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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero - Il Foglio - L'Opinione Rassegna Stampa
03.05.2011 Pakistan e Afghanistan affidabili nella guerra contro il terrorismo?
analisi di Carlo Panella, Daniele Raineri, Luigi De Biase, Pio Pompa, Dimitri Buffa

Testata:Libero - Il Foglio - L'Opinione
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Luigi De Biase - Pio Pompa - Dimitri Buffa
Titolo: «Pakistan complice e Afghanistan corrotto. Con questi alleati combattiamo i terroristi - Al Qaeda 2.0 - Il capolavoro americano e l’irrequietezza delle nuove generazioni qaidiste-Gli Usa considerano il Pakistan come uno stato traditore»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 03/05/2011, a pag. 1-4, gli articoli di Daniele Raineri, Luigi De Biase titolati "  L’uccisione di Bin Laden suona come un “liberi tutti” in Afghanistan" e " Al Qaida 2.0 ", a pag. 4, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Il capolavoro americano e l’irrequietezza delle nuove generazioni qaidiste ". Da LIBERO, a pag. 4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Pakistan complice e Afghanistan corrotto. Con questi alleati combattiamo i terroristi ".
Sull'OPINIONE Dimitri Buffa, con il titolo "Gli Usa considerano il Pakistan come uno stato traditore "

Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : "  Pakistan complice e Afghanistan corrotto. Con questi alleati combattiamo i terroristi"


Carlo Panella

Una sola cosa è chiara: Osama Bin Laden è morto. Per il resto, tutto non solo non è chiaro, ma è assolutamente oscuro. Una pesante cappa di oscurità che pesa tutta sui Servizi e sulle Forze Armate del Pakistan. Immaginavamo un Osama costretto a rifugiarsi nelle grotte tra le gelide montagne rocciose del’Afghanistan, oppure a fuggire a dorso di mulo tra le impenetrabili valli tribali del Waziristan. Ora scopriamo invece che se ne stava in un comodo compound(leggi: condominio circondato da mura) a pochi chilometri dalla capitale del Pakistan, Islamabad (come dire: a Santa Marinella rispetto a Roma). È evidente che questo è potuto accadere solo grazie a quelle enormi complicità con i talebani e con Al Qaeda di parte delle dirigenza militare del Pakistan che da anni sono denunciate dagli analisti. Complicità dei generali che negli anni ’90 hanno favorito la presa del potere a Kabul del mullah Omar e dei talebani, con l’alleata Al Qaeda e che Parwez Musharraf, loro complice, era stato costretto da George W. Bush, con la minaccia di essere spodestato con le armi, a dimissionare pochi giorni dopo l’11 settembre 2001: il generale Ahmad Mehmood, ex comandante dell’Isi, il servizio segreto; l’ex capo del corpo d’armata di Lahore, Mohammed Aziz Khan e l’ex vice Capo di Stato Maggiore Muzzafar. È evidente che la cattura di Osama è stata resa possibile solo da una profonda incrinatura di quel enorme muro di omertà che sinora aveva permesso a questi ex generali –e ad altri- di proteggerlo in modo così sfrontato. È poi plausibile che il generale David Patraeus, sia stato nominato giorni fa da Barak Obama a capo della Cia proprio in virtù del fatto che –re - sponsabile in capo delle operazioni in Afghanistan e Pakistan- hasaputodeterminare un radicale capovolgimento a favore degli Usa dei rapporti di forza. Tutti elementi che definiscono il probabile impatto che la cattura di Osama avrà sia sulla guerre in Afghanistan che sul futuro del Pakistan. Enorme è il fattore psicologico di un occidente vincente che dimostra –in perfetta continuità guerriera tra Bush e Obama- di sapere perseguire per un decennio i propri obbiettivi, anche a costo di migliaia di perdite. Fondamentale è il fatto che d’ora in poi i talebani e le fortissime cellule di Al Qaeda in Pakistan, sapranno di non potersi più fidare di quei “padrini” pakistani che sinora li hanno protetti. Come si sa, il governo politico del Pakistan, in mano al vedovo corrotto e incapace di Benazir Bhutto, il presidente Ali Zerdari e al premier Reza Gilani, è più che fluttuante. Esattamente come si sa che il governo di Kabul, dell’ambiguo Hamid Karzai è ugualmente corrotto e incapace. Ma da ieri talebani e terroristi di Al Qaeda hanno dovuto prendere atto che l’Occidente non demorde. È questa una svolta epocale, che avrà influenza determinante su tutto quello scenario di guerra. Non così, purtroppo, sarà per la galassia di Al Qaeda radicata in tutti i paesi islamici e delle sue cellule in occidente. Il genio diabolico di Osama ha formato una organizzazione multipolare, per nulla verticistica: un arcipelago di strutture autonome che dal leader assumeva solo le indicazioni generali, non certo gli ordini operativi. Quindi non è vero che, decapitata la testa del drago, questi morirà. Non solo, Ayman al Zawahiri, il braccio destro di Osama, pare non fosse assieme a lui nel compound, ed è personaggio di enorme prestigio e ascendente che può incarnare subito una nuova leadership. È stato dunque ucciso Bin Laden, non il terrorismo islamico, che sarà sconfitto solo il giorno in cui, finalmente, l’intera umma musulmana deciderà che è un proprio nemico fondamentale e primario.

