Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Osama bin Laden morto: al Qaeda minaccia attentati in Occidente Cronache e analisi di Dimitri Buffa, Maurizio Molinari, Andrea Malaguti, Guido Olimpio, Redazione del Foglio
Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - La Stampa - L'Opinione Autore: Redazione del Foglio - Guido Olimpio - Maurizio Molinari - Dimitri Buffa - Andrea Malaguti Titolo: «Un messaggio per i seguaci rimasti senza la Guida - Obama, onore ai Navy Seals: Sconfiggeremo Al Qaeda - Il problema palestinese dopo la morte di bin Laden - Facciamo il funerale per Osama»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 07/05/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Quella casa della Cia ad Abbottabad per tenere d’occhio il vicino Osama". Dalla STAMPA, a pag. 7, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama, onore ai Navy Seals: Sconfiggeremo Al Qaeda ", a pag. 10, l'articolo di Andrea Malaguti dal titolo " Facciamo il funerale per Osama ". Dall'OPINIONE, l'articolo di Dimitri Buffa dal titolo " Il problema palestinese dopo la morte di bin Laden ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Un messaggio per i seguaci rimasti senza la Guida ". Ecco gli articoli:
Il FOGLIO - " Quella casa della Cia ad Abbottabad per tenere d’occhio il vicino Osama "
La villa di Osama bin Laden ad Abbottabad
New York. Oltre alla sua, c’era una seconda casa particolare ad Abbottabad. Una casa meno appariscente della fortezza di Osama bin Laden costruita dal nulla nel 2005, occupata da agenti della Cia inviati in Pakistan nel fatidico agosto del 2010, quando l’intelligence americana ha individuato, attraverso il corriere Abu Ahmed al Kuwaiti, la casa dove probabilmente si nascondeva Bin Laden. Il motivo per cui Bin Laden si trovava lì è lo stesso per cui anche gli uomini di Leon Panetta hanno potuto ottenere il loro avamposto in città: Abbottabad non è una roccaforte del terrorismo. Non ha nulla a che vedere con il brulichio fondamentalista di Quetta, Peshawar o Karachi, città in cui l’intelligence americana avrebbe avuto più difficoltà a insediarsi e raccogliere informazioni per mesi senza essere vista dagli occhi di al Qaida o da quelli delle forze di sicurezza del Pakistan. L’ambiente relativamente tranquillo di Abbottabad – luogo di residenza dei veterani, ma anche città dove i soldati americani addestravano l’esercito di Islamabad – consentiva agli abitanti di entrambe le case di poter svolgere le proprie mansioni con un certo grado di copertura. Bin Laden sapeva che l’occhio della Cia guardava altrove; la Cia sapeva che lo stesso faceva l’occhio pachistano. “Questo era il tallone di Achille di Bin Laden – ha spiegato un ex agente dela Cia – perché chiunque poteva andare ad Abbottabad”. Il Washington Post ha raccontato per primo l’imponente sforzo d’intelligence compiuto dagli americani a pochi passi dalle mura che nascondevano lo sceicco di Riad, una delle operazioni più segrete organizzate dalla Cia negli ultimi decenni. Nei mesi di spionaggio gli agenti hanno usato tutti i mezzi a disposizione del governo per carpire informazioni. I satelliti dall’alto scandagliavano il compound alla ricerca di possibili cunicoli preparati per la fuga, mentre dalla loro casa con i vetri schermati gli agenti scattavano foto con macchine di precisione e cercavano di raccogliere registrazioni a distanza degli abitanti della casa. I tre piani della casa di Bin Laden potevano essere osservati da diverse angolazioni e con relativa facilità l’intelligence è riuscita a ricostruire una planimetria abbastanza dettagliata da ridurre i margini di errore una volta cominciata l’azione. L’operazione era così sofisticata e costosa che il direttore della Cia ha dovuto chiedere un ulteriore finanziamento al Congresso, roba da decine di milioni di dollari. Nessuno degli agenti è mai riuscito a fotografare direttamente il circospetto Bin Laden, ma le informazioni ambientali raccolte finivano al comando di Langley e da lì ritrasmesse alla base militare di Bagram, in Afghanistan, dove i Navy Seal stavano facendo le prove per il raid. Quando gli elicotteri del “team six” sono arrivati sul compound di Abbottabad, probabilmente gli uomini della Cia scrutavano l’operazione da fuori, perché “il lavoro della Cia era quello di trovare informazioni e preparare” – come ha detto un ufficiale militare al WP – non quello di intervenire. Soltanto al termine dei quaranta minuti decisivi dell’operazione, quando Osama è stato dichiarato “Ekia”, nemico ucciso in combattimento – ieri lo ha ammesso anche al Qaida, minacciando vendetta – gli uomini inviati da Langley sono sgusciati via nella notte chiudendo la seconda casa più famosa di Abbottabad: aveva esaurito il suo scopo.
