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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
05.05.2011 Pakistan: dopo la cattura di bin Laden, relazioni in declino con gli Usa
analisi di Redazione del Foglio. Cronache di Maurizio Molinari, Valerio Pellizzari

Testata:Il Foglio - La Stampa
Autore: Redazione del Foglio - Maurizio Molinari - Valerio Pellizzari
Titolo: «Obama sta perdendo due alleati strategici a Islamabad e al Cairo - Un network ha protetto Osama - Le piazze islamiche gridano: Via i marines dal Pakistan»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/05/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " Obama sta perdendo due alleati strategici a Islamabad e al Cairo ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Un network ha protetto Osama ", a pag. 4, l'articolo di Valerio Pellizzari dal titolo " Le piazze islamiche gridano: Via i marines dal Pakistan ".
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - "  Obama sta perdendo due alleati strategici a Islamabad e al Cairo"


Barack Obama

Roma. Ad Abbottabad i funzionari del catasto sono stati convocati dalla polizia e hanno ricevuto istruzioni precise: devono tacere su chi è il proprietario e su che cosa dicono i registri della villa protetta dove viveva Osama bin Laden. Nello stesso giorno, Islamabad ha per la prima volta preso posizione sul raid, e sebbene in indicibile imbarazzo per la vita indisturbata che conduceva l’eroe dei terroristi, è stata aggressiva: “Il governo del Pakistan esprime la sua profonda preoccupazione e le sue riserve sul modo in cui il governo degli Stati Uniti ha compiuto la sua operazione senza prima avvisare o chiedere l’autorizzazione al governo del Pakistan”. La piazza, anche se non si sono visti lutti di massa, è stata ancora più esplicita. A Peshawar, a Quetta, a Karachi e nella stessa Abbottabad ci sono stati cortei in memoria del leader di al Qaida ucciso e i soliti conati di condanna contro gli Stati Uniti con bandiere bruciate e slogan violenti, da parte dei partiti filotalebani ma anche – ed è preoccupante – da parte degli avvocati, che in Pakistan sono di solito considerati una voce di libertà modernista e democratica contro il potere dei militari. Sembrava che la relazione tra Stati Uniti e Pakistan avesse toccato il suo punto più basso a marzo, dopo il caso del contractor americano della Cia arrestato per duplice omicidio, quando i servizi segreti dei due paesi si erano avvitati in una guerra silenziosa. Ma ora il legame di Washington con il paese un tempo definito “il secondo migliore alleato dell’America dopo i paesi Nato e Israele” si è deteriorato ancora. Nella sua prima intervista del dopo, il direttore della Cia Leon Panetta ha detto: “Abbiamo deciso di non avvertire il Pakistan perché avrebbero potuto mettere a repentaglio la riuscita della missione. Avrebbero potuto avvertire gli obbiettivi”. Con questo dando per scontato due cose: che qualsiasi contatto tra Stati Uniti e Pakistan su un raid per catturare o uccidere Bin Laden sarebbe stato fatto ad altissimo livello, quindi non si fidano dei capi, e che i loro alti interlocutori, per avvertire Osama, sapessero benissimo dove si nascondeva – anche se il presidente imbelle Ali Asif Zardari, vedovo di Benazir Bhutto uccisa dai terroristi, giura che il governo non sapeva nulla. Quelle di Panetta sono parole micidiali. Del resto non deve essere andato giù a Washington che sette giorni prima del raid il generale Ashfaq Perwez Kayani, che in veste di capo dello stato maggiore esercita il vero potere sul paese, sia andato all’Accademia militare di Kakul a dire “abbiamo spezzato la spina dorsale al terrorismo”, mentre dalle sue finestre poteva vedere i muri che difendevano Bin Laden. Washington dal 2001 a oggi ha pompato 18 miliardi di dollari nelle casse di Islamabad e ora è tentata di smettere, prima di consegnare un altro pacchetto da 7,5 miliardi di dollari già promesso. Il senatore democratico Frank Lautenberg riassume: “Non un altro centesimo, senza la certezza che il Pakistan non sta aiutando i terroristi”. Ma l’America non può rinunciare alla relazione con il Pakistan, chiave di volta dello sperabilmente vicino dopoguerra afghano e soprattutto vestale della sola bomba atomica in mano al mondo islamico. Un esercito quasi americano Il secondo grande alleato non ancora perduto ma che certo sta dimostrando la volontà di creare dispiaceri a Washington è l’Egitto. Il governo transitorio del Cairo, che in teoria dovrebbe amministrare la transizione tutta interna tra il regime di Mubarak e il prossimo governo eletto, ha inaugurato una stagione di cambiamenti esplosivi in politica estera. Prima ha aperto all’Iran, poi ha fatto da broker per il patto politico siglato ieri (al Cairo) tra le fazioni palestinesi di Fatah e Hamas che il primo ministro israeliano ha definito “un grave colpo alla democrazia e una grande vittoria per il terrorismo”. Eppure l’esercito egiziano dipende per l’ottanta per cento dai finanziamenti americani, come sa benissimo la giunta militare al potere in questo momento. Il paese, che ruota tutto attorno alle sue Forze armate, è pronto a fare a meno di quei fondi? Forse, il Cairo sta soltanto alzando il prezzo della propria collaborazione politica, che fino a un paio di mesi fa era quasi data per scontata dall’alleato occidentale. Comprende la sua centralità sullo scacchiere e ha deciso di farla rendere, e così facendo si sta trasformando in un secondo Pakistan; a pensarci bene, è una sorte che non si augurerebbe a nessuna nazione.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Un network ha protetto Osama "


