Sugli avvenimenti siriano pubblichiamo il commento di Mordechai Kedar, dal titolo " Fino all'ultimo siriano", l'intervista a Robert Kaplan, di Maurizio Molinari, sulla STAMPA di oggi, 30/04/2011, a pag.17, con il titolo "E' una nazione artificiale, se cade Damasco è il caos" e da LIBERO l'analisi di Carlo Panella, dal titolo "Mosca arma e protegge il tiranno di Damasco":
Fino all’ultimo siriano
di Mordechai Kedar
(traduzione di Angelo Pezzana)
I segnali che arrivano dalla Siria indicano che entrambe le parti, il regime e l’opposizione, hanno raggiunto un punto di disperazione tale da non poter rinunziare alle loro posizioni, non importa il prezzo che dovranno pagare. Dal punto di vista dei manifestanti, il limite delle richieste cresce man mano che aumentano le vittime: quando la protesta ebbe inizio, la richiesta era la fine della legge d’emergenza, ma ora il regime viene giudicato il vero nemico del popolo e se ne chiede la caduta. Distruggere i monumenti degli Assad- padre e figlio – insieme ai loro ritratti è diventato routine, e la gente lo fa con grande entusiasmo.
Intanto il bagno di sangue si allarga, le cento vittime di oggi sono i cento funerali di domani, ciscuno a rappresentare i morti che verranno,e così sarà dopo,con la partecipazione più forte man mano che la violenza del regime diventa più pesante.
La paura ha abbandonato entrambe le parti: la gente non teme più di scendere nelle strade e il governo senza alcun ritegno spara sulla folla. Fra le fila del regime sono sempre più frequenti coloro che se ne vanno: il Muftì di Siria si è dimesso tre settimane fa; membri del Parlamento hanno rassegnato le dimissioni in diretta su Al-Jazeera la scorsa settimana, il direttore di uno dei giornali più influenti è stato licenziato dopo che aveva criticato con cautela il governo, ufficiali dell’esercito hanno restituito la divisa in segno di protesta, soldati hanno abbandonato la loro compagnia senza restituire le armi, personaggi pubblici di rango hanno espresso in pubblico disapprovazione verso le forze di sicurezza dopo che avevano ricevuto l’ordine di sparare sulla folla.
Man mano che diminuiscono gli alleati di Bashar, più cresce la crudeltà e il senso di accerchiamento. Non combattono più per difendere il regime ma per salvare la propria pelle. Il sangue delle vittime viene lavato con quello dei combattenti in uniforme di Assad. I fedeli al regime si preparano a combattere fino all’ultimo uomo.
La città di Hama è il simbolo della rivolta del 1982 da parte dei Fratelli musulmani , che fu crudelmente soffocata con migliaia di vittime. L’invio di truppe a Dar’a è stato il segnale della rivolta del 2011. La domanda è quante migliaia di persone devono venire uccise in Siria prima che ci sia un intervento come in Libia.
Al governo d’Israele suggerisco di paracadutare medicinali sulle città siriane tramite droni anonimi, sarebbe un eccellente investimento per il futuro.
Scenari futuri possibili
1) Salvaguardia dello stato siriano con una nuova leadership
E’ possibile che ad un certo punto le alte sfere dell’esercito siriano o i capi di qualche agenzia di intelligence, capiscano che è meglio fare qualche compromesso per salvare il salvabile. Per esempio arrestando Bashar Assad con il fratello Maher e altri parenti della famiglia Makhlouf, quella della madre. Seguirà un rapido processo, nel quale verranno trattati come si aspettano i rivoltosi, il tutto per garantire l’ordine sociale. Verrànno annunciati cambiamenti nella costituzione e riforme economiche, con l’annuncio di elezioni in tempi successivi. Uno scenario simile a quello egiziano.
Se chi prenderà queste decisioni sarà un appartenente alla tribù degli Alawi , è ovvio che il popolo non lo accetterà e continuerà la protesta. Se sarà un sunnita, c’è la speranza che ci sarà un’attesa per vedere come si svilupperà la situazione, soprattutto se ci sarà una diminuzione della corruzione economica e uno stop del bagno di sangue che ha colpito i dimostgranti. L’aspetto più significativo di questo scenario è la sopravvivenza della macchina dello stato, che continui a funzionare e ad amministrare lo stato. Negli anni che verranno, ci saranno poi i cambiamenti, e chi aveva preso parte al passato regime sarà gradualmente sostituito.
