Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 28/04/2011, a pag. 4, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " L’Occidente non si lasci beffare dalla Siria ". Da LIBERO, a pag. 8, l'articolo di Souad Sbai dal titolo " I carri in Siria come quelli russi nella Praga ’68 ". Dal FOGLIO, a pag. 1-IV, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Frattini ci spiega perché la crisi siriana costringe l’Italia a rivedere Unifil ", a pag. 3, l'editoriale dal titolo " L’importanza di chiamarsi Assad ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " L’Occidente non si lasci beffare dalla Siria"

Fiamma Nirenstein
Mai come guardando oggi la Siria siamo stati chiamati a contemplare la nostra debolezza di fronte ai dittatori, a misurare la menzogna della Realpolitik. È il caso di citare, ebbene sì, George Bush, quando l'orrore della dittatura esclama che alla fine con i prepotenti non c'è dialogo possibile. Bush nel 2005, dopo l'assassinio di Rafik Hariri in Libano, ruppe tutte le relazioni con la Siria; intanto il Dipartimento di Stato intraprese il finanziamento dei dissidenti laici e dei loro progetti, inclusa una tv satellitare anti Assad. Ma poi è arrivata la grande presa in giro: perché Assad, come dice Fuad Ajami, ha giocato contemporaneamente al piromane e al pompiere. Ma a noi occidentali, agli USA che gli ha rispedito l'ambasciatore, all'UE che lo ha chiamato alla pace con Israele, all' ONU che lo vuol mettere nel Consiglio dei Diritti Umani, è sempre piaciuto guardare soltanto il pompiere. Solo in queste ore l'America comincia a parlare di sanzioni ad personam (poca roba), e Susan Rice fornisce uno spunto di grande momento: gli Stati Uniti sono sicuri che fra gli uomini della sicurezza che uccidono i civili siriani ci sono anche forze iraniane. L'Italia, la Francia, l'Inghilterra, la Germania e la Spagna hanno convocato gli ambasciatori siriani e l'UE per domani ha in programma una riunione per stabilire misure di punizione. La cosa più interessante sarà la riunione del Consiglio per i Diritti Umani che su richiesta di Ban Ki Moon dovrebbe a sua volta condannare la Siria. E invece in questo momento la Siria ancora è in lizza, senza che Ban Ki Moon, richiesto, abbia voluto pronunciarsi su questo orrore, per entrarne a far parte al posto della Libia. E poiché è uno dei quattro Paesi asiatici che ne hanno il diritto, se non ci sarà un veto politico la cosa è destinata a accadere proprio mentre i siriani cadono falciati dal loro regime.
L'ONU dovrebbe cercare di salvare i siriani in base allo stesso principio della ' responsabilità di proteggere' che sta alla base della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza che ha permesso la guerra a Gheddafi. Ma Robert Gates, ministro della Difesa americano insieme al suo collega inglese Liam Fox ha detto che la questione siriana è ben diversa da quella libica, e che anche se la comunità internazionale ha risposto con la forza militare a Gheddafi, non farà certo altrettanto con Assad. Un atteggiamento del genere rivela la flebilità, il disseccamento onusiano del nostro concetto di difesa della vita umana, di supporto dei diritti e della democrazia, lo stesso che abbiamo visto in Sudan o in Tibet, e spiega quanto ogni nostra risoluzione sia dovuta a motivi politici. Gheddafi è un dittatore bizzarro, la sua ferocia è indubitabile quanto i suoi non moltissimi e tuttavia utili barili di petrolio, il suo valore strategico è misero, non è un pernio di equilibri, fargli la guerra non offende nessuno al di fuori di lui. E inoltre, davvero si è smesso a sparare come un pazzo contro la sua gente e andava fermato.
La Siria è tutta un'altra storia. È il cuore del potere iraniano in Medio Oriente, il centro di movimenti terroristici micidiali, è la madre degli hezbollah, il padre di Hamas, confina con Israele cui farebbe volentieri la pelle, con l'Iraq, dove ha spedito terroristi antiamericani, con la Giordania, con cui ha rapporti difficili, di fatto seguita a occupare il Libano anche se l'ha lasciato, ha un lunghissimo confine con la Turchia che infatti è preoccupata e si rifiuta di condannare Assad. Bashar sa benissimo che la Siria sunnita, dove gli alawiti sono una piccola minoranza sciita, conserva vivissima la memoria della strage dell' 83, ventimila Fratelli Musulmani sterminati a Hama da suo padre Hafez; sa che o riusciva all'inizio a placare le acque, oppure solo i carri armati possono spianare un' opposizione che aspetta la rivincita. E così andrà avanti fino a che tutto sarà una macchia di sangue. È un'ipotesi spaventosa, ma la Siria è in ogni caso una bomba a tempo. La paura del mondo che la Siria vada in pezzi è ben maggiore della preoccupazione per la Libia di domani, e per questo si guarda e si aspetta lasciando che la gente muoia.
Per questo guardando Bashar Assad abbiamo preferito colpevolmente, in questi anni, vedere un lungagnone vestito di stoffa inglese, quasi un bravo ragazzo con la moglie affabile, che invece è un macellaio delinquente che ha già fatto ammazzare, oltretutto in gran parte da suo fratello Maher capo delle guardie presidenziali, 453 fra i suoi concittadini. È tempo che stabiliamo infine quanto vale la religione occidentale dei diritti umani, ma prima degli spari, sin dall' inizio quando ancora possiamo farla valere.
www.fiammanirenstein.com
LIBERO - Souad Sbai : " I carri in Siria come quelli russi nella Praga ’68 "

