, islam e democrazia. Il regime è diviso tra chi la considera un amico e un modello riformista e chi preferisce Teheran...».

Come andrà a finire?

«Speravo che Bashar fosse un Gorbaciov capace di guidarci dolcemente fuori dalla dittatura. Peccato. Ora la scelta è tra la guerra civile, la rivoluzione totale e un passo indietro del regime».

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