Se la velocità delle riforme non soddisferà le masse, ci sarà un ritorno nelle strade, con una opposizione al regime che impedirà di governare. I dimostranti sanno di poter contare e non cederanno a compromessi, soprattutto dopo tanti morti in nome della libertà.
2) Il regime si spacca
Il governo va in frantumi se e quando fra le forze di sicurezza – esercito e intelligence – esplodono i conflitti, con il cambio di lealtà dal regime ai rivoltosi, come era accaduto in Libia e Yemen. Se le cose andranno come in Libia, scoppierà una guerra tra chi nell’esercito sta dalla parte dei ribelli e chi rimane dalla parte del regime. Se succederà come in Yemen, l’esercito si sentirà come paralizzato fra due lealtà. La Siria potrà dividersi in due parti che rifletteranno la divisione geografica delle forze in campo, con una possibile guerra fra le due parti come in Libia. Questo scenario creerà una situazione instabile poichè ognuna delle due parti continuerà ad essere guidata da militari, e i problemi fondamentali della Siria rimarranno insoluti, se non peggiorati. Il regime sarà sostenuto dall’ Iran, mentre l’Occidente starà con i ribelli.
3) Il crollo dello Stato
Se gli Alawiti perderanno la battaglia nelle strade e il controllo del Parlamento, ci sarà la loro sconfitta; le masse sunnite scatenate entreranno nei quartieri alawiti di Damasco, Homs, Hama e Aleppo, armati di coltelli, pronti a ‘tagliare teste alawite dai loro colli’. Tutti i musulmani in Siria sanno che ‘gli alawiti sono infedeli e adoratori di idoli e,come tali, da condannare a morte’. Gli alawiti si rifugeranno sulle montagne della Ansayriyyah, la terra della Siria occidentale dalla quale erano venuti, e, asserragliati, difenderanno le loro vite.
I curdi nel nord dichiareranno la loro indipendenza come hanno fatto i loro fratelli in Iraq; i drusi, a Jabal al.Driz nel Sud, proclameranno la loro autonomia che gli fu tolta dalla Francia nel 1925; i beduini a est costituiranno un loro Stato con Dir a-Zur come capitale; gli abitanti di Aleppo sfrutteranno l’opportunità di scrollarsi l’odiato giogo di Damsco. Nasceranno così sei stati dalle rovine della Siria, molto più omogenei della Siria di prima unita in un solo stato, quindi agli occhi dei suoi abitanti più legittimata. Questo richiama quanto avvenuto in Yugoslavia.
Questi sei stati non avranno bisogno di un nemico esterno, per esempio Israele, il cui ruolo permanente è stato quello di unire i popoli sotto un unico vessillo, quello del presidente. Ci sarà quindi una reale e più grande possibilità di una pace fra lo stato che è stato fondato dall’altra parte del Golan (lo Stato di Damasco ?) e Israele. E dato che questi stati non avranno buone relazioni con l’Iran, il mondo non potrà far altro che benedire questo cambiamento, che,isolando maggiormente l’Iran, avrà spezzato l’asse del male ..
Il confine ‘caldo’ con Israele
Fino al 1970, tutte le volte che il regime siriano doveva affrontare problemi interni, creava tensioni al confine con Israele per avere l’opportunità di infiammare le masse: “ I barbari sionisti vogliono distruggerci, per cui dovete mettere da parte tutti i conflitti e restare uniti sotto la protezione del salvatore, il presidente”. Questa pratica è stata seguita per trentasette anni, ma è difficile credere che venga riesumata perchè la gente non ha più alcuna intenzione di dar retta a questa storia.
Anche se il regime ha a sua disposizione esercito e polizia, non cercherà di portare un attacco a Israele, perchè Israele risponderà duramente, in particolare bloccando gli elicotteri per impedire che entrino in azione. Ciò nondimeno, nel caso di un crollo totale dell’apparato statale, qualcuno all’interno del regime siriano, potrebbe ragionare “ moriremo insieme con gli israeliani”, lanciando armi chimiche in direzione di Israele. In questo caso, potrebbe essere difficile per Israele rispondere in maniera efficace perchè non ci sarebbe nessun potere da dissuadere o da punire. Israele deve essere pronto ad uno scenario del genere, con orecchie e occhi bene aperti sulle armi di distruzione di massa nelle mani dei siriani.