CORRIERE della SERA - Guido Olimpio : " Un messaggio per i seguaci rimasti senza la Guida "
al Zawahiri
I superstiti di Al Qaeda hanno dovuto attendere e verificare la notizia. Poi hanno confermato la morte di Bin Laden trasformando il martirio, come di consueto, in un’arma. Il comunicato vuol restituire vigore ad un movimento scosso e sorpreso dalla caduta del leader che ritenevano imprendibile. Una sortita che delude quanti credono che la guida sia ancora in vita o gridano alla truffa. Ai seguaci I terroristi spiegano che Osama «non ha creato un’organizzazione che possa morire dopo il suo decesso» . C’è continuità, la guerra prosegue. In passato il Califfo aveva esortato i suoi uomini ad agire come se non ci fosse più, questo perché sapeva che poteva essere ucciso. Con il comunicato i qaedisti rassicurano i seguaci. La mancata designazione di un successore e l’attribuzione del documento alla «direzione generale» lascia spazio agli interrogativi. Ci sono contrasti su chi dovrà indossare il mantello? Oppure, come sostengono gli osservatori, i militanti non hanno fretta e cercano di evitare altri colpi. Sul piano politico, però, il messaggio avrebbe avuto un altro impatto se fosse stato accompagnato dalla nomina del nuovo emiro. Quanto alla successione, fonti pachistane affermano che Ayman Al Zawahiri, negli ultimi due anni, avrebbe formato una propria corrente isolando Osama. Ciò spiegherebbe perché spesso i due si sono espressi sullo stesso tema a breve distanza di tempo. La tesi della frattura non è peraltro nuova. I piani Nel testo ci sono le solite minacce. Vanno prese per quello che sono. Parole che possono essere seguite dai fatti. Oppure esagerazioni verbali. Gli Usa sono in guardia. Al Qaeda deve reagire. Per dimostrare che davvero è impermeabile alla decapitazione del movimento. Ed è strano che la risposta non sia ancora arrivata. Gli analisti avvertono che i qaedisti sono pazienti. Non può essere un attacco qualsiasi. «Presto, Dio volendo, la loro felicità si tramuterà in tristezza» , recita il comunicato. Al tempo stesso è chiaro che ogni singola esplosione, piccola o grande, sarà presentata come la vendetta. Oltre agli Stati Uniti, un Paese a rischio è la Francia, in quanto attira l’odio della «casa madre» e delle fazioni minori come quella algerina. L’ultimo audio di Osama, in gennaio, era rivolto proprio a Parigi. Analisi sul futuro che si sommano a quelle sul passato. Dalle carte segrete sequestrate ad Abbottabad risulta che il ruolo di Bin Laden non era solo quello dell’ispiratore. Conservava possibili progetti di attentato a treni, acquedotti, città: magari per esprimere il suo parere vincolante. Gli investigatori ricordano che Osama aveva corretto i piani per le stragi in Africa (1998) e quelli dell’ 11 Settembre. L’abbondanza di rivelazioni fatte dagli investigatori è anche un tentativo di dissuadere i terroristi a proseguire nell’azione: sappiamo quello che fate, fermatevi. Il Pakistan I qaedisti invitano a rovesciare il governo pachistano. Una citazione specifica legati ai sospetti dei jihadisti: gli americani sono arrivati ad Osama con l’aiuto del Pakistan. Infatti parlano di «tradimento» . Se è vero che, in questi anni, i servizi segreti locali— o parte di essi— hanno protetto i militanti, è indubbio che il Paese abbia subito attentati gravi per mano dei jihadisti. Washington accusa Islamabad di doppio gioco, la stessa cosa fanno i seguaci di Bin Laden. Un’azione in Pakistan non sarebbe una sorpresa. La Palestina Seguendo un trend degli ultimi due anni, i qaedisti tornano sulla causa palestinese: «Gli Usa non potranno mai vivere in sicurezza fin quando il