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Chi sta affamando davvero Gaza 06/06/2025

Chi sta affamando davvero Gaza
Video di Naftali Bennett a cura di Giorgio Pavoncello

Chi sta affamando Gaza? Gli aiuti alimentari da Israele alla popolazione della Striscia sono aumentati ormai del 40% rispetto al periodo pre-bellico. Eppure continuiamo a vedere scene di persone affamate che si accalcano per accaparrarsi il cibo. La realtà è che Hamas usa gli aiuti alimentari come strumento per assoggettare la popolazione. Un video dell'ex premier Naftali Bennett (tradotto con intelligenza artificiale) pieno di dati e prove, ve lo dimostra.



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La Stampa - Il Foglio - La Repubblica Rassegna Stampa
10.05.2011 Usa-Pakistan: rapporti tesi dopo la morte di Osama bin Laden
Cronaca di Maurizio Molinari. Analisi di Mattia Ferraresi. Interviste a Paul Wolfowitz e Barack Obama di James Taranto, Steve Kroft

Testata:La Stampa - Il Foglio - La Repubblica
Autore: Maurizio Molinari - Mattia Ferraresi - Steve Kroft - James Taranto
Titolo: «Pakistan, sgambetto dei servizi alla Cia - Nell’abbuffata delle idee Chomsky scagiona Osama e difende il Pakistan - La sfida di Obama: ora fermiamo al Qaeda in maniera definitiva»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 10/05/2011, a pag. 21, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Pakistan, sgambetto dei servizi alla Cia ". Dal FOGLIO, a pag. III, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Nell’abbuffata delle idee Chomsky scagiona Osama e difende il Pakistan ", l'intervista di James Taranto a Paul Wolfowitz dal titolo "Il raid e le virtù del coraggio". Da REPUBBLICA, a pag. 12, l'intervista di Steve Kroft a Barack Obama dal titolo " La sfida di Obama: ora fermiamo al Qaeda in maniera definitiva ".
Ecco i pezzi:

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Pakistan, sgambetto dei servizi alla Cia "


Maurizio Molinari

Il Pakistan reagisce al blitz dei Navy Seals ad Abbottabad vendicandosi nei confronti del capo della Cia a Islamabad nello stesso giorno in cui il premier Yousuf Raza Gilani ammonisce Washington a non tentare nuove azioni unilaterali «perché siamo pronti a contrastarle con il massiccio uso della forza».

L’eliminazione di Osama bin Laden nella villa di Abbottabad da parte delle truppe speciali americane ha messo i servizi segreti pakistani (Isi) sul banco degli accusati, a causa delle protezioni di cui il leader di Al Qaeda avrebbe goduto negli ultimi anni, e la loro contromossa è arrivata ieri mattina con la pubblicazione da parte di alcuni media di Islamabad del nome del capostazione della Cia. La prima a svelarlo è stata la tv privata Ary e poi è stato il quotidiano The tion a riprenderlo. Trattandosi di un’identità protetta dal più stretto riserbo la fuga di notizie chiama in causa l’Isi. È la seconda volta in meno di sei mesi che tale episodio si ripete e già in precedenza aveva obbligato la Cia a ritirare il capo delle proprie operazioni. Adesso anche il nuovo capostazione della Cia in Pakistan sembra destinato a dover abbandonare il Paese - se già non lo ha fatto - complicando ulteriormente le relazioni con l’Agenzia di Langley che negli ultimi sette giorni è stata la più esplicita nel chiedere a Islamabad di «fare chiarezza sul network che ha protetto Osama Bin Laden per almeno cinque anni».

A confermare la scelta del Pakistan di ribattere ad accuse e sospetti di connivenza con Al Qaeda è arrivato il discorso del premier Yusuf Raza Gilani, pronunciato di fronte al Parlamento: «Nessuno può imputare in buona fede al Pakistan, alle nostre istituzioni, inclusi l’Isi e le forze armate, di essere in qualsiasi maniera complici di Al Qaeda. L’eliminazione di Osama bin Laden, che ha lanciato ondate di attacchi terroristici contro pakistani innocenti, è stata un atto di giustizia, ma non può essere imputato a noi un fallimento nella sua individuazione». Poche ore prima il presidente Barack Obama, nell’intervista a 60 Minutes della tv Cbs, aveva chiesto al Pakistan di «indagare sul network che ha protetto Bin Laden» e Washington sta premendo da giorni su Islamabad per poter interrogare le mogli di Bin Laden che si trovavano nella villa di Abbottabad.