La Stampa-Maurizio Molinari:" E' una nazione artificiale, se cade Damasco è il caos"-Intervista con Robert Kaplan.


Robert Kaplan Maurizio Molinari
La caduta di Bashar Assad potrebbe far riemergere le questioni irrisolte, etniche e religiose, che risalgono alla fine dell’Impero Ottomano». A parlare di «rischio di caos in Siria» è Robert Kaplan, esperto di strategia del Center for a New American Security di Washington, secondo il quale «il regime per 40 anni ha imposto un nazionalismo che ora potrebbe dissolversi».
L’uso dei carri armati può consentire a Bashar Assad di arginare le proteste di piazza?
«La Siria si trova imprigionata in una spirale di violenza. Più civili vengono uccisi dalle forze di sicurezza di Bashar Assad, più funerali vengono celebrati, più manifestazioni si moltiplicano e più la repressione continua ad aumentare per tentare di proteggere il regime. Assad sta adoperando la forza per riprendere le redini della situazione ma la Siria non è più quella del 1982».
Che cosa avvenne nel 1982?
«La strage di Hama. Hafez Assad, padre dell’attuale Presidente, usò l’esercito per schiacciare nel sangue una rivolta islamica facendo almeno 20 mila morti. Ma allora Internet non c’era e le notizie si diffusero lentamente, andando di bocca in bocca, il regime riuscì così a limitare l’impatto della strage. Oggi è tutto diverso: i morti sono molti di meno rispetto a Hama, nell’ordine delle centinaia, ma i social network e le tv satellitari hanno diffuso le informazioni con tale rapidità da far traballare il regime. Se Bashar sta tentando di ripetere ciò che fece Hafez nel 1982, rischia questa volta di far crollare il suo regime».
Che cosa potrebbe avvenire dopo?
«Nessuno può dirlo con certezza perché la Siria è un Paese con un’identità nazionale molto debole. In realtà è anche difficile definirla una nazione. Nacque infatti all’indomani della fine dell’Impero Ottomano mettendo assieme un mosaico etnico che include i sunniti della regione di Damasco, Homs e Hama, gli eretici alawiti vicini agli sciiti delle montagne del Nord-Ovest, i drusi nelle regioni del Sud e le minoranze curde, cristiane, armene e circasse. Sono queste identità che potrebbero tornare a emergere, gettando la Siria in un caos etnico e religioso dalle conseguenze imprevedibili».
Ma allora perché i manifestanti in piazza inneggiano alla Siria?
«È un risultato di quarant’anni di regime autoritario degli Assad che hanno imposto l’identità siriana come una sorta di ideologia. Ma questo regime non ha dato cibo e lavoro e dunque la gente è scesa in piazza. Se dovesse prevalere la protesta, del regime potrebbe rimanere ben poco, identità siriana inclusa».
Vede un’analogia con la frammentazione etnica dell’Iraq?
«La Siria è assai più debole dell’Iraq perché l’Iraq ha per vicini nazioni solide come l’Iran e la Turchia o ricche come l’Arabia Saudita, mentre la Siria è circondata da aree a forte instabilità come il Libano, la Giordania, lo stesso Iraq e il confine con Israele. L’instabilità irachena ha trovato nei Paesi confinanti una cornice di contenimento. Nel caso siriano questo argine non esiste, i Paesi vicini rischiano piuttosto di essere contagiati, basti pensare al Libano».
Vede un Medio Oriente in decomposizione?
«Bisogna tener presente che nell’area che va dal Mediterraneo orientale all’altopiano iranico vi sono poche nazioni davvero solide, come l’Iran, l’Oman o qualche sceiccato del Golfo Persico. Tutte le altre sono frutto dei problemi irrisolti dell’Impero Ottomano, dalle guerre tribali alle dispute etniche, a cui le potenze coloniali risposero disegnando nel deserto i confini artificiali di nuove nazioni. Così nacquero Siria, Iraq e anche la Giordania».
Quali potrebbero essere le conseguenze della ricomparsa delle etnie in Medio Oriente?
«Nessuno può dirlo, ma è un processo che può portare a ridiscutere l’esistenza di molti Stati senza storia né identità nazionale, come la Siria. È questa decomposizione che può favorire l’affermarsi di gruppi fondamentalisti religiosi».