nostro popolo in Palestina» non godrà della stessa tranquillità. E’ un modo per guadagnare punti, anche se Osama e Zawahiri si sono spesso scontrati con i partiti storici palestinesi considerati troppo morbidi davanti a Israele. Le cellule salafite a Gaza sono cresciute proprio in contrapposizione ad Hamas. Le rivolte Osama, anche da morto, prova a mettere il cappello sulle rivolte arabe. I qaedisti annunciano l’imminente diffusione di un audio testamento che contenere un «saluto» speciale a chi si è sollevato. E’ il tentativo di inserirsi in una scena che ha visto Al Qaeda finire nell’angolo: le dimostrazioni di piazza hanno vinto in Egitto e in Tunisia, non le bombe. Uno smacco terribile per Bin Laden.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama, onore ai Navy Seals: Sconfiggeremo Al Qaeda "
Maurizio Molinari
L’ eliminazione di Bin Laden è stato un fatto storico ma non significa che la guerra contro Al Qaeda è finita». Barack Obama arriva nella base di Fort Campbell, Kentucky, per incontrare in segreto assieme al vicepresidente Joe Biden i Navy Seals del «Team Six» protagonisti del blitz di Abbottabad e spiegare davanti ad un pubblico di oltre mille «Aquile Urlanti» che adesso «la lotta continua». L’incontro con i Navy Seals inizia con i soldati che raccontano il blitz, il presidente fa domande a raffica, ascolta i dettagli, li saluta uno a uno. E infine gli assegna la «Presidential Unit Citation», il riconoscimento più alto che può essere dato ad un soldato. Non vi sono immagini né citazioni da riportare, solo le notizie filtrate dalla Casa Bianca. Ma bastano per riscaldare il parterre delle «Screaming Eagles» della 101ª divisione aviotrasportata: furono i primi soldati a mettere piede in Normandia il 6 giugno 1944, aprirono la strada verso Kuwait City nel 1991 e Baghdad nel 2003 così come furono schierate da Dwight Eisenhower nell’Università del Mississippi per consentire a James Meredith di diventare il primo studente nero dell’ateneo. Parlare qui significa per il comandante in capo richiamarsi al «coraggio che ha forgiato la nazione» e farlo all’indomani di Abbottabad è un omaggio non solo al «Team Six» - vicino all’hangar 3 anche se nessuno lo vede - ma a tutti «gli uomini e donne in divisa che con i loro sacrifici ci rendono più sicuri».
«Sono qui per dirvi grazie a nome dell’America è stata una settimana storica, il leader terrorista che ci ha aggredito non camminerà più» esordisce il presidente fra le ovazioni, raccontando di aver detto agli eroi del Team Six: «Job well done», lavoro ben fatto. «Sono dieci anni che tutti voi combattete in prima linea - continua Obama, citando le imprese della 101ª in Afghanistan e Iraq - e ognuno di voi deve sapere che stiamo facendo progressi contro i terroristi».
Il riferimento è all’Afghanistan dove «abbiamo interrotto il momento favorevole ai taleban» e al Pakistan dove «l’obiettivo resta smantellare, distruggere e sconfiggere Al Qaeda». Sono tali risultati che «consentono di iniziare una nuova fase in Afghanistan con il trasferimento di poteri a partire da luglio», ma ciò non significa abbassare la guardia: «Dobbiamo continuare a vigilare contro possibili attacchi da parte di Al Qaeda» dice Obama, riferendosi ai piani per un nuovo 11 settembre trovati nei computer della villa di Bin Laden. Il presidente cita la lettera di Payton Wall, la 14enne orfana dell’11 settembre che ha abbracciato a Ground Zero per concludere che «l’America è più forte di sempre» nonostante il dolore sofferto. Da qui l’appello alla nazione che «non ha mai oscillato» affinché guardi in avanti con fiducia: «Non ci sono sfide che non possiamo vincere».