Gilani ha replicato con un veloce «indagheremo e informeremo il Parlamento in maggio» dedicando invece più tempo e maggiore enfasi alla scelta di recapitare all’alleato un inequivocabile monito: «L’America non deve tentare di ripetere in futuro questo tipo di azioni unilaterali perché potrebbero avere conseguenze molto serie», a cominciare dal fatto che «ci riserviamo il diritto di rispondere con il massimo della forza» a nuove violazioni della sovranità territoriale. «Nessuno deve sottovalutare la determinazione e le potenzialità che le nostre forze armate hanno di difendere la nostra sacra nazione», ha aggiunto Gilani, sottolineando che gli F-16 pakistani «hanno sorvolato Abbottabad» poco dopo il ritiro dei Navy Seals. In concreto ciò significa che l’Isi impedisce alla Cia di tentare di catturare o eliminare «unilateralmente» altri leader di Al Qaeda che dovessero trovarsi sul suo territorio. Ma poche ore dopo il Guardian ha svelato che vi sarebbe dal 2001 un accodo segreto fra i due alleati sulla base del quale gli Stati Uniti sono autorizzati a lanciare blitz contro i leader di Al Qaeda in Pakistan.

La Cia è anche impegnata a monitorare le cellule di Al Qaeda in attesa della designazione del successore di Bin Laden e un segnale al riguardo è arrivato da Baghdad dove l’organizzazione Stato islamico in Iraq si è detta in favore della designazione di Ayman al Zawahiri, ex leader della Jihad islamica egiziana e dal 1998 vice di Bin Laden. In una dichiarazione diffusa online la ramificazione irachena di Al Qaeda definisce Barack Obama «un topo nella Casa Nera», promette che «il martirio dello sceicco aumenterà la determinazione dei mujaheddin e auspica la successione di al Zawahiri affinché «Allah possa ricompensarti per la perdita avuta».

Da Teheran intanto si fa sentire il ministro dell’Intelligence iraniana Heydar Moslehi affermando che «secondo le informazioni in nostro possesso Bin Laden è morto prima» del blitz, sarebbe questo il motivo per cui «gli apparati di intelligence americani non hanno mostrato le foto del cadavere e hanno detto di averlo gettato in mare». La risposta di Washington è arrivata dal ministro della Giustizia Eric Holder: «Teheran si sbaglia, posso assicurare che Bin Laden è stato ucciso la scorsa settimana».

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Nell’abbuffata delle idee Chomsky scagiona Osama e difende il Pakistan "


