Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 03/05/2011, a pag. 15, l'intervista di Francesco Battistini a Khaled Abu Toameh dal titolo "Ora le forze radicali rischiano il contagio ", a pag. 11, l'intervista di Alessandra Farkas a Jay McInerney dal titolo " ". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'intervista di Maurizio Molinari a Paul Wolfowitz dal titolo " Wolfowitz: il successo? Merito di Guantanamo ", a pag. 11, l'intervista di Andrea Malaguti ad Ahmed Rashid dal titolo " Ma Al Qaeda non è sconfitta ".
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Ora le forze radicali rischiano il contagio "

Khaled Abu Toameh, giornalista Jerusalem Post
«Fingeranno di piangere il martire Bin Laden e poi non cambierà nulla. Le rivolte arabe sono una cosa, Al Qaeda un’altra. La gente s’è ribellata perché aveva fame, non perché aveva fede. Non ci sarà un vantaggio per Al Qaeda: il contrario, forse» . Dal palestinese Khaled Abu Toameh, editorialista del Jerusalem Post, si va come da un oracolo: con un mese d’anticipo, scrisse che il mondo arabo stava per cacciare Mubarak &C. E d’Arafat e d’Abu Mazen, ha smascherato tentazioni violente e corruzione. Conosce così bene la sua gente da venire spesso definito in pubblico un traditore: «Non mi stupisce che Hamas e il nuovo Egitto siano ambigui. Osama ha aiutato spesso la gente di Hamas, esortava sempre il Cairo a sganciarsi. Chi ha ammazzato Vittorio Arrigoni? Gente finanziata da lui, tollerata da Hamas» . Nel mondo arabo prevarrà la reazione violenta, l’indifferenza o la pacificazione? «È la nostra festa della liberazione. Per i musulmani moderati, può essere l’inizio d’una nuova epoca. Bin Laden aveva rapito l’Islam, facendone un sinonimo di terrorismo. Anche se non è detto che le cose cambino davvero: le parole di Meshaal sono un segnale, non mi stupirei ci fossero altri sequestri a Gaza. Perché Al Qaeda lì si sta rafforzando, Bin Laden aveva radici palestinesi, WikiLeaks rivela che molti palestinesi sono stati presi in Pakistan e finiti a Guantanamo... Rapire un simbolo occidentale, è l’azione più facile» . Sarà un problema, l'icona del martire: non era meglio un Bin Laden vivo? «La sua morte ha solo un valore simbolico. Non cambierà d'una virgola la strategia di Al Qaeda. Spunteranno nuovi arruolati in Arabia, nello Yemen, in Pakistan, ma sarebbero spuntati lo stesso» . Lo sbrigativo funerale in mare verrà strumentalizzato? «Il funerale non è così importante, per un musulmano. Una volta che si ha la prova dell’uccisione, a pochi importa del cadavere. Molti pensano che il funerale non lo meritasse nemmeno. Altro che grotte: Osama stava in villa e intanto mandava a morire i poveracci dei campi profughi. Un po’ come i capi di Hamas, coi figli a studiare nei college europei. Spero aprano gli occhi anche in Pakistan: ora che è finito il ricatto all’Occidente, chi ha nascosto Bin Laden per dieci anni?» .
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Wolfowitz: il successo? Merito di Guantanamo "

Paul Wolfowitz
Omaggio a Barack Obama per una vittoria che ha colto prendendo una decisione molto difficile, ma questo risultato è frutto di Guantanamo, il carcere che volevano chiudere». Paul Wolfowitz, ex vicecapo del Pentagono e volto di punta dell’amministrazione Bush, sceglie di parlare dell’eliminazione di Bin Laden nella cornice di una audioconferenza dalla sede dell’American Enterprise Institute di Washington, bastione dei conservatori americani, nell’evidente intento di offrire una lettura degli eventi alternativa a quella dell’amministrazione democratica.
Quale è stata la decisione molto difficile che Obama ha preso?