Maurizio Molinari       Leon Panetta

La Cia preme sul Pakistan affinché faccia piena luce sul «network che ha protetto Osama bin Laden»; l’inviato di Hillary Clinton sbarca a Islamabad per chiedere «spiegazioni» sulle possibili connivenze governative con Al Qaeda; e il Congresso minaccia di rivedere i tre miliardi di dollari annuali assegnati a una nazione finora considerata alleata: le pressioni convergono sul presidente pachistano Asif Ali Zardari per obbligarlo a svelare in fretta le complicità che hanno consentito per almeno sei anni allo sceicco del terrore di vivere in una villa fortificata nei pressi di un’accademia militare.

Il regista di quanto sta avvenendo è Leon Panetta, perché è stata la Cia a guidare il blitz dei Navy Seals, decidendo fra l’altro di non informare i servizi segreti pachistani (Isi). Panetta è salito a Capitol Hill per spiegare alle commissioni Intelligence, riunite a porte chiuse, perché tenere all’oscuro l’Isi è stata la chiave del successo. «Abbiamo trovato cuciti dentro i vestiti che aveva indosso Bin Laden 2 numeri di telefono e 500 euro» ha svelato, sottolineando come ciò implichi che «era pronto a fuggire con un preavviso molto breve», a conferma che «la sua protezione non erano le poche guardie del corpo trovate nella villa» bensì un «network di sicurezza» sul quale adesso la Cia vuole fare «piena luce».

Da qui le richieste che Panetta ha trasmesso all’Isi per sapere «chi ha costruito la villa e le sue fortificazioni» e per indurre a «raccogliere testimonianze fra i vicini su chi vi entrava e vi usciva».

L’Agenzia di Langley è convinta che la villa di Abbottabad può generare informazioni a sufficienza per ricostruire chi ha protetto Bin Laden e dunque svelare volti e nomi di un «network pachistano» che per l’intelligence è parte integrante di Al Qaeda, e dunque deve essere considerato nemico, perché potrebbe proteggere altri capi terroristi come Ayman al Zawahiri ma anche costituire la retrovia strategica più importante dei taleban in Afghanistan. La Casa Bianca fra l’altro ieri ha fatto sapere che Obama - come annunciato nella campagna elettorale del 2008 - si riserva il diritto di agire ancora in Pakistan per colpire altri terroristi. «I pachistani o sono stati complici di Bin Laden o sono stati incompetenti - ha detto Panetta al Congresso - e in entrambi i casi si trovano in una posizione non molto comoda». Il blitz è stato «un’operazione unilaterale» proprio per scongiurare il rischio che «qualcuno nel network che proteggeva Bin Laden lo avvertisse in tempo per consentirgli di fuggire».