Mattia Ferraresi

New York. Dopo un fine settimana di accuse di complicità nemmeno troppo velate, il Pakistan si è difeso. Ieri il premier, Yousuf Raza Gilani, ha parlato al Parlamento di Islamabad, definendo “assurde” “le accuse di complicità o incompetenza” lanciate in forma criptata anche dal presidente americano, Barack Obama. Gilani ha riaffermato la sovranità pachistana e condannato le ingerenze unilaterali degli americani; facendolo ha trovato un ciarliero alleato che solo nel fine settimana ha fatto sapere la sua opinione sulle note vicende di Abbottabad, Noam Chomsky. Alle grandi abbuffate delle opinioni di solito si presenta per ultimo, probabilmente perché arriva avendo già bevuto. Il linguista preferito dalle università liberal e dai dittatori sudamericani ha onorato la regola anche per il banchetto dedicato all’uccisione di Osama bin Laden, che più di altri richiedeva tempo per partorire spunti contromano e fruibili senza risultare completamente fuori controllo. Non è chiaro se il breve articolo comparso sulla rivista di lotta Guernica risponda effettivamente a qualcuno di questi requisiti. Chomsky attacca con il classico dell’azione illegale perpetrata dal regime terrorista degli Stati Uniti. Quello contro Bin Laden è “un assassinio premeditato che viola le norme internazionali. Non ci sono stati tentativi di catturare un obiettivo disarmato, come invece avrebbe potuto facilmente fare un commando di ottanta uomini senza nessuna opposizione tranne la moglie di Bin Laden. Nelle società che professano un qualche rispetto per la legge, i sospettati vengono arrestati e sottoposti a un giusto processo”. Fin qui il titanico filosofo engagé e cospirazionista lascia andare avanti la sua controfigura legalista con la bandiera della Convenzione di Ginevra. Il vero ego chomskiano, però, non ama farsi attendere. “Sottolineo la parola ‘sospettato’”, scrive il filosofo a proposito di Bin Laden. “Nell’aprile del 2002 il capo dell’Fbi, Robert Mueller, ha informato la stampa che dopo la più approfondita inchiesta della storia, l’Fbi non poteva esprimere più di una ‘convinzione’ sul fatto che il piano fosse stato fatto in Afghanistan e completato negli Emirati arabi e in Germania. Quello che il governo semplicemente credeva nel 2002 non lo sapeva affatto otto mesi prima, quando Washington ha rifiutato l’offerta dei talebani di estradare Bin Laden se il governo americano avesse presentato elementi della sua colpevolezza; elementi che il governo non aveva. Obama ha mentito quando ha detto che ‘abbiamo scoperto in fretta che gli attacchi dell’11 settembre sono stati realizzati da al Qaida’”. Ecco l’ingresso del Chomsky negazionista, quello che diceva che i massacri dei Khmer rossi in Cambogia erano un’invenzione dei media americani, che poi sono così “obbedienti” al governo che “ogni dittatore sarebbe contento di averli al suo servizio”, quindi per proprietà transitiva i massacri in Cambogia li ha ordinati la Casa Bianca. E le confessioni di Bin Laden? False, è solo salito sul carro dei vincitori. Se dunque non ci sono prove serie circa il legame fra Bin Laden e l’11 settembre, cosa rimane? Che il Pakistan è la vera nazione danneggiata dal raid: è stata invasa senza essere un nemico e ora la sua credibilità è distrutta. “Dobbiamo chiederci come avremmo reagito se un commando iracheno fosse atterrato nel compound di George W. Bush, l’avesse assassinato e avesse gettato il suo cadavere nell’Atlantico”, scrive il filosofo mettendosi in enorme difficoltà. La sua stessa risposta sarebbe imbarazzante se si dà credito alla tesi che sostiene sette righe più in basso: la dottrina Bush è la vera colpevole dell’animosità dei terroristi, che sono stati provocati e hanno buone ragioni per reagire. Un banchetto breve, quello di Chomsky, ma con molte portate. Per dessert viene servito il piatto più amato, quello linguistico, a proposito del nome in codice Geronimo: “Stanno glorificando Bin Laden identificandolo con un coraggioso combattente contro un invasore. E’ come dare alle nostre armi di morte i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Tomahawk… E’ come se la Luftwaffe avesse chiamato i suoi aerei ‘ebreo’ o ‘zingaro’”, ha scritto Chomsky prima di rimettersi al lavoro su un’apologia della democrazia venezuelana.

La REPUBBLICA - Steve Kroft : " La sfida di Obama: ora fermiamo al Qaeda in maniera definitiva "