«Nei commenti al blitz in molti si soffermano a lodare la determinazione del Presidente, io tengo invece a sottolineare che il suo maggiore merito è stato nel prendere una decisione difficile. L’esplosione dell’elicottero che portava i Navy Seals poteva pregiudicare l’esito dell’intera operazione. Poteva trasformarsi in un clamoroso fallimento come fu Black Hawk Down in Somalia o il tentativo da parte di Jimmy Carter di liberare gli ostaggi in Iran oltre trent’anni fa. Se fosse andata male lo smacco per Obama sarebbe stato enorme. Ha scelto di assumersi tali rischi pur di riuscire a eliminare Bin Laden. Bisogna riconoscerlo fino in fondo. I presidenti sono tali perché si assumono la responsabilità di questo tipo di scelte, davvero difficili».
Lei conosce il Pentagono come pochi, cosa distingue da un punto di vista tecnico il successo di oggi dal fallimento di Carter nel deserto iraniano?
«La creazione del Joint Forces Command e gli investimenti che sono stati compiuti in questi 30 anni. Sull’addestramento delle truppe e i mezzi di cui possono disporre. Risultati come quello odierno non sono il frutto di un mese, o un anno, di lavoro. Serve una pianificazione lunga e costosa. E lo dico per ammonire sui rischi che comportano per il Pentagono i tagli al bilancio militare che Obama vuole apportare. Dobbiamo fare molta attenzione a cosa scegliamo di ridurre».
Giudicando dalla ricostruzione del blitz fatta dalla Casa Bianca, quale è stato il momento determinante dell’intera operazione?
«Mi pare di capire che le informazioni che hanno consentito di arrivare al rifugio dove si trovava Bin Laden sono frutto degli interrogatori condotti nel carcere di Guantanamo nei confronti di più detenuti, incluso Khalid Sheik Mohammed. Questo deve far riflettere coloro che in passato hanno criticato la gestione di tali interrogatori, arrivando fino a parlare di tortura, e professando la necessità di chiudere Guantanamo. Spero che chi ha sostenuto tali posizioni ora si renda conto dell’importanza della scelta che facemmo creando questo carcere militare per rinchiudere i super-terroristi».
Quale impatto ritiene che potrà avere l’uccisione di Bin Laden sulla presidenza di Barack Obama?
«Spero che aumenti il coraggio del Presidente».
Cosa intende dire?
«Sappiamo che in Medio Oriente ciò che conta è essere un “cavallo forte” e non un “cavallo debole”. Lo stesso Bin Laden spesso adoperava tale espressione. Ora Obama è un “cavallo forte” e dunque speriamo che si comporti di conseguenza anche sul fronte delle rivolte arabe, dove finora a mio avviso è stato troppo timido. Saranno decisive le prossime settimane».
Che cosa dovrebbe fare per sostenere le rivolte arabe?
«Tanto per cominciare dovrebbe essere più esplicito, chiaro, determinato nel sostenere i manifestanti che a Teheran e Damasco si battono contro regimi oppressivi, per la libertà e il rispetto dei diritti umani. Sulle proteste e le vittime avvenute in questi due Paesi Obama sta continuando a esitare lì dove la gente in piazza guarda a lui e all’America. E poi c’è il caso della Libia...».
Cosa non la convince nella gestione dell’attacco militare al regime di Muammar Gheddafi?
«Non sto certo sostenendo la necessità di mandare i Navy Seals a Tripoli a cercare Gheddafi. Penso però che bisogna dare sostanziosi aiuti, in armamenti e fondi, ai ribelli di Bengasi al fine di farli diventare una vera forza combattente. Così come bisogna adoperare le capacità elettroniche che abbiamo per impedire a Gheddafi di comunicare, far propaganda e discorsi. A cominciare dalla tv libica».
Dopo la scomparsa di Bin Laden quali sono i possibili successori alla guida di Al Qaeda?
