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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.05.2011 Obama a Ground Zero dopo la morte di bin Laden per ricordare le vittime dell'11 settembre
Cronache e analisi di Maurizio Molinari, Mario Giordano, Redazione del Foglio, Francesco Semprini, Gaia Cesare, Alessandra Farkas

Testata:Il Giornale - La Stampa - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Mario Giordano - Maurizio Molinari - Redazione del Foglio - Francesco Semprini - Gaia Cesare - Alessandra Farkas
Titolo: «Che orrore il coro buonista sullo sceicco del terrore - Gioia e dolore per Obama a Ground Zero - L’Onu: vogliamo la verità sul blitz - Bin Laden preparava un attentato ai treni - Si finge terrorista e svela i piani di Al Qaida»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/05/2011, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Gioia e dolore per Obama a Ground Zero" , a pag. 4, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " L’Onu: vogliamo la verità sul blitz ", a pag. 5, l'articolo di Francesco Semprini dal titolo " Bin Laden preparava un attentato ai treni ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Anche per i liberal uccidere Osama è legale. Ma non citano Bush ". Dal GIORNALE, a pag. 8, l'articolo di Mario Giordano dal titolo "Che orrore il coro buonista sullo sceicco del terrore " , preceduto dal nostro commento, a pag. 9, l'articolo di Gaia Cesare dal titolo " Si finge terrorista e svela i piani di Al Qaida ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 3, l'intervista di Alessandra Farkas a Jonathan Safran Foer dal titolo " La ferita non è ancora chiusa, quel luogo a New York resta un ibrido" .
Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Mario Giordano : " Che orrore il coro buonista sullo sceicco del terrore "


Mario Giordano

Dedichiamo questo articolo al coro di ipocriti che continua a piangere la morte del terrorista Osama bin Laden.