Barack Obama

Signor presidente, quando la Cia le ha trasmesso per la prima volta queste informazioni, qual è stata la sua reazione?
«Poco dopo il mio insediamento alla Casa Bianca ho convocato il direttore della Cia, Leon Panetta, nello Studio Ovale e gli ho detto: "Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per trovare Bin Laden". La Cia ha fatto un lavoro incredibile per un anno e mezzo per identificare un corriere, per seguirlo fino a quella struttura. Ma non avevamo una foto di Bin Laden all´interno dell´edificio. Non c´era nessuna prova diretta della sua presenza, perciò la Cia ha continuato le indagini con meticolosità. Quando sono venuti da me per la prima volta a illustrarmi la situazione gli ho detto: "Continuate a studiare meglio la questione, ma nel frattempo cominciamo anche a elaborare un piano d´azione"».
In che momento è stato messo in moto il piano?
«Sono venuti per la prima volta da me con le informazioni sull´edificio nell´agosto dello scorso anno. La pianificazione vera e propria è cominciata solo all´inizio di quest´anno».
Lei è stato coinvolto attivamente nel processo e in che misura?
«Abbiamo avuto molte riunioni per mettere a punto il piano: avevamo un modellino dell´edificio e discutevamo dei vari modi per effettuare l´operazione».
È rimasto sorpreso quando le hanno parlato di questa struttura? Nel mezzo del cuore militare del Pakistan...
«Direi che siamo rimasti sorpresi quando abbiamo scoperto che questo edificio era lì da 5 o 6 anni. Perciò sì, la risposta è che ci siamo stupiti che fosse riuscito a tenere in piedi un fortino del genere senza che le forze di sicurezza ne venissero a sapere qualcosa».
Qual è stata la parte più difficile della decisione?
«Mandare delle persone a rischiare la vita. Ci sono tantissime cose che possono andare storte. Perciò la mia preoccupazione principale era: se mando laggiù questi ragazzi e succede qualcosa, siamo in grado di riportarli via? Questo è il primo punto. Il secondo punto è che devono entrare nell´edificio nel buio della notte. E non sanno che cosa troveranno lì dentro, se l´edificio ha dei sistemi di difesa. Non sanno, per dire, se quando apriranno una certa porta scatterà una trappola esplosiva. I rischi erano enormi. Perciò la mia prima preoccupazione era: se li mando laggiù, sono in grado di tirarli fuori? Anche se i nostri servizi di intelligence avevano fatto un lavoro straordinario, in fin dei conti la situazione era ancora 55 a 45. Non eravamo in grado di dire con certezza che lì dentro c´era Bin Laden. Se non lo avessimo trovato lì dentro, ci sarebbero state conseguenze serie. Stavamo entrando nel territorio sovrano di un altro Paese».
Alcuni dei suoi collaboratori più stretti erano reticenti...
«Guardi, una delle cose che abbiamo fatto con la mia Amministrazione è stato costruire una squadra dove ognuno dice apertamente quello che pensa. Quindi il fatto che qualcuno abbia espresso i propri dubbi è stato importantissimo, perché ha consentito di affinare il piano, perché mi ha messo nelle condizioni, quando alla fine ho preso una decisione, di farlo sulla base delle migliori informazioni possibili».
Quanto hanno pesato nella decisione certe missioni fallite in passato, come il tentato blitz per liberare gli ostaggi in Iran?
«Tantissimo. Pensi a Black Hawk Down [l´elicottero americano abbattuto dai ribelli in Somalia nel 1993 ndr.]. Pensi a quello che successe con la missione in Iran. Mi sento molto vicino alla situazione con cui si sono dovuti misurare altri presidenti quando si è trattato di prendere una decisione: si cerca di prendere la decisione migliore considerate le circostanze, e poi qualcosa va storto. Quindi sì, assolutamente. Il giorno prima non facevo che pensare a quelle missioni».
Ha dovuto reprimere il desiderio di raccontarlo a qualcuno? A Michelle?
«Uno dei grandi successi di questa operazione è il fatto di essere riusciti a tenerla segreta. Questa è la dimostrazione che tutti avevano preso estremamente sul serio questa operazione, e avevano la consapevolezza che qualunque fuga di notizie avrebbe rischiato non soltanto di compromettere la missione, ma di provocare la morte di alcuni dei ragazzi che stavamo mandando laggiù. Pochissime persone alla Casa Bianca lo sapevano. Quasi tutti i miei più stretti collaboratori non lo sapevano».
Andiamo alla Situation room. Com´era l´atmosfera?
«Tesa».
Parlavate?
«Sì, ma moltissimo tempo lo passavamo anche ad ascoltare la situazione in tempo reale. Ricevevamo dei rapporti da parte di Bill McRaven, il capo delle nostre forze speciali e da Leon Panetta. E ci sono stati lunghi momenti in cui non facevamo altro che aspettare. Sono stati i 40 minuti più lunghi della mia vita, tranne forse quando Sasha si ammalò di meningite, a tre mesi, e aspettavo che il dottore mi dicesse che stava bene».
Sentivate il rumore degli spari?
«Capivamo quando c´erano spari o esplosioni».
Vedevate i lampi?
«Sì. Ed eravamo informati anche che uno degli elicotteri era sceso giù in un modo che non rientrava nei piani»
Quindi l´operazione era partita male?
«Diciamo che le cose non sono andate esattamente secondo i piani, ma è stato proprio qui che tutto il lavoro che era stato fatto per prevedere cosa potesse andare storto ha dato i suoi frutti».
C´era un piano di riserva?
«Sì».
Quando avete avuto il primo indizio che lì dentro c´era Bin Laden?