Il FOGLIO - Daniele Raineri - "  L’uccisione di Bin Laden suona come un “liberi tutti” in Afghanistan"


Daniele Raineri

Roma. “Non avete ancora vinto, non andatevene”. Ieri il New York Times ha fatto un giro d’opinioni che contano in Afghanistan sull’uccisione di Osama bin Laden. Dal governo afghano hanno risposto che l’operazione di domenica notte è stata un colpo fantastico contro al Qaida, ma non è affatto una vittoria definitiva contro i talebani e che l’America e la Nato non dovrebbero usarla come una ragione per ritirarsi dalla guerra. L’uccisione di Osama è una spinta straordinaria alla linea che l’Amministrazione Obama è tentata di adottare per uscire dall’Afghanistan. Washington si è pentita dell’impegno colossale che si assunse nel 2009, quando autorizzò una strategia a lungo termine per battere i talebani, una strategia simile a quella irachena e che comprende un po’ tutto, creare un esercito funzionante (ma il programma è in ritardo), far partire un processo democratico credibile (siamo ancora lontani), conquistare l’anima o almeno la non ostilità degli afghani (anche qui, ci vorrebbero anni nel caso migliore). Piuttosto, la Casa Bianca vorrebbe rilanciare un’altra dottrina, una strategia “light”, che circola sotto il nome di dottrina Biden perché il vicepresidente Joe Biden è il suo più appassionato sostenitore: lasciare che gli afghani se la sbrighino da sé a fare la guerra contro il Mullah Omar oppure stringere un compromesso politico con lui; e combattere i terroristi internazionali con il lavoro dei servizi segreti, gli attacchi dei droni e le incursioni delle forze speciali. Per preparare il terreno a questo cambio progressivo di dottrina, da un anno la Cia sta minimizzando la presenza del gruppo terroristico in Afghanistan: “Laggiù sono operativi al massimo cento uomini di al Qaida”, dice il direttore della Cia – che dal giugno diventerà capo della Difesa – Leon Panetta. Per gli alleati occidentali impegnati a fianco dell’America, esasperati dalla lunghezza e dalla natura del conflitto e che non vedono l’ora di chiudere le missioni militari a Kabul, queste sono parole di miele. Il nemico non è in Afghanistan, si nasconde altrove, soprattutto in Pakistan, non servono soldati ma forze speciali: è ora di ritirarsi. Non serve spiegare perché: 1) l’uccisione di Bin Laden; 2) da parte dei Navy Seals; 3) in una villa pachistana squilla il segnale generale del “quasi liberi tutti”. Un comandante militare della guerriglia talebana ha già detto al Los Angeles Times che “per noi non cambia nulla, si va avanti come prima”. Eppure ora che Bin Laden è stato ucciso e gettato in fondo al mare, la lotta del Mullah Omar contro il governo di Kabul potrebbe presto tornare a essere quello che era negli anni precedenti all’11 settembre 2001: beghe politiche centroasiatiche tra etnie misconosciute, i pashtun contro gli hazara e i tagichi, un argomento oscuro di competenza di specialisti e attivisti dei diritti umani – e di qualche drone con missili a sorvegliare dal cielo che la storia non si ripeta. Se i paesi della missione Isaf non vedono l’ora di districarsi dall’Afghanistan, l’oligarchia dei generali pachistani non vede invece l’ora di riprenderlo di nuovo sotto la sua soffocante protezione. Alcuni analisti, come John McCreary di NightWatch, parlano di un patto tra americani e pachistani: non possiamo andarcene senza la testa di Osama; sappiamo che lo proteggete, ma ora lasciatecelo e noi vi riconsegneremo il primato politico e militare in quest’area. Ci sono elementi a favore o a smentita di questa tesi? L’Amministrazione Obama, fin dal discorso notturno del presidente, è stata chiara: l’America ha deciso unilateralmente, il Pakistan è sempre stato all’oscuro di tutto. Questa versione è credibile perché gli americani da tempo non hanno più voglia di condividere informazioni decisive con i pachistani e serve anche per non esporre troppo il governo e l’esercito di Islamabad – ma non è bastata, sono stati subito minacciati di rappresaglie sanguinose dai talebani pachistani. Di certo c’è che Abbottabad, dove viveva Bin Laden, è una grande cittadina nella parte orientale del paese e sta tra la capitale e il vicino confine con l’arcinemica India. E’ difficile, ma non impossibile, che qualcosa voli su quell’area, anche se proveniente dall’Afghanistan come gli elicotteri dei Navy Seal americani, senza il permesso dei pachistani – magari dato all’ultimo momento. Altrimenti c’era il rischio che il loro sistema integrato di difesa aerea scattasse e reagisse.