Com’era buono Bin Laden. Avete visto? Sono bastate 48 ore per trasformare lo sceicco del terrore in una specie di Ciccio Papero con la bar­ba, un uomo innocuo, perfino un po’ simpatico,orrendamente tru­cidato dai quei cattivoni con la fac­cia verde scesi dagli elicotteri de­gli Stati Uniti. Hanno detto che è stato ucciso in un conflitto a fuo­co? Macché:è stata«un’esecuzio­ne a sangue freddo ». Hanno scrit­to che ha usato la moglie come scu­do umano? Macché: è stata lei a lanciarsi in avanti per salvarlo con un gesto d’amore. Praticamente Giulietta&Romeo. Osama, del re­sto, era un tenerone disarmato, aveva appena un mitra, una pisto­la e un pigiamino a righe, intimo per uomo, magari pure la papali­na e i pedalini. Sicuramente si era lavato i denti, prima di rimboccar­si le coperte. Lo garantisce la figlia dodicenne: «Catturato vivo e poi ammazzato davanti alla fami­glia ». Si può mettere in dubbio la parola di una piezz’e core?
No, non si può. E così, il gioco è fat­to. Come in un palcoscenico im­pazzito, nel circo mediatico le par­ti in commedia sono state ridistri­buite al contrario. I buoni, cioè gli americani che hanno liberato il mondo dal principe degli attenta­ti, sono diventati cattivi: dicono le bugie, nascondono la verità, devo­no «dare spiegazioni», come inti­ma l’Onu, e si prendono le repri­mende planetarie perché, per sco­prire la verità, probabilmente han­no anche osato «interrogare in modo duro» i prigionieri di Guan­tanamo (ma come si permetto­no? «Interrogatori duri»? Per sco­prire il covo di Bin Laden non ba­stavano mazzi di fiori e ferrero ro­cher?). E il cattivo, invece, cioè il rais di Al Qaeda, il capo terrorista che ha ammazzato e massacrato, tagliato gole, mandato kamikaze in mezzo mondo a seminare san­gue e morte, ebbene lui è diventa­to buono. Praticamente un pacio­c­cone che dormiva in una modesta casetta, col pigiamino, circondato dai suoi affetti. Un uomo innocuo, insomma un padre premuroso. Come ci rivela un titolo a tutta pagi­na della
Stampa : «Era una fami­glia modello».
Ma certo, una famiglia modello. Papà mozza le teste, ma è tanto buono. E i suoi figli crescono in ret­titudine e virtù. In attesa di diven­tare kamikaze o tagliagole, sono così teneri: se escono di casa che cosa comprano? «Caramelle», ov­viamente. Scrivono proprio così i giornali: caramelle molto zucche­rose, è chiaro. Del resto, tutta la fa­miglia era dolce, bombe e stragi a parte: per esempio «se una palla finiva in giardino risarcivano il bambino».Pensate un po’:non gli
sparavano con i kalashnikov, ve­dete la gentilezza? Un vicino rac­conta: «Li incontravo spesso. Una volta mi hanno regalato due coni­gli ». Conigli vivi, poffarbacco: Bin Laden, si sa, non torce nemmeno un pelo ai lapin, al massimo ma­cella i cristiani. E dunque? Avanti con il Quartetto Cetra: nella vecchia fattoria, ya ya oh, di Osama c’era la capra (bee­ee), 150 galline, pecore, due muc­che e quattro cani. Tutti trattati be­nissimo, probabilmente c’è an­che un’antica certificazione del­l’associazione animalisti: le galli­ne non devono temere Bin Laden.
A meno che non capiti loro di pas­sare per le Twin Towers, s’inten­de. Nella vecchia fattoria, ya ya oh: la famigliola modello, ci viene fe­delmente
riferito, si faceva porta­re 10 litri di latte a settimana, quoti­diani, pane e scatolette. Come non provare simpatia per questo tenero quadretto? Questi signori avranno pure massacrato miglia­ia di persone. Però, perbacco, «bruciavano regolarmente i rifiu­ti », non sporcavano e «consuma­vano » perfino «poco gas». Poi «uscivano la mattina a bordo di un furgoncino rosso del 1987» con le loro «brave mogli» e i loro «bravi figli» come una famiglia di impie­gati qualunque. E dove andava­no, di grazia? A fare un pic nic? A trovare nonna Papera? A giocare a palla in riva al ruscello? O studiare l’attacco alla metropolitana di Londra?
L’ultima l’abbiamo scoperta ieri:
Bin Laden (che buono! Che buono!) è stato ucciso solo perché «non era nu­do ». Come a dire: vedi, quant’è stra­na la vita, ba­sta indossare un paio di bo­xer e ti fanno fuori. Non fai a tempo a metterti la ca­nottiera e zac, ti piom­bano in came­ra da letto quei rambo dei Navy Se­als e ti crivella­no.
Le Torri Gemelle, i messaggi di morte,l’atten­tato di Ato­cha, la decapi­tazione di Berg, l’omici­dio Quatroc­chi, etc etc? Tutto dimenticato. Osama è mor­to perché ha sbagliato a vestirsi, poveretto. E quegli americani fero­ci l’hanno pure ridotto così male che non si possono mostrare le fo­to. Perdinci: in questi anni abbia­mo visto di tutto, qualsiasi orrore in diretta, gli uomini di Al Qaeda ci hanno fatto scorrere sotto gli oc­c­hi fiumi di sangue e immagini rac­capriccianti, ma adesso, all’im­provviso, siamo diventati sensibi­li. Non possiamo vedere le imma­gini. E i commentatori, per di più, s’indignano notando che i cadave­ri delle guardie del corpo di Osa­ma avevano «ferite alla testa». Ma guarda un po’: cadaveri con ferite alla testa. E come dovevano am­mazzarli quei criminali? Con un buffetto sulla guancia? Con un piz­zicotto sul sedere? Accidenti, è proprio ora di fare chiarezza: qual­cuno, per cortesia, sa spiegare co­me si fa a togliere di mezzo il più pericoloso dei terroristi senza di­sturbare troppo? Magari senza ro­vinare la quiete dei suoi conigli e delle sue caprette? E, soprattutto, senza farlo diventare immediata­mente un candidato per il premio bontà Mulino Bianco?

La STAMPA - Maurizio Molinari : " L’Onu: vogliamo la verità sul blitz "


Pakistan                  Maurizio Molinari

Il Pakistan chiede agli Stati Uniti di dimezzare la presenza militare sul suo territorio mentre i nuovi dettagli trapelati sul blitz smentiscono quanto affermato in precedenza dalla Casa Bianca: i rapporti con Islamabad e la ricostruzione dell’uccisione di Osama bin Laden sono i due delicati nodi politici con cui il presidente Barack Obama si trova a fare i conti.

Il fronte pakistano è quello più rovente. Il capo delle forze armate di Islamabad, generale Ashfaq Kayani, ha recapitato un brusco duplice messaggio a Washington chiedendo di «dimezzare da subito» i 275 militari Usa presenti in Pakistan per partecipare ad attività di antiterrorismo e di «evitare nuovi raid sul nostro territorio», minacciando in caso contrario di «rivedere la nostra intera cooperazione militare e di intelligence con gli Stati Uniti al livello minimo». Affinché l’irritazione fosse inequivocabile, Kayani ha accusato il Pentagono di aver «oscurato i nostri radar» durante il blitz su Abbottabad, decidendo in segno di protesta di cancellare la prevista presenza a Bruxelles per la riunione fra i vertici militari di tutti i Paesi impegnati a sostenere la guerra in Afghanistan contro i taleban.