Parla lo stesso linguaggio di Panetta anche John Brennan, il consigliere antiterrorismo della Casa Bianca, che manda a dire all’ambasciatore pachistano a Washington: «Vogliamo sapere chi ha protetto Bin Laden nel vostro Paese». La convergenza PanettaBrennan lascia intendere l’avallo di Obama che vede nell’eliminazione di Bin Laden a Abbottabad la conferma di quanto afferma sin dal 2008 sui santuari pachistani di Al Qaeda. È in tale cornice che il Segretario di Stato Hillary Clinton ha spedito a Islamabad Marc Grossman che ha recapitato un brusco messaggio privato sulla possibilità che l’Amministrazione riveda gli ingenti aiuti economici se l’Isi non svelerà la reale mappa delle complicità locali di Al Qaeda.

D’altra parte il Congresso è in ebollizione. «Negli ultimi 8 anni abbiamo versato ai pachistani 20 miliardi di dollari in aiuti, prima di far avere un altro centesimo dobbiamo sapere se sono o meno al nostro fianco nella lotta al terrorismo» avverte Frank Lautenberg, senatore democratico del New Jersey nella commissione competente per le spese governative. Nel nuovo bilancio si prevedono altri 3 miliardi di aiuti a Islamabad, cui se ne aggiungono 2,5 soloper le forze armate. Ma l’approvazione sembra ora dubbia, vista la diffusa convinzione, riassunta dal repubblicano Allen West della Florida, che «non c’è alcuna possibilità che Isi e militari pachistani ignorassero la presenza di Bin Laden».

Gli unici a tentare di frenare le pressioni su Islamabad sono l’ex presidente Jimmy Carter, che ammonisce sull’«impossibilità di perdere un alleato come il Pakistan», vitale per la guerra in Afghanistan e in possesso dell’arma nucleare, e il presidente della Camera John Boehner, secondo il quale «non è questo il momento per nuocere ai rapporti con i pachistani».

Nel tentativo di rispondere agli affondi della Cia, il ministero degli Esteri pachistano ha diffuso una nota nella quale afferma che «fummo noi, due anni fa, a segnalare agli americani la villa di Abbottabad, suggerendo di adoperare le loro più sofisticate apparecchiature elettroniche per sorvegliarla». Ma la Cia non indietreggia di un millimentro, anzi con Panetta apre un altro fronte di pressioni, osservando come «ancora non abbiamo avuto accesso ai familiari di Bin Laden che trovati nella villa e consegnati ai pachistani», che li avrebbero trasferiti a Rawalpindi. Come dire, l’Isi continua a non cooperare. Panetta rivela anche l’esistenza di un piano per interrogare Bin Laden: una volta catturato vivo sarebbe stato trasportato nella base afghana di Bagram e quindi su una nave da guerra Usa.

Se con il blitz di Abbottabad Panetta ha risollevato il prestigio della Cia dopo i passi falsi del predecessore George Tenet sull’11 settembre e sulle armi di distruzione di massa in Iraq, ora punta a consolidare questo risultato con un risultato politico; obbligare il Pakistan a smascherare il «network segreto» di Al Qaeda.

La STAMPA - Valerio Pellizzari : " Le piazze islamiche gridano: Via i marines dal Pakistan "

Nemmeno Kipling avrebbe saputo costruire una storia così ricca di inventiva e di contraddizioni incalzanti. Sono bastati tre giorni, dopo la cattura e l’uccisione di Bin Laden, per avvicinare pericolosamente i rapporti tra Pakistan e Stati Uniti al punto di rottura.

A Islamabad il coro delle dichiarazioni ufficiali è diventato compatto. «Questo episodio di un’azione unilaterale non autorizzata non può essere considerato una regola. Il governo del Pakistan afferma che un tale evento non può essere considerato in futuro un precedente per alcun Paese, compresi gli Stati Uniti. Tali azioni possono a volte rappresentare un attentato alla pace e alla sicurezza internazionale». Questo è un documento del ministero degli Esteri, scritto dentro un palazzo dove normalmente abbondano le parole felpate. Il coro delle voci governative individuali è allineato a questi principi. Il capo del governo Gilani, in visita a Parigi, ha voluto aggiungere: «I servizi di intelligence di tutto il mondo hanno sbagliato. Aiutateci a battere i terroristi». Queste espressioni trasferite alla popolazione locale si sono già trasformate con parole rudi nello slogan «no piedi stranieri sul nostro territorio».

