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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
11.05.2011 Siria e Medio Oriente, la miopia dell'Occidente
analisi di Fiamma Nirenstein, Redazione del Foglio

Testata:Il Giornale - Il Foglio
Autore: Fiamma Nirenstein - Redazione del Foglio
Titolo: «Su Siria e Medio Oriente l’Occidente ha perso la bussola - Perché Damasco no»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 11/05/2011, a pag. 11, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Su Siria e Medio Oriente l’Occidente ha perso la bussola ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo dal titolo " Perché Damasco no ".
Ecco i due articoli:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Su Siria e Medio Oriente l’Occidente ha perso la bussola "


Fiamma Nirenstein

Quali farfalle andiamo acchiap­p­ando quando decidiamo ora di aiu­tare, ora di sanzionare, ora di loda­re, ora di redarguire, ora di promuo­vere, ora addirittura di fare la guer­ra? La domanda ha risposte penose e a volte persino manicomiali.L’Eu­ropa ha fatto dei diritti umani 170 pagine di regole oppressive che defi­niscono una moralità post moder­na di “ non discriminazione”,princi­pi astr­atti e severissimi che precedo­no i diritti della nostra comunità pri­maria e prescindono anche dalle si­tuazioni di fatto. Per esempio, sul­l’immigrazione sdottoreggia e sgri­da, ma poi non dà nessun valore alla libertà, per esempio degli iraniani, o dei siriani se non a chiacchiere, e nemmeno cerca di fare politica di fronte al terrorismo e alle stragi di innocenti, anche quando poi arrive­ranno da noi. Il caso più eclatante è che lasciamo che l’Iran costruisca una bomba atomica chiaramente dedicata a noi. Ma prendiamo tre esempi nuovi e collegati concettualmente nella no­stra incapacità di difenderci. Pensia­mo al commento sulle immagini di Bin Laden con la barba bianca da­vanti al televisore mentre organizza il suo prossimo messaggio stragista. Lo avrete sentito alla tv, visto sui giornali: il commento, una saraban­da di piagnucolii sulla vecchiaia, la stanchezza, la solitudine, la noia di un pover’uomo in stanza «mode­sta », di fronte a un «vecchio televiso­re », con le rughe, i capelli bianchi…. Poverino. Era meglio lasciare che ci continuasse ad ammazzare, quel povero vecchietto da diecimila mor­ti innocenti. Secondo esempio, stavolta istituzio­nale: l’Unione Europea riunisce ve­nerdì scorso tutti i suoi rappresen­tanti per parlare della Siria, dove Bashar Assad con l’ausilio degli emissari iraniani padroni del Paese tiene in piedi il suo regno al prezzo, intanto, di seicento concittadini am­mazzati. L’Ue si arrabbia molto, e sanziona i movimenti di tredici ami­ci suoi dimenticando di includere Assad nella lista. Pensa quanto ab­biamo aiutato i siriani. Intanto Hil­lary Clinton, in visita in Italia, ribadi­sce anche alla tv italiana che mentre Gheddafi è un vero mostro, il giova­ne siriano vestito all’inglese è inve­ce uno con cui si può sperare di trat­tare. Il problema è dopo quanti mor­ti. Infine, ma più importante proprio oggi, nel giorno in cui Israele com­pie 63 anni, uno Stato minuscolo che ha avuto quasi 23mila morti in guerra e nel terrorismo da quando la sua esistenza di Paese appassio­natamente democratico ha avuto inizio. Dopo anni di reciproche stra­gi hanno raggiunto un accordo Fa­tah, l’organizzazione di tradizione arafattiana dei palestinesi che go­verna il West Bank e Hamas, padro­ne di Gaza, che si definisce, nella sua Carta, un «movimento islamico di resistenza la cui lealtà va ad Allah e che vuole alzare la bandiera pale­stinese su ogni centimetro della Pa­lestina » ovvero su Israele, di cui pre­cisa «che continuerà ad esistere fin­chè l’Islam lo oblitererà». L’unifica­zione è avvenuta perché la Siria di Assad non è più quel rifugio sicuro e quel sostegno di provenienza irania­na su cui Hamas ha contato fino ad oggi. E perché Fatah, accusata di rappresentare solo metà del popolo palestinese, ha concepito una stra­tegia per cui ha biosgno di Hamas: andare a settembre all’Assemblea Generale dell’ONU e chiedere di ri­conoscere a maggioranza, senza trattative, uno Stato palestinese. Abu Mazen, accusato di essere un Mubarak al soldo degli americani, vuole anche una bella copertura a sinistra di fronte ai suoi, e una unifi­cazione palestinese. Non importe­rà all’ONU che sia con Hamas, l’uni­co al mondo che ha dichiarato che Bin Laden è un martire e un grande guerriero dell’Islam e che sia vicino ad Al Qaida. Hamas è un ramo del­l’estremismo islamico più brutale, negli ultimi mesi ha ucciso tutta una famiglia, i Fogel, con tre bambini, un ragazzo sullo school bus, Daniel Wiplich, un giovane in visita alla tomba di Giuseppe, Ben Yosef Liv­nat. Niente potrebbe essere più in­desiderabile per la pace della scelta di Abu Mazen di unirsi a un gruppo sulla lista delle organizzazioni terro­riste sia europea che americana. L’America ha sempre un po’di buon senso, la sua idea dei rapporti internazionali è che la ferocia e la violenza nel mondo metta a rischio il suo universo, come ha dimostrato il terrorismo. Così 27 senatori ameri­cani hanno chiesto a Obama di smettere con i fondi all’Autonomia Palestinese. L’Europa invece subito dopo l’unificazione ha destinato al­l’Autonomia Palestinese 85 milioni di euro su richiesta del primo mini­stro Salam Fayyad per necessità im­mediate. Ma ora da quelle parti c’è Hamas che sa far soldi e usarli per il terrore: ha moltiplicato il portafo­glio per tredici avendo oggi 540 mi­lioni di dollari mentre era a 40 cin­que anni fa. Ha incrementato i suoi dipendenti fino a 40mila persone di cui 21mila armati. Khaled Mashaal per sgombrare il campo da dubbi ha chiamato proprio due giorni fa alla lotta armata tutti i militanti palesti­nesi, ma Ban Ki Moon dall’Onudice che un’unificazione, potere della parole, è sempre cosa buona, e sia Inghilterra che Francia, or ora visita­te da Netanyahu, lasciano in sospe­so la possibilità di riconoscere il fu­turo Stato. Hamas nell’anno che la separano dalle elezioni farà cresce­re il facile consenso di chi vuol di­struggere Israele. Di chi, insomma, vuol distruggere... anche da noi.
www.fiammanirenstein.com  