Le mosse di Kayani vogliono essere una risposta esplicita a Leon Panetta, il capo della Cia che ha accusato il Pakistan di essere stato «complice di Bin Laden o incompetente» nel dargli la caccia. Per Vali Nasr, ex consigliere su Afghanistan-Pakistan di Hillary Clinton, «il Pakistan è preoccupato perché la Cia ha dimostrato di possedere un network di intelligence capace di mettere a segno operazioni importanti sul territorio, alle spalle dei servizi segreti locali». Ciò significa che dopo aver trovato Bin Laden, la Cia potrebbe essere adesso sulle orme di altri super-ricercati come il Mullah Omar, ex capo dei taleban, e Sirajuddin Haqqani, leader del network terroristico che bersaglia le forze della Nato in Afghanistan. Fonti governative Usa fanno trapelare sul «Wall Street Journal» che la caccia dell’intelligence americana al «network pachistano» che ha protetto Bin Laden in questi anni punta proprio sui mujaheddin di Haqqani e il gruppo islamico Lashkar-eTaiba, autore degli attentati di Mumbai alla fine del 2008. E ieri è arrivata la notizia che i servizi pachistani hanno arrestato tre stranieri di nazionalità imprecisata ad Abbottabad.

L’Amministrazione Obama sembra convinta che le connivenze con Al Qaeda non tocchino il generale Kayani e il generale Ahmed Shuja Pasha, capo dell’intelligence. Come ribadisce il Segretario di Stato Hillary Clinton da Roma, «i nostri rapporti con Islamabad restano saldi e di importanza vitale» ma le indagini partite dai risultati del blitz di Abbottabad sembrano destinate a metterli a dura prova.

Sul fronte interno la Casa Bianca deve proteggersi dalle critiche crescenti dei media sulle contraddizioni che continuano ad accumularsi nella ricostruzione del blitz. Fonti governative Usa ieri hanno affermato che Bin Laden è stato ucciso mentre aveva «a portata di mano» un Kalashnikov e una pistola Makarov, smentendo le precedenti versioni secondo cui aveva sparato o era disarmato. Smentito anche che si sia fatto scudo con il corpo di una delle mogli, mentre la ricostruzione dello scontro a fuoco viene molto ridimensionata, limitando al corriere Sheik Abu Ahmed, subito ucciso, gli spari contro i Navy Seals. Anche riguardo all’incidente all’elicottero Black Hawk la dinamica viene modificata: il blocco dei comandi sarebbe stato originato non da «guasti tecnici» o «eccesso di calore» dovuto a un razzo, bensì dall’aver urtato con la coda uno dei muri esterni .

La Casa Bianca si difende spiegando, attraverso il portavoce Jay Carney, che i Navy Seals stanno «ancora ricostruendo nei briefing con i loro superiori i dettagli di quanto avvenuto» ma l’impressione che ne esce è una mancanza di coordinamento che indebolisce la credibilità del presidente. Come se non bastasse, pure l’Onu incalza la Casa Bianca: l’Alto commissario per i Diritti Umani, Navi Pillay, chiede tutta la verità sull’attacco e «spiegazioni» su «violazioni di leggi internazionali, esecuzioni extragiudiziali e interrogatori con torture» che avrebbero costellato il blitz.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Gioia e dolore per Obama a Ground Zero"


Barack Obama a Ground Zero

In raccoglimento assieme ai parenti delle vittime sotto il «Survivor Tree», determinato nel rivendicare la «giustizia compiuta» con i pompieri del 9˚ battaglione decimato dal crollo delle Torri Gemelle e abbracciato dai poliziotti di Downtown Manhattan: a 96 ore dall’eliminazione di Osama bin Laden, il Presidente americano Barack H. Obama trascorre a Ground Zero quasi tre ore disseminate di simboli a gesti per dimostrare che «non abbiamo dimenticato gli attacchi dell’11 settembre 2001».

Quando il Marine One atterra sulla pista dell’eliporto a ridosso di Wall Street, Obama trova ad accoglierlo due camion dei pompieri e l’ex sindaco Rudolph Giuliani. Sono i volti che evocano gli eroi della reazione di New York agli attacchi di Al Qaeda che fecero 2982 vittime, gran parte delle quali vennero ridotte in cenere. «Sono qui per riconoscere le terribili perdite sofferte da New York l’11 settembre di dieci anni fa», esordisce Obama, stringendo la mano al sindaco repubblicano che con la sua presenza assegna all’evento la dimensione bipartisan desiderata dalla Casa Bianca, per indicare una continuità fra la reazione di allora e il blitz avvenuto domenica a Abbottabad, in Pakistan. Mentre Obama sale a bordo della limousine blindata nera, è il portavoce Jay Carney a riassumere cosa pensa dell’uccisione di Bin Laden: «Un evento di importanza monumentale, ma siamo ancora in guerra ed è importante rendersene conto», ecco perché «la politica sull’Afghanistan resta immutata» e chi immagina ritiri massicci di truppe durante l’estate è destinato a doversi ricredere.