Come spiega la cautela che dimostra Israele rispetto a quanto sta avvenendo a Damasco?
«Con il fatto che Israele si trova davanti a una situazione ambivalente: da un lato vede la possibilità di un rovesciamentodel regime arabo che più di tutti si è dimostrato un bastione dell’antisionismo negli ultimi decenni, ma dall’altro teme le conseguenze della caduta degli Assad che, in una maniera o nell’altra, hanno mantenuto una pace di fatto con lo Stato ebraico sin dal 1974. Il confine del Golan è stato fra i più stabili del Medio Oriente e a Gerusalemme temono che tutto ciò possa cambiare».
Libero-Carlo Panella:" Mosca arma e protegge il tiranno di Damasco"

Il Kremlino Carlo Panella
Ha dell’incredibile la motivazione con cui nei giorni scorsi la Russia - assieme alla Cina - ha posto il veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a una mozione di condanna e di sanzioni per le stragi di manifestanti da parte del regime siriano. Stragi che hanno fatto più di 500 morti (qualche decina ieri) e che sono molto più gravi (e documentate da molti video su Internet) di quelle che hanno motivato la guerra contro Gheddafi (di cui mai si è vista peraltro un’immagine). Secondo la Russia, l’Onu non deve prendere provvedimenti contro la repressione in atto in Siria, perché questa «non costituisce una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale mentre un’ingerenza esterna potrebbe minacciare la sicurezza dell’area». Quindi Medvedev concede all’Onu nulla più di una ipocrita «indagine conoscitiva sui fatti».Posizione cinica, a fronte del fatto che l’Onu è appena intervenuta in Libia non per difendere la sicurezza internazionale, ma per proteggere la popolazione civile. Motivazione però rivelatrice di una scabrosa continuità tra la politica di Medvedev e Putin e quella dell’Unione Sovietica, confermata peraltro dallo stesso Bashar al Assad che recentemente ha affermato: «La Guerra Fredda non è mai finita in Medio Oriente». Oggi come negli anni bui di Breznev la Siria è infatti un caposaldo della presenza politica di Mosca in Medio Oriente, che Medvedev intende difendere oltre ogni decenza, finanziando ampiamente e armando il regime baathista con sistemi missilistici, mig, carri armati e ogni tipo di armamento. Oggi come allora, l’intera presenza russa in questa strategica area del pianeta si articola sull’asse Mosca-Damasco- Iran che si è formato dopo il 1979, con la vittoria della rivoluzione khomeinista. Alleanza non solo diplomatica ma anche energetica e di potenza nucleare. Prima Putin e oggi Medvedev infatti puntano a recuperare un ruolo di potenza mondiale, proprio con la avventuristica fornitura della tecnologia e gli impianti russi con cui Teheran sta procedendo a passi rapidi verso la bomba atomica (che peraltro i russi avevano ceduto anche ai siriani, come confermano le indagini della Aiea sul sito nucleare clandestino distrutto nel 2007 dall’aviazione israeliana). Russi, sono anche i carri armati e i Mig che sparano e bombardano contro le città ribelli di Deraa, Banias e nel quartiere periferici di Damasco di Duma. Sempre di fabbricazione russa sono le armi e i lacrimogeni che le forze di sicurezza siriane hanno sparato ieri nel quartiere Qanawat di Damasco, così come a Saqba, altro sobborgo della capitale. Sempre ieri, nella città portuale di Latakia, i manifestanti hanno chiuso le strade con le barricate, attaccate poi dai militari che hanno sparato molti colpi di arma da fuoco. Ma la grande novità degli ultimi giorni è che oltre alle pubbliche e polemiche dimissioni dal partito unico Baath di due parlamentari e di centinaia di dirigenti periferici, frange dell’esercito si stanno schierando con la rivolta. Dura da due giorni a Deraa lo scontro tra la Quarta Divisione, comandata da Maher al Assad fratello del presidente e i militari della Quinta Divisione che si sono rifiutati di sparare sui manifestanti e si sono schierati armi alla mano in loro difesa. A testimoniare della gravità di questa frattura che si è aperta nell’esercito siriano concorrono peraltro le stesse cifre fornite dal regime che sostiene che ad oggi sono morti ben 78 militari e poliziotti che sicuramente non sono stati vittime di manifestanti che protestano a mani nude.
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