«C´è stato un momento in cui hanno detto che Geronimo era stato ucciso. E Geronimo era il nome in codice per Bin Laden. È chiaro che in quel momento tutti erano cauti. Ma a quel punto eravamo prudentemente ottimisti».
Quando ha cominciato a sentirsi sicuro?
«Quando sono atterrati ormai avevamo prove molto attendibili che si trattava di lui. Gli avevano scattato delle foto. L´analisi dei tratti del volto indicava che era effettivamente lui. Non avevamo ancora fatto il test del DNA, ma ormai eravamo sicuri al 95%».
Ha visto le foto?
«Sì».
Qual è stata la sua reazione?
«Era lui».
Perché non le avete rese pubbliche?
«Abbiamo discusso la questione. Tenga conto che siamo assolutamente certi che si tratta di lui. Abbiamo fatto un prelievo di DNA e poi il test. Non c´è il minimo dubbio. È importante per noi evitare che circolino delle foto, molto esplicite, di una persona che è stata uccisa con una pallottola in testa, perché non vogliamo che suscitino ulteriori violenze. Non vogliamo che siano usate come strumento di propaganda. Noi non siamo quel tipo di persone. Non esibiamo roba del genere come se fosse un trofeo. Quest´uomo meritava la sorte che ha ricevuto. E credo che gli americani e la gente di ogni parte del mondo siano felice che non ci sia più. Mostrare queste foto così esplicite avrebbe creato dei rischi per la sicurezza nazionale. Ho discusso della faccenda con Bob Gates, con Hillary Clinton e con i servizi di intelligence e tutti erano d´accordo».
C´è gente, ad esempio in Pakistan, che dice che «è tutta una bugia. È un altro trucco degli americani. Osama non è morto».
«È morto senza ombra di dubbio. I membri di Al Qaeda sanno benissimo che è morto. Perciò non pensiamo che una fotografia possa fare la differenza».
Ha preso lei la decisione di farlo seppellire in mare?
«È stata una decisione congiunta. Abbiamo pensato che fosse importante decidere in anticipo dove avremmo seppellito il corpo se fosse stato ucciso e abbiamo cercato, consultando esperti di diritto e rituali islamici, di trovare un metodo che fosse rispettoso della salma. Parlando con franchezza ci siamo preoccupati della faccenda molto più di quanto se ne sia preoccupato lui quando ha ucciso 3.000 persone. Ma anche questa è una delle cose che ci rende diversi da lui».
Che cosa ha fatto una volta conclusa la missione?
«Ho detto: "L´abbiamo preso". Ma voglio sottolineare che non è stato solo merito nostro. Il presidente Bush dal 2001 ha messo in atto grandissimi sforzi per raggiungere questo risultato. Per me quindi è stato un momento di grande orgoglio vedere che la nostra nazione è stata capace di eseguire tanto bene un compito tanto difficile. Il giorno dopo l´operazione ho ricevuto una lettera, l´e-mail di un´adolescente che aveva parlato con suo padre quando aveva 4 anni, prima che le torri crollassero, e suo padre era dentro le torri. E questa ragazza ha raccontato com´era stato diventare grande negli ultimi 10 anni avendo sempre quell´immagine di suo padre. Ed è a questo che ho pensato».
Domenica ha detto: "Le nostre forze anti-terrorismo in Pakistan hanno contribuito a portarci da Bin Laden". Può essere più specifico?
«Non posso dire tutto perché ci saranno altri terroristi a cui dare la caccia in futuro. Quello che posso dire è che il Pakistan, dopo l´11 settembre, ha collaborato a strettissimo contatto con noi nella lotta al terrorismo. Ci sono state occasioni in cui non ci siamo trovati d´accordo. Ma abbiamo ucciso più terroristi in territorio pachistano che in qualsiasi altro posto, e non avremmo potuto farlo senza la collaborazione dei pachistani».
Non avete informato nessuno all´interno del governo o delle forze armate del Pakistan?
«No».
Neanche all´interno dei loro servizi segreti?
«No».
Non vi fidavate?
«Se non rivelo nemmeno ad alcuni dei miei più stretti collaboratori che cosa stiamo facendo, non vado certo a dirlo a persone che non conosco.»
Secondo lei qualcuno, all´interno del governo o dei servizi segreti del Pakistan sapeva che Bin Laden viveva lì?
«Pensiamo che ci fosse una sorta di rete di supporto all´interno del Pakistan. Ma non sappiamo chi ne facesse parte o in cosa consistesse. Dovrà indagare il governo del Pakistan. Li abbiamo già informati e hanno detto che hanno tutto l´interesse a scoprire che genere di supporto può aver ricevuto Bin Laden».
Ha qualche informazione su quello che è stato rinvenuto nell´edificio?
«Stiamo analizzando e valutando con la massima attenzione tutto quello che abbiamo. Ma possiamo anticipare che è materiale che può fornirci indizi su altri terroristi. Ma ci può anche aiutare a capire meglio i piani esistenti, i loro metodi operativi e i loro metodi di comunicazione. Ora abbiamo l´opportunità di sconfiggere davvero una volta per tutte Al Qaeda, almeno nella regione di confine tra Pakistan e Afghanistan. Questo non significa che sconfiggeremo il terrorismo».
Bin Laden era un uomo unico: ha gettato ombra sulla Casa Bianca per quasi un decennio.
«È vero. Sono stato molto nervoso per tutta questa faccenda, ma l´unica cosa che non mi ha fatto perdere il sonno era la possibilità che Bin Laden rimanesse ucciso. Giustizia è stata fatta. E credo che chiunque sostenga che l´autore dell´omicidio di 3.000 persone sul suolo americano non meritasse di fare la fine che ha fatto dovrebbe farsi visitare».