Pochi minuti dopo Obama entra nella stazione dei pompieri «Pride of Midtown», base del 9˚ battaglione della 4ª unità del 54˚ reparto del «Fire Department», che perse tutti e 15 gli uomini di turno l’11 settembre, lasciando 28 orfani. Un murale fuori e un memoriale dentro la stazione ricordano il loro sacrificio. Obama stringe le mani a tutti i pompieri, si siede a pranzare con loro il menù comprende parmigiana di melanzane, pasta con pomodori secchi e sandwich di gamberi -, poi sceglie di mettersi con alle spalle un camion del battaglione per parlare di questo luogo come «il simbolo di uno straordinario sacrificio compiuto in un giorno terribile». «Quanto avvenuto domenica - afferma, circondato dai pompieri dimostra che quando diciamo che non dimentichiamo intendiamo esattamente questo». Le ultime parole in inglese sono «We mean what we say», evocando nei presenti il linguaggio che adoperò George W. Bush subito dopo gli attacchi, avvertendo Al Qaeda che l’America non si sarebbe fermata fino al «compimento della giustizia». Obama tiene a sottolineare la continuità con quel momento: «Avrete sempre un Presidente e un’amministrazione alle vostre spalle», è questo «il messaggio mandato all’America e al mondo» grazie «al coraggio dei nostri militari ed allo straordinario lavoro dell’intelligence», che hanno consentito di «fare giustizia trascendendo le politica e i partiti». Sebbene il tono sia informale e l’occasione quasi privata, è alla nazione che Obama si rivolge: «Non importa quale sia l’amministrazione o chi è al comando, faremo sì che chi ha perpetrato quest’atto orrendo riceva la giustizia che merita». Un evidente riferimento al fatto che dopo Bin Laden, la Casa Bianca è determinata a catturare o eliminare ache gli altri leader di Al Qaeda ancora in fuga. L’altro messaggio riguarda la convergenza fra prima linea e retrovie della lotta al terrorismo: «Quei ragazzi che sono andati in Pakistan affrontando rischi straordinari lo hanno fatto grazie ai sacrifici compiuti qui, lo hanno fatto in nome dei vostri fratelli caduti a Ground Zero». Il Presidente incontrerà oggi alcuni membri del team che ha compiuto il raid a Abbottabad.

Quando esce dall’«Orgoglio di Midtown» è il comandante dei pompieri Edward Kilduff a parlare per tutti: «Il Presidente ha riconosciuto il sacrificio di tutti, di chi è caduto qui, veste la divisa in Afghanistan, in Iraq o è andato in Pakistan». Di fronte al nemico, l’America è una sola senza differenze fra civili e militari, democratici o repubblicani, liberal o conservatori. Pochi minuti dopo mezzogiorno la seconda tappa del Presidente è nella sede del I distretto della polizia di New York, la cui competenza si estende sull’area dove sorgevano le Torri Gemelle. Qui l’eroe è l’agente Shawn McGrill: rimase imprigionato sotto le macerie, lo credevano morto, ma sopravvisse. «Sono qui per stringervi la mano e dirvi quanto sono orgoglioso di voi tutti», sono le parole del Presidente agli agenti. Giuliani e il sindaco Michael Bloomberg sono al suo fianco. Un poliziotto gli chiede di Bin Laden e lui di rimando: «Abbiamo fatto ciò che avevamo promesso, ciò che abbiamo fatto domenica è legato a quanto voi fate ogni giorno». La frontiera di Manhattan non è diversa da quella di Abbottabad, sventare attentati in patria e braccare terroristi all’estero sono due volti dello stesso impegno per rendere l’America più sicura.

Abbracciati gli eroi, il Presidente va dalle vittime. Il luogo è la Memorial Plaza di Ground Zero in piena ricostruzione, con la Freedom Tower che si innalza fino al 64˚ piano, dove sono state già piantate 150 querce nel giardino che ricorda le vittime. Per posizionare la corona in loro memoria - confezionata con i colori della bandiera nazionale -, Obama sceglie il «Survivor Tree», l’albero che fu piantato nel World Trade Center negli anni Settanta e fu travolto, ma non abbattuto dalle macerie delle Torri. Uscì dalle rovine nell’ottobre del 2001, allora misurava 2,4 metri ma oggi supera i 9 metri, rappresentando «resistenza», «riscatto» e «rinascita» di cui Obama parla a Payton Hall, la 14enne orfana dell’11 settembre che saluta assieme alla madre, alla sorella e ad un’amica anch’essa colpita da un lutto causato dagli attacchi dei kamikaze del commando guidato da Mohammed Atta.