I rapporti con Washington, ricostruiti in fretta dopo l’11 settembre con grandi finanziamenti, con forniture militari pregiate, ma anche con progressive intrusioni nella gestione politica del Paese, tornano ai tempi peggiori. I pachistani sono stati pubblicamente offesi, umiliati, quando il capo della Cia, Panetta, ha spiegato: «Temevamo che avvertissero Bin Laden». Potrà dire lo stesso domani per gli afghani di Karzai, quando ci sarà la caccia decisiva al mullah Omar o all’insidioso Gulbuddin Hekmatyar.

Ieri questi alleati pachistani, improvvisamente decaduti nella considerazione straniera dal ruolo di attori strategici a quello di comparse maldestre e infide, hanno voluto ricordare che già nel 2009 avevano messo al corrente l’intelligence americana di quella residenza sospetta e che la Cia, grazie alla superiorità tecnologica di cui dispone, ha potuto utilizzare al meglio le informazioni ricevute.

Per la verità affermazioni simili sono arrivate anche da un funzionario dei servizi afghani, in una dichiarazione alla agenzia Afp. Ha rivelato che gli uomini di Kabul avevano individuato quella residenza di Abbottabad come il rifugio di un terrorista importante la scorsa estate, e anche loro avevano informato gli occidentali. Nessuno vuole restare fuori da questa competizione di bravura tardiva. Ormai la residenza di Osama è diventata una meta di attrazione, più telecamere arrivano sul posto, più pachistani affollano campi e strade lì attorno. Anche poliziotti e soldati sono travolti da questa vanità di essere presenti in un luogo dove è avvenuto un fatto clamoroso, dove la grande cronaca è passata.

Bruciare il corpo di Bin Laden, per non costruire attorno a quel corpo una tomba che sarebbe diventata luogo di pellegrinaggio, di attrazione per gli oltranzisti islamici, sembra per ora un’operazione fallita. Anzi, alimenta già paragoni di impatto popolare con un importante personaggio religioso, soprannominato«Il re coraggioso», impiccato negli ultimi anni dell’occupazione inglese, il cui corpo fu trasferito in un’isola senza acqua, popolata da serpenti e scorpioni, e lì fu celebrato il funerale.

Il punto imbarazzante per Islamabad resta la vicinanza di quel rifugio a una accademia militare e la parallela inefficienza dell'Isi, il decantato e potente spionaggio pachistano, responsabile da sempre di fatti e misfatti in questo Paese. Quelle spie, per non sembrare complici del capo di Al Qaeda e sabotatrici del proprio governo, devono adesso apparire vistosamente incapaci, inaffidabili. Ma a questo punto il gioco delle finzioni ricomincia. Perché le autorità pachistane, dopo le parole di Obama che annunciava la fine della parabola di Bin Laden, avevano dichiarato con zelo di essere anche loro coinvolte nell’operazione.

In questo momento di profonda crisi diplomatica con l’Occidente, e non solo con gli Stati Uniti, Islamabad ha ritrovato il sostegno del vecchio alleato cinese, che non ha speculato sulla sospetta complicità degli agenti locali con l'inquilino di Abbottabad. In certe situazioni una parola cinese non pronunciata vale più di un lungo discorso, si trasforma in un investimento politico a lungo termine. Quando i sovietici avevano un trattato di alleanza con gli indiani, il Pakistan manteneva contatti privilegiati con i comunisti a Pechino. Fu un aereo pachistano a portare Kissinger da Mao, per organizzare la storica partita politica di ping pong tra americani e cinesi, a spezzare la cortina di bambù, prima che cadesse la cortina di ferro, a cambiare gli equilibri orientali. E Pechino, oggi la capitale politica più importante dell’Asia, già da tempo è rientrata nella partita che si gioca in Afghanistan.

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