Il FOGLIO -  James Taranto - " Il raid e le virtù del coraggio "


Paul Wolfowitz

Una mattina, quando era ancora vicesegretario alla Difesa, Paul Wolfowitz fece colazione al Pentagono con alcuni membri del Congresso. Il suo capo, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, come ricorda lo stesso Wolfowitz, “stava parlando di quanto fosse difficile prevedere il futuro e del pericolo di essere colti di sorpresa. Poi disse: ‘Sapete, la storia ci insegna che ogni volta che pensiamo che la minaccia si sia dissolta, capita qualcosa che ci prende alla sprovvista’”. Il successivo incontro di Wolfowitz fu interrotto dalla notizia che un aeroplano si era schiantato contro il World Trade Center. Poco dopo fu evacuato il Pentagono, anch’esso colpito da un aereo dirottato. Negli ultimi mesi ci sono state parecchie sorprese, soprattutto per le dimostrazioni pro democrazia che hanno riempito le piazze di tutto il mondo arabo. Poi, questa settimana, il presidente Barack Obama ha annunciato che il leader di al Qaida era morto. “La cosa più sorprendente è che, già prima della sua uccisione, Osama bin Laden era sembrato una figura quasi del tutto irrilevante per la primavera araba”, risponde Wolfowitz alla mia domanda sul significato della quasi perfetta coincidenza tra i due eventi. “Non conosco un solo caso in cui questi combattenti per la libertà araba abbiano sbandierato striscioni con l’immagine di Bin Laden. Conosco invece parecchi casi in cui hanno mostrato bandiere americane (a Bengasi) o si sono dipinti sulla fronte la scritta Facebook (al Cairo). L’idea della libertà sta in assoluta contraddizione con tutto ciò che simboleggiava Bin Laden, cioè il desiderio di riportare i musulmani a una specie di teocrazia medievale e di incoraggiare il popolo non a morire per la libertà ma a uccidere persone innocenti per guadagnarsi il paradiso. E’ una contrapposizione davvero radicale”. La primavera araba è motivo di grande soddisfazione per Wolfowitz, il cui appoggio alla promozione della democrazia come “punto strategico fondamentale” lo ha reso quasi un demone agli occhi della sinistra pacifista. Particolarmente indicativo è stato un discorso pronunciato da uno sconosciuto legislatore del mid-west nell’ottobre del 2002, quando il Congresso doveva discutere l’opportunità di un intervento militare in Iraq: “Mi oppongo al cinico tentativo con cui Paul Wolfowitz e altri guerrieri da tavolino di questa Amministrazione cercano di farci ingoiare la loro agenda ideologica, senza tener minimamente conto dei costi in vite umane e dei sacrifici da sostenere”. Era un discorso dai toni tipici, ma niente affatto tipica era la persona che lo pronunciò. Si trattava di Barack Obama, che nel 2004 ha lasciato il Senato dell’Illinois e ora siede nell’Ufficio Ovale. Questa settimana, quando ho incontrato Wolfowitz, ci siamo seduti nella sala conferenze dell’American Enterprise Institute, il think tank nel quale è entrato dopo un breve periodo come presidente della Banca mondiale. Wolfowitz è oggi critico nei confronti dell’Amministrazione in carica – anche se, a sessantasette anni e con decenni di esperienza in politica estera, appare certamente un uomo ben più esperto di quanto lo fosse il quarantunenne Obama al tempo in cui pronunciò quel discorso. Wolfowitz ci dice che il nuovo sentimento pro democratico che aleggia in medio oriente ha colto di sorpresa Obama già nel giugno del 2009. Cioè quando Obama parlò al Cairo, pronunciando un discorso che l’Amministrazione americana definì come il segno di un “nuovo inizio” nelle relazioni degli Stati Uniti con il mondo musulmano. La trascrizione ufficiale di questo discorso mostra che il presidente fu interrotto dagli applausi quando disse: “Il quarto tema che voglio affrontare è quello della democrazia”. Wolfowitz osserva che Obama ebbe un momento di titubanza quando pronunciò la seguente frase: “So che negli ultimi anni ci sono state parecchie controversie sul concetto di esportazione della democrazia”. Wolfowitz prova a immaginare quello che deve aver pensato il presidente: “Avrà pensato: ‘Qui c’è qualcosa che non va. Sto per dire che si tratta di un concetto controverso, ma vengo investito dagli applausi non appena pronuncio la parola democrazia’. Il che significa che la gente sa distinguere tra l’idea di democrazia e libertà e l’idea degli Stati