Quando la limousine presidenziale lascia Ground Zero, passa in mezzo ad una folla di newyorkesi che sventola bandiere a stelle e strisce con più persone che gridano «Obama got Osama» (Obama ha preso Osama), ripetendo la frase stampata sulle magliette che evocano il blitz dei Navy Seals.

Prima di lasciare Manhattan, Obama incontra in privato una sessantina di parenti di vittime degli attacchi, l’intento è trasmettere una «sensazione di processo compiuto», come dice il portavoce Carney, ma non tutti sono d’accordo. La giovane Brienne McNaley, che perse il padre, obietta: «Questa è una pagina che per me non si chiuderà mai». La ferita di Monica Ikel, a cui morì il marito, è tale che rifiuta di pronunciare il nome di Bin Laden, sebbene oramai morto, «perché è una figura malefica». Il riserbo di Obama su questo incontro è lo stesso che a Washington vede il vicepresidente Joe Biden parlare con chi ha perso i famigliari nell’attacco al Pentagono. Anche qui prevale il messaggio bipartisan con Biden a deporre la corona affiancato dal ministro della Difesa Bob Gates, con il predecessore Donald Rumsfeld, fra i più determinati nel rivendicare all’amministrazione Bush il merito di aver posto le basi per l’eliminazione di Bin Laden. Rumsfeld al Pentagono e Giuliani a Ground Zero consentono di rimediare alla defezione di George W. Bush, che ha declinato l’invito di Obama.

È in questo clima di unità ritrovata, nell’omaggio agli eroi come nel rispetto delle vittime, che questa mattina Obama arriva a Fort Campbell in Kentucky, la base delle forze speciali, per parlare di come cambia la lotta al terrorismo ora che Bin Laden, come riassume uno stretto collaboratore, «non cammina più sulla Terra».

Il FOGLIO - "  Anche per i liberal uccidere Osama è legale. Ma non citano Bush"

New York. Quella di ieri è stata la giornata della celebrazione silenziosa per Barack Obama, il momento “agrodolce” – come l’ha definito la Casa Bianca – in cui il presidente ha incontrato i familiari delle vittime dell’11 settembre nel luogo della tragedia, dove ora cresce un fiore di vetro e acciaio, la Freedom Tower. “Quando diciamo che non dimenticheremo mai, intendiamo esattamente questo”, ha detto il presidente, che a Manhattan ci è arrivato con l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, simbolo vivente della lotta al terrore in quelle settimane in cui la ferita dell’America continuava a stillare fumo. E’ la prima volta che Obama va a Ground Zero, ed è la prima volta che un presidente torna nel sacrario della nazione dopo che il nemico è stato annientato. Prima di partecipare al memoriale – tenuto in contemporanea al Pentagono dal cerimoniere in seconda, Joe Biden, raggiunto dall’ex segretario della Difesa, Donald Rumsfeld – Obama ha fatto visita a un dipartimento dei pompieri, gli eroi di Ground Zero, che ha perso quindici uomini quella mattina di quasi dieci anni fa. Come sul dibattito a proposito della foto del cadavere di Bin Laden, la Casa Bianca ha scelto il profilo basso, perché la circostanza “parla da sé”, e il presidente si è limitato a ricordare le quasi tremila vittime e a incontrarne alcuni parenti in privato, senza aggiungere parole pubbliche. Dopo la scarica adrenalinica partita da Abbottabad, è arrivato il silenzio. Obama aveva invitato George W. Bush, per sottolineare la continuità presidenziale nella lotta al terrore, ma l’ex presidente ha rifiutato in nome di quella dignitosa avversione ai riflettori ex post ben raccontata da Marco Bardazzi nella Stampa di ieri. Bush però è aleggiato nelle retrovie del simbolismo di Ground Zero, in uno dei dibattiti che l’Amministrazione sta affrontando con la serietà che si conviene a una grande democrazia: quello sulla legalità dell’uccisione di Bin Laden. Ieri il capo della commissione per i Diritti umani dell’Onu, Navi Pillay, ha chiesto all’Amministrazione la “full disclosure” dei fatti, cioè che dica come sono davvero andate le cose ad Abbottabad. Ci sono dettagli che complicano la ricostruzione, ma quello che più conta è il profilo legale dell’operazione, da cui invece risulta che per uccidere Bin Laden non è stata violata la legge. Negli anni di Bush le associazioni per i diritti umani sono state in lotta permanente contro tutti gli editti emessi per contrastare il terrorismo, dai “black site” della Cia al carcere di Guantanamo. Con l’uccisione di Bin Laden queste associazioni si sono fatte molto silenziose rispetto ai loro standard. Amnesty International ha chiesto informazioni alla Casa Bianca, ma non ha drizzato le baionette contro Obama. Human Rights Watch ha addirittura rettificato il suo comunicato iniziale, perché alcuni media hanno “erroneamente suggerito che la nostra associazione abbia condannato l’uccisione di Bin Laden”. Il procuratore generale, Eric Holder, l’uomo che ha dedicato gli ultimi due anni e mezzo a cercare (invano) di chiudere Guantanamo, ha testimoniato al Congresso che l’azione “era giustificata in quanto atto di difesa” e che è perfettamente legale “stanare ed eventualmente uccidere un nemico sul campo di battaglia”. La legge che permette questo consenso nel dibattito legale – ci sono eccezioni, certo, ma non fra i detrattori storici – è la numero 107-40, firmata da Bush una settimana dopo l’11 settembre 2001. In questa si legge che il Congresso autorizza il presidente a “usare tutti i mezzi necessari e appropriati contro quelle nazioni, organizzazioni o persone che hanno pianificato, autorizzato, commesso o facilitato gli attacchi dell’11 settembre 2001”. Nessuno meglio di Bin Laden è descritto in questo passaggio. Contro questa legge e sugli aggiornamenti della sicurezza bushiana per fronteggiare la guerra obliqua del terrore si è scatenato quello stesso mezzo mondo che ora applaude l’uccisione di Bin Laden come moralmente giusta e giuridicamente inappuntabile.