«Sulla carta l’erede designato è l’ideologo egiziano Ayman al Zawahiri, ma in realtà dovremo fare attenzione a quanto avviene nelle centrali distaccate di Al Qaeda che negli ultimi tempi si sono mostrate più attive. A cominciare dalla Penisola Arabica. Non possiamo escludere che i capi delle cellule rivali inizino la competizione per la successione nell’unica maniera che sanno fare: uccidendo un gran numero di civili innocenti».
Si sono levate molte critiche nei confronti del Pakistan per il fatto che Bin Laden viveva nei pressi di Islamabad. Cosa ne pensa?
«Sappiamo ancora troppo poco di questa operazione. Il ruolo avuto dai pachistani potrebbe essere ben superiore a quanto appaia adesso».
Quando era al Pentagono lei seguì la campagna afghana. Perché non fu possibile catturare Bin Laden?
«Conosco l’episodio di Tora Bora e quanto ne è seguito, ma il conflitto contro Al Qaeda non è un processo a compartimenti stagni. La politica seguita da questa amministrazione è frutto di quanto è stato fatto da chi l’ha preceduta».
CORRIERE della SERA - Alessandra Farkas : "Il suo odio non ci ha cambiati. Ecco perché era già stato sconfitto "
Tre giorni dopo aver osservato in diretta la distruzione del World Trade Center dalla finestra del suo appartamento a due passi da Ground Zero, Jay McInerney scrisse un saggio triste e disperato per l’inglese Guardian in cui confessava di sentirsi «arrabbiato, depresso, in preda al pianto e a emozioni furiose di vendetta» . L’attacco di Osama Bin Laden all’America, come rivelò più tardi nel suo acclamato romanzo «Good Life» (Bompiani) ambientato sullo sfondo della tragedia dell’ 11 di settembre, aveva lasciato un’impronta indelebile non solo nella memoria collettiva della sua amata città ma anche nella psiche di quello che i critici considerano da sempre uno dei suoi massimi cantori. Non è quindi un caso se la notizia della morte di Bin Laden trova l’autore di Le mille luci di New York in perfetta sintonia con il presidente Obama: «Giustizia è stata fatta» , dichiara con tono convinto McInerney, «l’intero Paese è in festa. A partire dal tassista newyorchese che domenica sera m’ha accompagnato a casa dall’aeroporto. Abbiamo ascoltato insieme alla radio la conferenza stampa di Obama, come due vecchi amici» , incalza, «quando sono arrivato a Manhattan anche il mio portiere era euforico. Al bar, più tardi, la gente non parlava d’altro e per strada il senso di celebrazione era straordinario» . Una grande festa per tutti, insomma? «Ma anche una festa agrodolce. Il nostro istinto di vendetta in questi nove anni e mezzo ha perso l’urgenza che aveva allora, finendo per essere irrimediabilmente intrecciato al senso di tristezza per i troppi morti e per come il mondo è stato costretto a cambiare» . Per l’America è comunque la fine di un incubo. «Le persone intelligenti sanno che non è così. Da tanto tempo Bin Laden non era più un leader che impartiva ordini strategico-militari ma solo un simbolo, ininfluente, obsoleto e tagliato fuori dalle rivoluzioni epocali che stanno scuotendo il mondo arabo. Per l’America non era più una minaccia presente ma il simbolo di un tragico passato» . Perché gioire allora? «La sua morte pone fine alla frustrazione dell’americano della strada, incredulo e indignato che ci sia voluto così tanto tempo ad ucciderlo. In questo senso è una conclusione, un punto d’arrivo simbolico ma importantissimo che rende giustizia a migliaia di americani che hanno perso i famigliari nelle tragedie dell’ 11 settembre. Il problema, come nelle esecuzioni capitali, è che la sua fine non resuscita i morti» . Anche la morte di Hitler fu annunciata l’ 1 maggio. Oggi, come allora, molti lamentano che è successo troppo tardi. «Ne sono convinto pure io: l’impatto psicologico sarebbe stato infinitamente più forte se fosse stato eliminato prima. Pur non credendo nella pena capitale, in