Uniti”. Il presidente poi citò la guerra in Iraq e dichiarò: “Una nazione non può e non deve imporre a un’altra alcun sistema di governo”. Per Wolfowitz questa è soltanto una pretestuosa giustificazione: “Non siamo andati a far la guerra in Afghanistan o in Iraq per ‘imporre la democrazia’. Ci siamo andati perché consideravamo i regimi di questi paesi una minaccia per gli Stati Uniti”. Ma dopo il loro rovesciamento, che altro potevamo fare? “Nessuno intende sostenere che avremmo dovuto imporre in Afghanistan e in Iraq una dittatura subito dopo averli liberati”. Obama aveva preso un abbaglio anche nel 2002, quando aveva definito Wolfowitz un ideologo. In realtà, le sue opinioni sulla democrazia sono il frutto dell’esperienza e non di una teorizzazione astratta. Nei suoi primi anni di lavoro al governo, negli anni Settanta, si occupò “quasi interamente di questioni di sicurezza” presso l’Arms Control and Disarmament Agency. “Avevo un’opinione estremamente cauta sul regime change”, aggiunge, notando che nel 1979 dittature filoamericane erano state rovesciate sia in Iran sia in Nicaragua, lasciando il posto a regimi ancora più feroci. In tutto il mondo, sostiene Wolfowitz, la democrazia è rimasta sotto “costante minaccia” fin dalla fine della Seconda guerra mondiale. “Se si osservava il mondo nel 1981, si poteva dire che le istituzioni democratiche erano un lusso goduto soltanto dalle nazioni più sviluppate, vale a dire i paesi anglosassoni più l’Europa occidentale e il Giappone”. Le cose cominciarono a cambiare quando Ronald Reagan fu eletto alla Casa Bianca. Wolfowitz entrò nel dipartimento di stato e contribuì attivamente a preparare la transizione democratica in Corea del sud e nelle Filippine. Gli anni Ottanta e Novanta furono caratterizzati da significativi progressi democratici in varie regioni dell’Asia orientale, nonché in America latina, in Europa orientale e in alcuni paesi dell’Africa subsahariana. Alla fine del Ventesimo secolo il medio oriente arabo era ormai diventato una specie di pariah: la regione meno democratica del mondo. Se alla fine anche qui la situazione sta davvero per cambiare, Wolfowitz è convinto che lo si debba al fatto che gli arabi sono stati ispirati dai progressi compiuti in altre parti del mondo, “dal vedere così tanti altri popoli conquistare la libertà”. Ma la primavera araba è scoppiata grazie all’esperienza irachena o suo malgrado? La risposta di Wolfowitz appare esitante: “E’ una questione interessante, e si dovrebbe probabilmente ammettere che appartiene alla sfera dell’inconoscibile”. Messo sotto pressione per una risposta più precisa, Wolfowitz dichiara, soppesando le proprie parole: “Penso che sarebbe difficile sostenere che l’Iraq, dove tutto è andato così per le lunghe e con grande violenza e l’esito finale rimane ancora incerto, abbia ispirato la gente”. Ma aggiunge subito dopo che, se Saddam Hussein fosse ancora al potere, “l’ultima cosa che desidererebbe vedere è lo scoppio di rivoluzioni democratiche”. Dato che Saddam avrebbe “attivamente sostenuto” i suoi colleghi dittatori, “con ogni probabilità oggi non staremmo assistendo a questi eventi rivoluzionari. Il rovesciamento di Saddam ha tolto un pesante macigno dalle spalle del mondo arabo”. Wolfowitz riconosce invece una fonte d’ispirazione nella Tunisia, dove è cominciata la primavera araba. “Se c’è nel mondo arabo un paese che vive in una condizione analoga a quella in cui si trovava un tempo la Corea del sud, vale a dire un paese con una classe media sufficientemente ampia e istituzioni sufficientemente sviluppate per essere in grado di gestire la transizione alla democrazia, questo è senza dubbio la Tunisia, quasi certamente il paese pià avanzato di tutto il mondo arabo. Per le sue potenzialità in questo senso, la Tunisia è molto più avanti dell’Iraq”. Wolfowitz ha parole critiche nei confronti dell’Amministrazione Obama per come ha reagito all’ondata democratica in medio oriente. “Sull’Iran è stata semplicemente terribile. Per me l’analogia è con il 1981, quando in Polonia fu dichiarata la legge marziale: Reagan la considerò un’opportunità per aprire una breccia nel muro e, assieme al Papa, si impegnò a fondo per realizzare questo obiettvo. Nel giugno del 2009 in Iran ci è stata offerta un’analoga opportunità”, quando le ennesime elezioni truccate scatenarono grandi proteste di massa. “E che cosa abbiamo fatto? Siamo rimasti seduti sulle nostre sedie. Perché?”