Il FOGLIO - Luigi De Biase - "  Al Qaida 2.0"


Luigi De Biase

Roma. La morte di Osama bin Laden toglie ad al Qaida il suo fondatore, la grande guida spirituale capace di unire l’internazionale del terrorismo islamico sotto una sola insegna, ma non annienta la sua organizzazione, una rete che stringe il mondo musulmano dal deserto della Mauritania alle coste dell’Indonesia. Bin Laden è stato l’unico leader di al Qaida, ha ispirato la sua dottrina e gli attacchi più clamorosi avvenuti negli ultimi vent’anni: i suoi proclami hanno nutrito migliaia di mujaheddin ben allenati alla guerra contro l’occidente. L’uomo più in vista è Ayman al Zawahiri, il medico egiziano considerato a lungo il numero due di al Qaida. Secondo gli esperti dell’intelligence americana Zawahiri continua a essere uno dei punti di riferimento nella gerarchia della rete, ma non sarà l’erede di Bin Laden: gli manca il carisma necessario per tenere insieme gli arabi del Golfo, che forniscono uomini, armi e soldi all’esercito islamista. E’ più credibile l’ascesa di Anwar al Awlaki, il capo di al Qaida nella Penisola araba, una delle cellule più micidiali e meglio nascoste dell’organizzazione. Al Awlaki è nato nel New Mexico e ha speso la gioventù in viaggio fra gli Stati Uniti, l’Afghanistan e lo Yemen, il paese d’origine della sua famiglia (il padre è stato ministro a Sana’a). E’ lì che si nasconde oggi: i suoi sermoni hanno sedotto i kamikaze dell’11 settembre così come Nidal Malik Hasan, il maggiore dell’esercito americano che, nel 2009, ha ucciso tredici colleghi in una base del Texas – lo ha fatto gridando “Allah Akhbar”, Allah è grande. Al Awlaki è uno dei predicatori più popolari fra le giovani reclute di al Qaida. La sua capacità di raggiungere e di conquistare fedeli in occidente è considerata una minaccia enorme dalla Cia e dalle agenzie di intelligence europee: anche per questo, i vertici militari di Washington ritengono che lo Yemen sia in cima alla lista dei pericoli per la sicurezza nazionale. Questa cellula avrebbe tentato più volte di colpire gli Stati Uniti, l’ultima il giorno di Natale del 2009, quando uno studente nigeriano partito da Sana’a cercò di farsi esplodere su un volo diretto a Detroit. Al Awlaki non è certo l’unico possibile successore di Bin Laden. Con lui ci sono Abu Yahya al Libi, il leader del Gruppo di combattimento islamico della Libia fuggito dal carcere di massima sicurezza di Bagram, in Afghanistan, nel 2005, che oggi è sulla lista dei più ricercati dal Pentagono; Ilyas Kashmiri, un veterano della guerra in Afghanistan, lo stesso uomo che ordinò di uccidere l’autore delle vignette su Maometto pubblicate nel 2005 dal quotidiano danese Jyllands-Posten; e il comandante talebano Sirajuddin Haqqani, un punto di collegamento fra le milizie afghane e i servizi segreti del Pakistan (Isi). L’elenco comprende anche Qari Rahman e Nazir Ahmad. Tuttavia, dice Paul Cruickshank del Center on Law and security della New York University, nessuno può competere con il carisma di Bin Laden. “Dentro l’organizzazione convivono tante forze centrifughe – spiega l’analista – Bin Laden era il fulcro, era l’uomo in grado di tenere uniti combattenti che avevano piani diversi”. Al Qaida, oggi, è una creatura completamente diversa rispetto a quella che gli americani hanno cominciato a combattere dieci anni fa, quando il capo della Casa Bianca era George W. Bush. La struttura si è allargata, l’organizzazione ha stabilito contatti con milizie che combattono nel Maghreb, in Somalia, in Cecenia e in Afghanistan, ha fornito loro supporto militare e spirituale nella lotta contro gli Stati Uniti e contro i loro alleati – soprattutto quelli musulmani. Bin Laden è stato il denominatore comune del jihad, ma la morte di questo enorme simbolo del terrore non implica la fine di al Qaida e delle sue azioni. Alla vigilia dell’operazione nella quale è stato ucciso Bin Laden, Washington ha ritirato la maggior parte del personale diplomatico dal Pakistan e dall’Afghanistan e ha alzato l’allerta per i cittadini che si trovano all’estero: la Cia teme una vendetta contro obiettivi americani. Per Syed Saleem Shahzad della rivista web Asia Times, uno dei più grandi esperti al mondo di terrorismo islamico, al Qaida era pronta da tempo all’uccisione del leader. La controffensiva è stata messa a punto nel villaggio di Mir Ali, al bordo fra Pakistan e Afghanistan, dove i vertici della rete hanno già avuto diversi incontri. Il primo passo è colpire il Pakistan, che – secondo i qaidisti – avrebbe contribuito al raid nel quale è stato ucciso Bin Laden: Islamabad potrebbe diventare il bersaglio numero uno dei terroristi.