Le parole pronunciate da Obama a Fort Campbell coincidono con un inasprimento dei rapporti con il Pakistan. Tanto il Congresso che l’intelligence mantengono alta la pressione su Islamabad per obbligarla a far venire alla luce quello che Leon Panetta, capo della Cia, definisce il «network che ha protetto Bin Laden». Da Capitol Hill a farsi sentire sono alcuni dei più stretti alleati del presidente. Il senatore Carl Levin, capo della commissione Forze Armate, afferma di «non avere dubbi» sul fatto che «alti funzionari pachistani siano stati a conoscenza del rifugio di Bin Laden e sappiano adesso dove si nascondono altri leader terroristi come il mullah Omar» che guidò il regime dei taleban. Chuck Schumer, senatore di New York, ne trae le conseguenze: «Il Pakistan sarà il maggiore problema di sicurezza nazionale dei prossimi anni».
Ciò che accomuna i leader democratici a Capitol Hill è la richiesta a Islamabad a «svelare chi e come ha protetto Bin Laden» al fine di evitare che tale network continui a «minacciarci». Ma al momento Islamabad resiste alle pressioni e anzi va al contrattacco, dando incarico ad alcuni dei più noti lobbisti di far capire al Congresso che «non abbiamo protetto Bin Laden», come dice un portavoce dell’ambasciata negli Usa. Lo scontro con il Congresso rischia di portare al blocco dei tre miliardi di aiuti annuali al Pakistan ma questo fronte di tensione politico-economica non è l’unico perché la Cia tiene aperto quello militare. A neanche 24 ore di distanza dal monito di Islamabad a ritirare la metà delle forze militari Usa in Pakistan, la risposta dell’Agenzia di Langley è arrivata con un blitz dei droni che hanno bersagliato l’accampamento di una cellula jihadista nel Nord Waziristan uccidendo almeno 17 persone a ridosso del confine afghano. Autorizzando l’attacco, Panetta ha voluto far comprendere ai servizi segreti pakistani (Isi) che la Cia non è disposta ad allentare la pressione su Al Qaeda, taleban e jihadisti ma anzi punta ad aumentarla per ottimizzare l’impatto dell’eliminazione di Bin Laden.
La Casa Bianca deve però guardarsi anche dalle polemiche sul fronte interno. Per rispondere alle obiezioni sulla gestione del corpo di Bin Laden dopo l’uccisione, Obama assicura alla tv Cbs che «la sepoltura in mare è avvenuta in maniera rispettosa» sulla base di una «decisione comune». «Abbiamo avuto più accortezze nei confronti di Bin laden di quante ne abbia avute lui con noi, uccidendo quasi tremila persone, senza trattarli con grande rispetto e sacralità». È «questa differenza che ci rende differenti» conclude Obama che però ieri si è trovato davanti alle prime contestazioni quando ad Allison, in Indiana, alcune persone lo hanno accolto con i cartelli «Tu menti» e «Obama come Bush».
L'OPINIONE - Dimitri Buffa : " Il problema palestinese dopo la morte di bin Laden "
Dimitri Buffa
La pace fatta tra le leadreship di Hamas e quella di Fatah ha un unico scopo: mettere l’Onu davanti al fatto compiuto dell’auto proclamazione verticistica di uno stato palestinese alla sessione autunnale del Palazzo di Vetro. Sarà uno pseudo evento preceduto da un can can mediatico che ci delizierà tutta questa estate. Sentiremo una marea di finti esperti di geo politica magnificarci questa cosa. Non mancheranno moniti e suggerimenti ad Israele di prenderne atto e di ritirarsi senza contropartita da Gerusalemme Est e magari anche di accettare il principio del ritorno di 3 milioni e mezzo di profughi virtuali nel proprio territorio. Uomini e donne in realtà nipoti di gente andata via volontariamente ormai sessanta anni orsono da quelle terre dopo avere rifiutato la proposta Onu di dividerle con la popolazione di religione ebraica. Tutto ciò però non potrà cambiare l’unica realtà attuale che caratterizza non solo il “dopo Bin Laden” ma soprattutto il “dopo piazza Tahrir” e il dopo tutte le rivoluzioni ancora in fieri nel mondo arabo: la causa palestinese non è più centrale. Anzi