. Perché l’Amministrazione Obama “si crogiolava nella speranza di poter negoziare con il regime, e perciò non voleva irritarlo in alcun modo – il che, detto per inciso, non è neppure un modo intelligente di intavolare un negoziato, in quanto fa suppore un tale bisogno di negoziare che la controparte capisce di averti nelle sue mani”. “In Egitto – continua Wolfowitz – ci siamo mostrati del tutto goffi e impacciati. Voglio dire, la nostra posizione è stata regolarmente espressa con almeno tre giorni di ritardo rispetto a ciò che stava effettivamente accadendo”. Quanto alla Siria, “non siamo stati capaci, né durante l’Amministrazione Bush né durante quella di Obama, di comprendere quanto Bashar el Assad sia profondamente ostile a tutto ciò che intendiamo realizzare nella regione. Neppure quando lo stesso Assad ha appoggiato i combattenti stranieri che uccidevano i soldati americani in Iraq. Ora si è chiaramente rivelato come un nemico del suo stesso popolo. Alla fine dei conti, i simboli contano, e il fatto di tenere un ambasciatore americano a Damasco ha un grave significato simbolico. Avremmo dovuto ritirarlo già da molto tempo”. C’è poi la Libia, dove l’Amministrazione Obama è intervenuta militarmente, con il desiderio, se non proprio l’esplicita missione, di rovesciare un dittatore. “Penso che abbiamo fatto bene a intervenire militarmente”, dichiara Wolfowitz, che tuttavia critica le modalità di questo intervento. A suo giudizio, si sarebbe dovuto fornire ai ribelli armi, addestramento e riconoscimento diplomatico, e aiutarli nel settore delle comunicazioni, magari bloccando le trasmissioni della televisione di stato libica. Invece, “abbiamo lasciato a Muammar Gheddafi la possibilità di riprendere l’iniziativa per almeno tre o quattro volte da quando è cominciata l’operazione; e questa è una guerra in cui conta soprattutto lo slancio e l’iniziativa. Se la si perde, ci si ritrova impantanati in una situazione di stallo, che costituisce terreno fertile per i peggiori elementi del mondo arabo. Si rischia di ripetere quello che abbiamo fatto in Bosnia, dove avevamo imposto a entrambe le parti un embargo sulle armi, ma non facevamo che dare maggior forza agli aggressori. L’attuale Amministrazione non sembra riconoscere l’urgenza del problema”. Tutto ciò, sommato insieme, conduce Wolfowitz a una critica decisa e complessiva della strategia “leading from behind” (“guidare da dietro le quinte”), come un anonimo consigliere presidenziale ha brillantemente definito l’approccio dell’Amministrazione Obama sulla politica estera in un’intervista rilasciata al New Yorker. “Penso che quello di cui abbiamo bisogno per affrontare i problemi posti dall’Iran, la Siria, la Libia e persino da paesi nostri alleati, come l’Egitto, sia proprio renderci conto che dovremmo guidare la politica estera stando maggiormente sul palcoscenico e non dietro le quinte”. “Ora che il vento della libertà si è messo a soffiare sul mondo arabo, e la gente è pronta a sacrificare la propria vita non per attentati suicidi contro persone innocenti ma per salvare altre vite e conquistare la libertà, credo gli Stati Uniti dovrebbero, per prima cosa, dire chiaramente da che parte stanno. Tutto può ancora andare a finire nel peggiore dei modi, ma questo mi sembra un motivo valido per impegnarci più a fondo, mettendoci a cercare persone realmente desiderose che tutto finisca invece nel migliore dei modi, e appoggiandole apertamente, anziché tirarci indietro”. Wolfowitz stempera le sue critiche e conclude con una nota conciliante: “C’è una curva d’apprendimento, e credo che l’Amministrazione la stia risalendo”. Esprime entusiasmo per il “fegato” mostrato dal presidente quando ha deciso di mandare una squadra di soldati per eliminare personalmente Osama bin Laden, anziché lanciargli addosso un missile. “Obama ha preso la più coraggiosa e difficile decisione della sua presidenza. Non era una decisione semplice. Se l’operazione fosse fallita, avrebbe dovuto assumersene la responsabilità. Ma, per fortuna, la missione ha avuto successo. Spero che questo lo abbia convinto, almeno in parte, delle ‘virtues of boldness’”, le virtù della fermezza, della sfrontatezza, del coraggio.

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