Il FOGLIO - " Perché Damasco no "


Bashar al Assad

Roma. Lunedì l’editorialista del Washington Post Jackson Diehl ha chiesto a voce alta quello che pensano un po’ tutti: che differenza c’è tra la Libia spaccata a metà dalla guerra contro il colonnello Gheddafi e la Siria dei fratelli Assad che ordinano ai soldati di sparare sui cortei di protesta? Diehl ha gioco facile e pesta sul pedale del tono scandalizzato: “Ogni giorno ci sono uccisioni di massa, in totale sono stati ammazzati almeno 700 siriani, quasi diecimila sono in carcere e di questi alcune centinaia sono scomparsi. La reazione dell’occidente: quattro giorni dopo la prima manifestazione dispersa con le pallottole, Hillary Clinton ha chiamato il dittatore Bashar el Assad ‘un riformista’. Il presidente Obama deve ancora dire ad Assad quello che ha già detto di Gheddafi e di Hosni Mubarak in Egitto: che se ne deve andare”. Il regime di Damasco gioca una partita meno nevrotica e dimostra più sangue freddo, sia con la sua gente sia con il mondo esterno, di quanto abbia fatto Gheddafi, apparso subito in tv a minacciare di stanare quei “ratti” dei ribelli “bayt bayt, shrib shrib, zenga zenga”, “casa per casa, palmo a palmo e vicolo per vicolo”. Il furore istrionico del colonnello ha avuto un ruolo importante nel provocare l’intervento occidentale. Il metodo siriano è differente. E’ fatto di riforme formali annunciate a gran voce – come l’abolizione della Legge d’emergenza – e di mazzate durissime ma discrete contro i manifestanti. E’ fatto anche di un’accorta strategia con i media: giornalisti stranieri cacciati dal paese – tranne il veterano Anthony Shadid del New York Times, appena riammesso da Beirut a Damasco per quello che sembra però un tour guidato –, annunci dolenti da parte del presidente per i morti nelle proteste e soprattutto l’insistenza su una versione dei fatti diabolica, fatta apposta per tenere svegli di notte gli appartenenti alle ricche minoranze cristiane, alawite e borghesi- sunnite: i rivoltosi sono musulmani estremisti e vogliono trasformare il paese in un nuovo Libano anni Ottanta, o peggio in un secondo Iraq. L’equivalente dei proclami bellicosi di Gheddafi è stato fatto ieri, con toni come al solito sussurrati, da Rami Makhlouf, magnate influentissimo e cugino degli Assad, così addentro alla cupola del potere che è più lui il bersaglio degli slogan dei manifestanti che non il presidente e suo fratello il generale Maher. Makhlouf ha detto “lotteremo fino alla fine” e ha citato un proverbio arabo che a un dipresso significa: “Non affonderemo da soli”. Il regime è pronto alla repressione brutale. Eppure, a parte un giro di sanzioni europee che il Diehl furioso definisce “deboli”, l’atteggiamento del regime finora ha spettatori favorevoli, anche se restano in silenzio. Steven Cook scrive sull’Atlantic che a Washington c’è sempre stata parecchia volontà di perdonare gli Assad, per le due grandi speranze mai sopite di portare Siria e Israele al tavolo della pace e di rompere l’asse tra Damasco e Teheran. Ma è soprattutto attorno a sé che il regime siriano trova un’improbabile alleanza – scrive Cook – tra l’Arabia Saudita, che inorridisce davanti alle rivolte arabe, avrebbe voluto che il Cairo fosse stato più duro nella repressione e ormai sostiene la linea “ciascuno reprima come meglio crede, senza interferenze dall’esterno”; Israele, che considerate le cattive notizie che arrivano da sud, dall’Egitto percorso da brividi islamisti, vorrebbe ora evitare cattive notizie da nord; e l’Iran alleato storico. La differenza più grande con Gheddafi è che la Siria minacciata potrebbe innescare un terremoto regionale. Il mondo arabo, che odia il colonnello, non sarebbe indulgente con un intervento su Assad. Figurarsi gli alleati. Hezbollah attaccherebbe Israele con i razzi e l’Iran potrebbe reagire con una controffensiva dolorosa, per esempio colpendo le basi americane in Iraq.

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