La STAMPA - Francesco Semprini : " Bin Laden preparava un attentato ai treni "

Al Qaeda mirava alle ferrovie americane e preparava un attentato ad alcuni treni da far deragliare in località imprecisate, proprio in occasione del decennale dell’11 settembre. È quanto emerge dai primi documenti trovati nel compound dove viveva Osama bin Laden. La formazione terroristica nel febbraio 2010 stava valutando la possibilità di manomettere i binari in modo da provocare un deragliamento, magari lungo una valle o su un ponte. «Si tratta di un primo rapporto spiega il portavoce dell’Ohmealnd Security -. Non ci sono gli estremi per un allarme, ma teniamo alta la vigilanza. Non abbiamo elementi per pensare a una minaccia terroristica imminente alla nostra rete ferroviaria. Vogliamo però avvisare i nostri partner».

La fine della leadership di bin Laden pone un interrogativo fondamentale: quale futuro attende la guerra al terrorismo? Per Charlie Szrom, dell’American Enterprise Institute, è il momento adatto «per trasformare una vittoria simbolica in una vittoria materiale». Quale sarà il prossimo passo da compiere? «Molto dipenderà dall’analisi delle informazioni raccolte nel blitz di domenica», sostiene James Lamond, esperto del National Security Network. Per Lamond non c’è dubbio che si proseguirà con la caccia all’uomo partendo da Ayman al-Zawahri e proseguendo con gli altri «big» affini a «La Base». Il medico egiziano è il vice di Bin Laden, il comunicatore dell’organizzazione, il protagonista di decine di video di rivendicazione e di minaccia.

L’altro super-ricercato è il Mullah Mohammed Omar, fondatore e guida spirituale dei taleban, punto di riferimento per la resistenza anti-occidentale che combatte in Afghanistan. Nella lista c’è anche Anwar alAwlaki, l’imam che guida Al Qaeda nella Penisola arabica. Dopo aver vissuto tra Usa e Gran Bretagna, si è rifugiato in Yemen e il suo nome è stato ricondotto a una serie di recenti attentati come Fort Hood, il volo di Natale Amsterdam-Detroit, e Times Square.

Infine c’è Abu Musab Abdel Wadoud, il leader di Al Qaeda in Maghreb, già comandante dei gruppi salafiti Gspc. Oltre a condurre attentati in Mauritania e Algeria, ha provato a dar vita a una cellula jihadista in Libia per sovvertire il regime di Gheddafi. Sono questi i pezzi da novanta su cui si concentra la guarra al terrorismo, anche se «nessuno appare avere lo stesso carisma, la stessa incisività e la stessa potenza finanziaria di Bin Laden», precisa Lamond. Al-Qaeda non ha mai avuto un problema di successione e questo rischia di innescare una crisi. In questo contesto potrebbe prodursi una parcellizzazione con l’avvento di una nuova generazione di piccoli imprenditori del terrore, «la cui scalata potrebbe avvenire, almeno all’inizio, con attentati condotti su obiettivi selezionati e circoscritti in patria e all’estero».