Il FOGLIO - Pio Pompa - " Il capolavoro americano e l’irrequietezza delle nuove generazioni qaidiste "


Pio Pompa

E’ David Petraeus, l’uomo di George W. Bush e prossimo capo della Cia, il vero deus ex machina dell’operazione che ha condotto alla individuazione del rifugio di Bin Laden e alla sua uccisione nella cittadina pachistana di Abbottabad, a 75 km da Islamabad, nel cuore della frontiera del nord-ovest considerata uno dei principali snodi logistici e organizzativi delle forze talebane. Una operazione che sancisce definitivamente, semmai ce ne fosse stato bisogno, la straordinaria efficacia del metodo Petraeus. Tale metodo applicato e perfezionato per la prima volta in Iraq, cambiando radicalmente volto e corso a una guerra che appariva impaludata e dagli esiti incerti, consiste essenzialmente nella creazione di nuclei specializzati, rigidamente compartimentati, all’interno dei quali vengono combinati e unificati in modo organico componenti di intelligence e militari, capaci di penetrare nel tessuto sociale del territorio, e con esso nei meandri del terrorismo islamista, stabilendo alleanze tattiche con interlocutori e gruppi locali assorbendoli in un sistema condiviso sia informativo che operativo. La compartimentazione dei nuclei specializzati trova poi l’indispensabile momento di sintesi a un livello più alto, dove confluiscono tutte le informazioni e vengono svolti i debriefing delle operazioni sul campo, strutturato in cabina di regia decisionale e di coordinamento strategico. Tuttavia il vero capolavoro compiuto in questo caso da David Petraeus, stressando e raffinando ulteriormente il suo metodo, è tutto racchiuso nella incredibile capacità mostrata nel: ribaltare i rapporti con i servizi segreti pachistani, pesantemente infiltrati fino ai vertici da elementi filotalebani, individuandone le articolazioni di sicuro affidamento, fidelizzandoli e fornendo loro ogni sorta di supporto sottraendoli di fatto al controllo degli organismi centrali e periferici; rompere con i suoi nuclei specializzati il muro di omertà eretto con il terrore dai talebani lungo tutta la frontiera del nord-ovest e non solo; cogliere per tempo il punto di frattura, nella galassia del terrorismo islamico, rappresentato dall’irrequietezza mostrata dalle nuove generazioni qaidiste nella loro ansia, tra passato e presente, di assumere la leadership relegando Bin Laden e al Zawahiri al ruolo di padri fondatori e di semplici icone da utilizzare, di volta in volta, per sfruttarne l’appeal mediatico. Una irrequietezza che avrebbe, come puntualmente avvenuto, allentato la monoliticità di al Qaida rendendo maggiormente penetrabile il cordone di sicurezza che aveva sinora reso imprendibile Bin Laden. Per tutto questo, che rappresenta come lo ha definito George W. Bush, complimentandosi con Obama “un successo straordinario e una grande vittoria per l’America”, David Petraeus assume un ruolo cruciale nella gestione del dopo Bin Laden. E’ indubbiamente l’uomo che meglio conosce le dinamiche interne ad al Qaida, le sue possibili reazioni e, soprattutto, quelle nuove generazioni spesso formatesi nelle università europee e statunitensi, che ne assumeranno la guida.