questo caso sono costretto a fare un’eccezione» . È vero che di fronte a questo evento epocale l’America ritroverà l’unità perduta? «I problemi che dividono l’America sono troppo profondi e radicati; l’armonia bipartisan durerà qualche giorno, forse ore prima che torneremo a litigare. Mi conforta che questo blitz sia accaduto durante la presidenza Obama, anche se non metterà a tacere i suoi più acerrimi e irrazionali nemici, convinti che il nostro presidente sia un musulmano nato in Kenya» . L’aiuterà dal punto di vista politico? «Solo nel breve termine: le elezioni sono molto lontane e la memoria degli elettori è corta. Personalmente penso che Obama abbia dimostrato un coraggio e una risoluzione contro Al Qaeda ben superiori a quelli del suo predecessore George W. Bush che nonostante gli atteggiamenti da supermacho non è riuscito a battere un chiodo» . I protagonisti del suo ultimo romanzo sono profondamente trasformati dalla tragedia. E quelli del suo mondo reale? «Prima di entrare in un grattacielo di New York, oggi sei costretto a mostrare i documenti. Se vedi un aereo che vola basso o senti un’esplosione, hai subito un riflesso pavloviano di timore. Ma la natura umana non è cambiata ed è stato sciocco presupporre che Bin Laden ci sarebbe riuscito» . Che cosa intende dire? «Che alla fine il leggendario carattere dei newyorchesi è identico a prima e ciò è un bene. Bin Laden non ha distrutto la fibra morale della città né ci ha traumatizzati per sempre e in questo senso ha fallito. New York e l’America sono tornate alla normalità e tutto ciò che lui odiava di più esiste ancora» . Ad esempio? «Restiamo una società relativamente aperta e una democrazia. Ma anche i nostri difetti sono immutati. Mi rattrista ripensare ai giorni subito dopo l’attacco, quando l’intera nazione si ricongiunse come una grande e affiatata famiglia e per un attimo ci siamo illusi che Bin Laden ci aveva resi migliori, più nobili e buoni» . La minaccia di una ritorsione potrebbe tornare a disturbare i sonni di molti? «Non è nella natura dei newyorchesi avere paura di un pericolo finché questo non si materializza. Chi sceglie di vivere qui non è per definizione un pavido. Sappiamo di essere stati e di continuare a essere nel mirino dei terroristi. Ma da quasi dieci anni, ormai, non succede nulla e nessuno, mi creda, correrà a fasciarsi la testa prima di essersela rotta» .
La STAMPA - Andrea Malaguti : " Ma Al Qaeda non è sconfitta "

Ahmed Rashid
Penso che chiunque sapesse che Bin Laden era in Pakistan. Tranne le autorità di Islamabad, a sentire loro. Più sorprendente invece che fosse ad Abbottabad, una città militare dove tutto gira intorno alla base. Ora la risposta di Al Qaeda sarà violenta».
Il giornalista-scrittore pachistano Ahmed Rashid, ex rivoluzionario, consulente di Human Rights Watch, autore di una serie di best seller sul Pakistan e sull'Afghanistan - da «Taleban» a «Jihad» - risponde al telefono dalla sua casa di Lahore. È preoccupato. E spiega perché la morte violenta del leader di Al Qaeda, il «Male Assoluto», è destinata ad aprire un nuovo fronte nello scontro tra l’Occidente e i terroristi. Come se il lento apprendistato dell’agonia non potesse finire mai. Il quadro che restituisce fa paura.
Signor Rashid, perché è sorprendente che Osama fosse ad Abbottabad?
«Perché è una città di trecentomila abitanti, costruita dagli inglesi con specifici compiti militari. L’esercito è padrone del territorio. C’è la sede della brigata pachistana e anche quella, importantissima, del collegio per cadetti».
Quindi?
«Tra la base militare e l’edificio in cui è stato trovato il leader di Al Qaeda ci sono poche centinaia di metri. E in quel complesso vivono agenti dei servizi e militari. Era una casa nota. La villa di Bin Laden vale 1 milione di dollari in una zona di case basse. Impossibile non conoscerla. Da ogni punto di vista».