Il GIORNALE - Gaia Cesare : " Si finge terrorista e svela i piani di Al Qaida "


Simon Hughes

Consiglia come colpire: «Le opzioni che avete per con­durre l'operazione al succes­so sono bombe- carta, assassi­nii o blitz armati in luoghi af­follati dai nemici». Consiglia con chi farlo: «Se siete un gruppo di fratelli che si fida­no l'un l'altro allora potete agire insieme. In caso contra­rio, ti invitiamo a lavorare da solo». Consiglia come tutelar­si: «Vi suggeriamo anche, nel caso abbiate deciso di anda­re fino in fondo, di non contat­tarci, perché potreste finire per essere intercettati». Sono queste parole, firmate Anwar al Awlaki, a far ripiombare Londra nell’incubo, le bom­be simultanee che esplodo­no nel cuore della città, in me­tropolitana e sugli autobus come in quella tragica estate del 2005, quando 52 vite furo­no spazzate via dalla furia in­tegralista. Il Regno Unito sa di essere il bersaglio più ghiot­to, insieme con gli Stati Uniti, degli estremisti islamici. Scotland Yard sa che «un at­tacco è probabile e potrebbe avvenire in qualsiasi momen­to senza preavviso». Da ieri l’ulteriore conferma. Arriva qualche giorno prima sul computer di un giornalista del «Sun» , Simon Hughes. È lui che si finge un integralista islamico e contatta il predica­tore Anwar al Awlaki. È lui che riceve via mail l’invito a organizzare a Londra una nuova strage, peggiore di quella del 2005, sul modello di quella di Mumbai, India, quando la stazione, tre alber­ghi e una sinagoga furono pre­si d’assalto contemporanea­mente nel novembre del 2008 in un attacco che fece contare quasi 200 morti.
Anwar al Awlaki è considera­to uno dei possibili successo­ri
di Osama Bin Laden alla guida delle rete del terrori­smo islamico. È colto: è un in­gegnere. È yemenita, ma è na­to in New Mexico, Stati Uniti. Perciò parla un inglese im­peccabile.
Per due anni ha vis­suto in Gran Bretagna, dove ha predicato l’odio contro l’Occidente e convinto molti giovani a saltare il fosso, ad abbracciare l’estremismo. Quando il giornalista Hu­ghes si spaccia per un aspi­rante terrorista di nome Q. Khan, Al Awlaki - che firma i suoi messaggi «Al Qaida nel­la penisola arabica » - non esi­ta ad aiutarlo. E a pregare per lui: «Chiediamo ad Allah di darti la forza e la fermezza di servire la Sua religione». Poi via coi suggerimenti su tecni­che e modalità di attacco. Compresa la fase finale,quel­la dell’eco mediatica che solo Al Qaida può dare: «Se volete sponsorizzare la vostra ope­razione, appena prima dell' attentato potreste inviarci un messaggio per informarci del­la cosa, ma senza mettere i dettagli». È la prova che Al Aw­laki fa sul serio. E che intende allevare nuove leve per colpi­re i nemici occidentali. D’al­tra parte è lui l’uomo che avrebbe istigato l’autore del­la strage di Fort Hood, ma an­che l’ex studente universita­rio che nel 2009 tentò di far saltare in aria il volo Amster­dam- Detroit, dopo aver na­scosto dell’esplosivo nelle mutande,e poi ancora l’atten­tatore di Times Aquare, Fai­sal Shahzad.
Al Awlaki conosce bene Lon­dra. Con le sue prediche ha persuaso la studentessa Ro­shonara Choundhry ad accol­tellare Stephen Timms, un parlamentare che aveva la so­la colpa di aver votato a favo­re della guerra in Irak e ha isti­gato Rajib Karim, esperto di computer della British Ai­rways, a organizzare un com­plotto per fare saltare un ae­reo in volo. Scotland Yard te­me che possa guadagnarsi la successione a Bin Laden diri­gendo, anche a distanza, un nuovo film dell’orrore am­bientato sul suolo britanni­co.

CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : " La ferita non è ancora chiusa, quel luogo a New York resta un ibrido "


Jonathan Safran Foer, Alessandra Farkas
 

Nel suo secondo romanzo «Molto forte, incredibilmente vicino» (Guanda Editore), da cui il regista Stephen Daldry ha tratto l’imminente film con Sandra Bullock e Tom Hanks, Jonathan Safran Foer è stato uno dei primi scrittori americani ad affrontare il tema degli attacchi terroristici dell’ 11 settembre. «Da Ground Zero sboccia un romanzo» , scrissero allora i critici. Ma dieci anni più tardi, mentre Barack Obama fa la sua prima visita da presidente a Ground Zero, anche il «mood» di Foer è cambiato. «Scrissi quel libro spinto da un impulso fisico incontrollabile — racconta Foer — ma se allora non avrei potuto fare diversamente, oggi sento di poter scegliere. Perché quel buco nero è stato metabolizzato, diventando parte integrante di me» . Quando è stata l’ultima volta che ha visitato Ground Zero? «Tanto tempo fa, ma per puro caso, subito dopo l’ 11 di settembre. Non ho alcun motivo per andarci, nulla da fare o da vedere» . Metabolizzare vuol dunque dire dimenticare? «Ground Zero ha la sfortuna di essere ubicato in una zona di New York dove nessuno mette piede, tranne i finanzieri di Wall Street. Un luogo perciò vittima di amnesia collettiva, di cui è impossibile ignorare la straripante presenza quando ci sei ma di cui ti dimentichi subito quando ne sei lontano» . Come sarà vissuto dalle future generazioni? «Per i posteri Ground Zero resterà per sempre il luogo dell’orrore. I video delle Torri in fiamme sono le immagini più viste nella storia dell’umanità perché definiscono la nostra era, facendo leva sulla nostra paura dell’apocalisse e della morte» . La morte di Osama Bin Laden e l’imminente anniversario lo renderanno di nuovo rilevante? «Da luogo di trauma, Ground Zero doveva evolvere in luogo della memoria ma per quasi dieci anni non è stato nessuna delle due cose. Oggi la ferita non è né aperta né chiusa e il World Trade Center è un ibrido, un cantiere pieno di gru, fisicamente identico a tutti i cantieri del mondo» . È la dimostrazione, forse, della capacità dell’America di voltare pagina e andare avanti? «Non direi. Nessuno si aspettava che per ricostruirlo ci volesse così tanto tempo. Dieci anni sono un’enormità se si pensa che l’Empire State Building è stato eretto in soli due mesi. Tutti sono ansiosi di vedere questo luogo rinascere ma ciò non accadrà finché la gente non vi tornerà a vivere e lavorare» . A chi spetta il compito di rielaborare la narrativa di quei giorni? «Storicamente quel compito spetta ai vincitori. Il cantastorie della nostra era è Barack Obama, come lo è stato George W. Bush prima di lui. A riallacciare i fili della memoria saranno poi giornalisti, storici e artisti che ne parleranno come di un simbolo diverso a seconda della latitudine e della longitudine» . Che cosa intende dire? «Per tanti americani che magari non hanno mai messo piede a New York è una metafora, forte quanto astratta. Il patriottismo di certa gente che vuole andare in Iraq e Afghanistan a bombardare Al Qaeda s’ispira al senso di rabbia e di vendetta contro il terrorismo che non ha nulla a che fare con il vero Ground Zero» . Che cosa cambierà con l’inaugurazione del Memoriale il prossimo settembre? «Ilmemoriale di Daniel Libeskind è un’opportunità mancata e una vergogna, anche se, come ha scritto il New York Times nel celebre articolo sull’"architetto dimezzato"il ruolo di Libeskind è stato notevolmente ridimensionato. Invece di scegliere il brillante e rivoluzionario progetto dello studio di Steven Holl e Peter Eisenman si è preferito il disegno più monotono e banale di tutti. Come al solito il commercio ha trionfato sulla creatività e il coraggio» . Pensa che la letteratura americana continuerà a confrontarsi con quella traumatica esperienza? «Il tempo l’ha trasformata in un soggetto meno incandescente e quindi più facile da maneggiare. Penso che per molti scrittori l’ 11 di settembre oggi sia qualcosa che puoi toccare senza il timore di bruciarti» . E per il resto del Paese? «Tutti abbiamo acquisito un senso di prospettiva che solo il tempo è in grado di darti. Proprio come di fronte a una grande tela: più ti allontani e più è facile cogliere l’insieme mentre da vicino puoi al massimo carpire qualche dettaglio minore. Credo che l’America per la prima volta oggi abbia raggiunto la giusta distanza che le permette di mettere a fuoco con chiarezza l’intero quadro» . E i libri di storia cosa diranno? «Dovranno fare ciò che è stato fatto con l’Olocausto ebraico per conciliare il bisogno di chiudere il cerchio senza dimenticare. La sfida per Ground Zero, come per la Shoah, è trovare la prospettiva giusta, equilibrata ma insieme non estranea al pathos» .

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