L'Opinione-Dimitri Buffa: " Gli Usa considerano il Pakistan come uno stato traditore "


Dimitri Buffa  Parvez Musharraf

Dopo gli stati canaglia quelli traditori. E il Pakistan, dopo l’epilogo della vicenda di Osama Bin Laden, è decisamente uno considerato tale dagli Usa. Che sono riusciti finalmente nell’impresa di uccidere lo sceicco del terrore, al netto delle modalità esatte che forse non sapremo che fra qualche decina d’anni, solo quando hanno evitato di avvertire l’Isi, cioè i servizi di sicurezza di Islamabad, di quanto bolliva in pentola. E sarà un caso che il deposto dittatore Parvez Musharraf, accusato più volte in passato di avere fatto il doppio gioco con la jihad e attualmente in predicato di venire giudicato per complicità con gli attentatori di Benazir Bhutto, parla di “ingerenza negli affari interni del Pakistan” e di “violazione della sua sovranità nazionale”? Di fatto la cittadina di Abbottabad, 150 chilometri a nord della capitale pakistana Islamabad, era il luogo scelto da Osama bin Laden per il suo ultimo rifugio. La residenza fortificata era a meno di un chilometro dall’accademia militare pakistana, dove si formano gli ufficiali di un esercito teoricamente impegnato anche nella lotta alla galassia qaedista. Inoltre la ridente cittadina è anche un posto di villeggiatura per gerarchi di regime, il che equivale a dire che è come se avessero preso Matteo Messina Denaro in una casa a Taormina. La cattura e l’uccisione di Bin Laden in territorio pakistano rivaluta anche le azioni sino a ieri assai basse del presidente dell’afghanistan Amid Kharzai. Che da tempo insisteva con gli americani indicando la luna pakistana con il dito che alcuni imbecilli a loro volta indicavano. Certo Karzai resta un uomo parzialmente affidabile, forse corrotto, sicuramente coinvolto nel traffico d’oppio. Però su bin Laden la sapeva lunga. Farzana Shaikh, un'esperta pakistana del think tank “Chatam House” a Londra, ha detto che la morte di Osama bin Laden conferma i “peggiori sospetti sulla complicità del Pakistan con il leader di al Qaida”. “Il fatto che non fosse in una gabbia – aggiunge - ma al centro di una accademia che rappresenta l'establishment militare pakistano, è profondamente imbarazzante per la leadership politica e militare del Pakistan”. E questo potrebbe spiegare anche un episodio apparentemente minore, o di contorno diciamo “culturale”, ma invece molto significativo della coda di paglia della classe dirigente pakistana: a fine ottobre quando venne al festival del cinema di Roma per presentare il film documentario sulla madre e sul complotto che ne portò all’uccisione, il figlio della Bhutto, BILHAWAL, si rifiutò categoricamente di rispondere alle domande dei giornalisti che potevano portarlo su un terreno molto scivoloso. Stessa cosa fecero i produttori del film che si rifutarono di replicare a chi scrive, anzi lo fecero in malo modo, a proposito del “lato B”, mancante nella pellicola: le complicità degli apparati statali pakistani con al Qaeda e il jihadismo internazionale. Di lì a poco i giornali stranieri, con un mese di anticipo come al solito su quelli nostrani, parlarono dell’incriminazione di Musharraf. E oggi il quadro dei sospetti è ancora più delineato. Forse manca la pistola fumante, ma poco importa. Per usare le parole di Edward Luttwak, vera e propria sibilla della geopolitica statunitense, “il fatto che Osama Bin Laden sia stato trovato in una grande casa, lussuosa per il luogo in cui sorge, in una città dove i pachistani vanno per ristorarsi e riposarsi, prova finalmente che è stato protetto dai pachistani”. E da oggi gli Usa potrebbero cominciare a stringere i cordoni degli aiuti economici con Islamabad. Dimitri Buffa

 

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