Dunque le autorità di Islamabad sapevano.
«Sono sicuro. Quella villa era qualcosa di speciale, anche se probabilmente il capo di Al Qaeda si era trasferito lì da non molto tempo».
Il premier Gilani ha definito l’operazione «un grande successo». L’ex presidente Musharraf sostiene che l’intervento «ha violato la sovranità nazionale». Da che parte sta il Pakistan?
«I legami tra il Pakistan e Al Qaeda sono profondi, anche se è vero che l’intelligence collabora con gli americani contro i taleban. Ma Lashkar e Taiba, l’Esercito dei Giusti, da un lato alimenta i rapporti con gli estremisti, dall’altro è in contatto con i servizi segreti. In Kashmir e in India giocano la stessa partita. Una matassa difficile da sbrogliare».
Gli americani sono scesi in piazza. A Ground Zero hanno fatto festa per la morte di Bin Laden.
«Ci sono state manifestazioni di giubilo anche altrove in Occidente per la morte di Osama, ma le capitali di tutto il mondo sanno bene che ora devono prepararsi agli attacchi».
Com’è oggi l’esercito di Al Qaeda?
«È fatto di migliaia di jihadisti e di aspiranti combattenti che da ieri sono in lutto per la morte di un loro punto di riferimento e stanno giurando di dare la propria vita per vendicare Bin Laden. Faranno proseliti. Probabilmente ci sono anche dei piani pronti da diversi anni».
La morte di Osama non riduce la pericolosità degli estremisti?
«È un colpo molto duro per Al Qaeda, ma l’organizzazione è cambiata nel corso degli anni. Prima era un gruppo fortemente centralizzato. I principali leader erano responsabili della ricerca degli uomini, della loro formazione, della selezione e della distribuzione degli ordini. Adesso è qualcosa di più sciolto e amorfo».
Come ragiona la nuova struttura?
«La filosofia di Al Qaeda è: un uomo, una bomba. Non c’è bisogno di un’altra strage come quella dell’11 settembre. New York è la testimonianza di quello che dico. Il tentativo di mettere un ordigno a Times Square e l’attentato suicida sventato nella metropolitana dimostrano che Al Qaeda è viva e vegeta. E che non ha bisogno di qualcuno che impartisca comandi dall’alto».
Che cosa si aspetta adesso?
«Mi aspetto una reazione dura. In Pakistan e in Afghanistan soprattutto. Ci saranno dei bombardamenti. E anche l’Occidente deve alzare il livello di guardia. Prevedo attacchi suicidi nelle metropolitane e sui treni. Tentativi di dirottare aerei, di farli esplodere. Assalti contro le ambasciate e le basi militari».
Quali i Paesi a rischio in Europa?
«Gran Bretagna, Germania, Spagna, Francia, Italia. Le cellule dormienti sono ovunque. Centinaia di musulmani con passaporto europeo hanno fatto la spola con il Pakistan. Ora devono solo agire. Berlino, dopo l’arresto di tre marocchini che si preparavano a piazzare delle bombe in luoghi pubblici, ha dovuto ammettere che almeno duecento tedeschi sono stati nei territori tribali per addestrarsi».
Qual è l’obiettivo?
«Da un lato la vendetta. Dall’altro allargare la propria sfera di influenza. Intanto in Pakistan, dove Al Qaeda potrebbe cercare di accentuare le divisioni con l’India attraverso un nuovo attacco stile Mumbay. Poi in Tunisia, Egitto, Siria e nei Paesi del Golfo dove sta crescendo una nuova generazione di leader. Ma l’uccisione di Bin Laden potrebbe dare il colpo più duro proprio a loro».
Quali vantaggi immediati porta la morte di Osama?
«Le agenzie di intelligence di tutto il mondo avranno più indizi sui nuovi leader. Immagino che ci saranno molti arresti. Ma Al Qaeda non scomparirà dall’oggi al domani».
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