ormai è “un problema locale”. Come lo furono in Europa le dispute tra Inghilterra e Ira e quelle tra Spagna e Eta. Le masse arabe non sono più manovrabili come ai tempi del panarabismo anti israeliano di Nasser e nemmeno come ai tempi della seconda Intifada del terrorismo islamico sponsorizzata da Arafat. In Tunisia, Egitto, Bahrein, Siria, Yemen, Arabia Saudita la popolazione giovane ha scoperto che il benessere e la libertà valgono più dell’ideologia e della religione. Esattamente come da noi in Occidente si dà per assodato da almeno mezzo secolo. La grande truffa dell’”andate a immolarvi per la causa palestinese” è sempre più difficile da vendere anche agli abitanti delle zone più arretrate di Gaza o della West Bank. L’esempio dei capi militari che vivono in ville lussuose e che non mandano i propri figli a fare gli “shaid”, ma quelli degli altri, ormai è scoperto. Cosicchè questo accordo di vertice, come dice giustamente il premier di Gerusalemme Bibi Nethanyahu, è solo una foglia di fico per proclamare questa indipendenza della Palestina che rischia di avere altrettanta efficacia giuridica e mediatica di quella della Padania di Bossi del 1998. Inoltre le corrotte leadership di Fatah e Hamas sanno che ormai non bastano più l’anti semitismo e l’anti americanismo come collante e quindi sono corse ai ripari prima di vedersi disarcionare da quegli stessi giovani da loro ingannati per così tanti anni. Se per i paesi arabi alla fine della seconda guerra mondiale il problema era il colonialismo europeo e il “come uscirne”, oggi per quelle popolazioni la cappa cui sottrarsi è rappresentata dai loro stessi tiranni e dalle autorità religiose che in taluni casi li appoggiano. Come nel caso dell’Egitto e dell’ala conservatirce dei Fratelli Mussulmani. In Pakistan, dopo la cattura di Osama a due passi dl quartiere generale dei servizi di sicurezza, ci si aspetta un’epurazione di massa, ma anche in loco le masse non tarderanno a sollevarsi contro chi li ha ingannati con decenni di anti americanismo “cheap”, defraudandoli intanto di ogni loro bene e libertà. Rimane un grande doppio problema: le Nazioni Unite e la percezione del mondo arabo islamico da parte della vetero sinistra europea. Per quanto riguarda le prime, parla da sola la tronfia e arrogante posizione di Navi Pillay, l'alto commissario per i diritti umani, che perentoriamente ha chiesto “chiarimenti sull’operazione segreta degli Usa”. Naturalmente in questi stessi giorni neanche una letterina di “complain” è stata invece mandata al presidente siriano Assad, il boia che ha fatto sparare sui dimostranti alla stregua di un Bava Beccaris di umbertina memoria. Per quanto riguarda le seconde, le sinistre europee vetero ideologiche, il loro problema è che sono rimasti con la testa ai tempi di Carlos, l’avventuriero del terrorismo di sinistra finanziato dalla Stasi negli anni ’70. Chi avesse seguito il bel film del regista Olivier Assayas, trasmesso in tre puntate negli scorsi giovedì sul canale Fx 131 sulla piattaforma di Sky, avebbe colto la precisa descrizione della strumentalizzazione che della causa palestinese facevano a quei tempi gente come Saddam Hussein o Muhammar Gheddafi. Entrambi dipinti come i mandanti del rapimento degli sceicchi dell’Opec a Vienna nel 1975. L’azione doveva passare come una ritorisone anti israeliana dopo l‘epilogo della guerra di Yom Kippur del 1973 e Carlos lesse anche un comunicato di appoggio alla resistenza dell’Olp davanti alle tv di tutto il mondo. In realtà però, l’obbiettivo era uccidere o ricattare il ministro saudita del petrolio Yamani e il suo omologo dell’Iran, erano ancora i tempi dello Sha, perchè addivenissero alle proposte estremiste di Gheddafi e Saddam che volevano fare alzare il prezzo del petrolio. Oggi quella maniera di sfruttare la causa palestinese per motivi geopolitici è morta e sepolta e l’accordo Hamas - Fatah è l’ultimo disperato tentativo di “ritorno al passato”.
La STAMPA - Andrea Malaguti : " Facciamo il funerale per Osama "
Osama bin Laden
Il funerale londinese di Osama bin Laden è una manifestazione rabbiosa di duecento persone che arrivano all’improvviso su Upper Brook Street diretti all’ambasciata americana. Sono attivisti musulmani con cartelli che non lasciano dubbi: «L’Islam dominerà il mondo»; «Esiste solo la legge della Sharia»; «Osama martire per la libertà». Un predicatore con la camicia blu chiusa fino al collo e la barba che arriva al terzo bottone impugna un microfono e lancia slogan minacciosi che il corteo replica a gran voce. «No alla democrazia, no alla libertà, sì alla legge di Dio. Se Osama è un terrorista siamo tutti terroristi». Un boato.
Nella pancia del gruppo il leader del movimento radicale Islam4Uk. Si chiama Anjem Choudary e un tempo faceva l’avvocato. Ha quattro figli, il passaporto inglese e una certezza: «I musulmani moderati sono come i vegetariani che mangiano hamburger. Un controsenso». Porta un cappellino di lana marrone, occhialini sottili, rettangolari, un cafetano bianco. Ha 44 anni. Intorno a lui guardie del corpo giovanissime. Barbe, occhiali da sole. Un gigante di un metro e novanta e la pancia di un lottatore di sumo lo abbraccia con l’amore maldestro degli uomini eccessivamente alti. «Il momento sta arrivando». E’ lui la guida. Sguardi truci. Grida. «Morte agli americani». Solo Choudary sorride. Alle sue spalle un battaglione di donne col burqa nero. Hanno occhi bellissimi e aggressivi. «Siamo qui per dare l’estremo saluto a un santo».
Ancora urla. Questa volta arrivano dall’altra parte della strada. All’angolo con Grosvenor Square, dominata dal profilo imponente dell’aquila dell’ambasciata degli Stati Uniti, un gruppo di militanti dell’English Defense League corre verso il corteo. Aspettavano Choudary da un paio d’ore. Sono carichi di birre e di slogan fascisti. Hooligans cacciati dagli stadi. «Scum, scum, scum». «Feccia, feccia, feccia». Cercano lo scontro. Sono l’altra faccia del delirio. Sventolano un manichino di Osama che brucia tra le fiamme. «L’abbiamo mandato all’inferno. Ridateci il nostro Paese». La tensione cresce. La polizia interviene. Insulti. Finché uno dei predicatori ordina di girare a destra. E’ l’ambasciata l’obiettivo. Arrivano sul viale d’ingresso. «Assassini, assassini, assassini». Ci sono pachistani, afghani, inglesi convertiti. Invocano la jihad. Sono motivati e pronti a tutto.
Uno dei leader, Abu Muaz si chiama, viene dal Bangladesh. Ha 25 anni. Ne dimostra quindici di più. La barba folta. «L’English Defense League ci fa pena. Non sanno quello che dicono. Siamo qui per la janazah, il funerale islamico. Buttare il corpo di Bin Laden in mare è stato solo l’ultimo modo per ridicolizzare l’Islam. Credono di averci fermato. Non si rendono conto che la storia non si blocca. Da questo momento in avanti migliaia di uomini e donne in tutto il mondo chiameranno i loro figli Osama. Io stesso farò così col mio». Lo circondano di microfoni. Riporterete il terrore a Londra? Pontifica. «Io sono contrario agli attentati. Ma molti non la pensano come me. E non sono stati forse i servizi segreti inglesi a dire che il rischio è alto?». Viene risucchiato dal gruppo. «Allah akbar, Allah akbar». Choudary prende la parola. «L’Occidente si fida delle promesse di Cameron e di Obama. Noi abbiamo Dio al nostro fianco. Chi credete che vincerà la battaglia?». Ovazione. Pochi metri più in là, nel parco, ragazze in minigonne si abbronzano al sole. Venticinque gradi. Margherite. Signore con collane di perle. Tacchi alti. Banchieri della City leggono il Financial Times. Uno sguardo rapido e poi si ributtano sulla Borsa. In lontananza arriva il ruggito dell’English Defense League. «Scum, scum, scum».
Choudary continua il suo monologo con gli occhi tristi di un santo di terracotta. «Osama vive nei nostri cuori». Il corteo scarica aggressivamente il fiato verso il cielo di Londra prima di sciogliersi lentamente pieno di rancore.
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