Souad Sbai
Il clamore che ha suscitato la decisione italiana di partecipare ai bombardamenti in Libia ha fatto sì che sul dramma siriano calasse ancor di più il silenzio. Un silenzio tombale, visto che Damasco è chiusa in una morsa letale. Da una parte la repressione devastante di Assad, dall’altra l’ancor più odioso laissez faire della comunità internazionale. In attesa della decisione del Parlamento di ratificare l’adesione al bombardamento in Libia, sebbene non si sappia bene chi si va a colpire, in Siria il massacro continua,mal’attacco occidentale non è nemmeno in questione. I perché sono molti, ma uno in particolare è evidente ai più: la vicinanza degli Assad con il potente e temuto Ahmadinejad, che potrebbe reagire a un attacco alla Siria. Il popolo siriano è maturo per liberarsi dall’oppressio - ne eppure nessuno pare disposto a dargli una mano, se non con sterili parole di sostegno. Dunque la comunità internazionale si guarda bene dall’attaccare Damasco per timore di ripercussioni iraniane? Probabilmente sì, visto che al momento si parla solo di sanzioni contro Assad. L’inganno alla fine emerge e intanto il popolo siriano continua a morire. Torna alla mente la Praga del 1968, con il rombo dei tank sovietici a stroncare l’aspira - zione alla libertà del popolo cecoslovacco. Un rombo che oggi scuote drammaticamente Damasco. Mentre, nel marasma generale, l’avanzata estremista prosegue silenziosa, cosa testimoniata dalle rivelazioni di Wikileaks sulla provenienza del capo dei rivoltosi libici di Derna, Abu Sufian bin Qumu, terrorista uscito da Guantanamo, dove era recluso per legami con Al Qaeda, e subito catapultato in Libia a dirigere la rivolta. Cosa conta allora di più? La vita dei civili massacrati in Siria oppure gli interessi alla base dell’intervento Nato? Può la logica della geopoliticapermettere chel’estremismo faccia tanta strada, arrivando al punto di far finta di niente davanti al patto sanguinario fra Iran e Siria? Fiumi di inchiostro e migliaia di parole sono state spese finora, ma nessuno si è accorto del movimento interno che si sta sviluppando, in Europa e in Italia, sulla scia del lassismo generato dalla situazione odierna. Un movimento che ha permesso, sotto i nostri occhi, che venerdi 22 aprile si svolgesse a Piazza Venezia una preghiera di protesta contro le autorità italiane, ree di non lasciar libera l’apertura di nuove moschee. Un evento inaccettabile, non nella legittimità ma nel merito e nelle modalità, indebita occupazione territoriale raccontata coraggiosamente solo da Andrea Morigi. Mentre Libia e Siria, dunque, vivono destini differenti e difficili, l’estremismo conquista terreno e mette radici pericolose, con la promessa di chiedere il conto per il confino cui è stato relegato finora. E non ci sarà altra difesa se non la crescita dei moderati, che oggi sono l’unico baluardo possibile contro un radicalismo che marcia a pieno regime, forte di un silenzio che da Washington a Damasco offusca la mente di tutti.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Frattini ci spiega perché la crisi siriana costringe l’Italia a rivedere Unifil "



Carlo Panella Franco Frattini Unifil
Roma. Intensi contatti segreti con Muammar Gheddafi per una sua uscita soft e contrattata – seccamente respinti dal colonnello libico; iniziativa franco-italiana per sanzioni dell’Unione europea contro i dirigenti del regime di Damasco – “anche se parenti di Bashar el Assad” – e soprattutto la decisione di riprendere in mano la presenza in Libano con Unifil: “Se non è più utile, sgomberiamo; se è utile adeguiamo il mandato”. Ecco l’agenda sulla crisi araba del ministro degli Esteri, Franco Frattini. A chi contesta una posizione ondivaga del governo sulla crisi libica, il ministro ricorda che le crisi o sono traumatiche e sussultorie o non sono tali, e che le risposte vanno continuamente adeguate. Ma soprattutto ricorda che nella crisi araba il punto di riferimento del governo è sempre stato l’interesse nazionale a tenere l’Italia al tavolo della definizione dei nuovi assetti non soltanto della Libia, ma di tutto il nord Africa. E’ una banale verità che troppo spesso si sottovaluta a sinistra e a destra, ma il peso diplomatico di una nazione è direttamente proporzionale al suo impegno militare, soprattutto quando richiesto dall’Onu e dalla Nato. Ma il punto di svolta per la decisione di impegnare la nostra aviazione nei bombardamenti è venuto quando Abdul Jalil, presidente del Consiglio nazionale provvisorio, ha capovolto durante la sua visita a Roma l’impostazione del nostro governo che riteneva scabroso un nostro impegno bellico, a causa del nostro passato coloniale: “Ho sentito Jalil dire – ricorda Frattini – con voce commossa, a Silvio Berlusconi e a Giorgio Napolitano: ‘Noi affidiamo a voi la difesa della vita delle donne e dei bambini di Misurata, Ajdabiya e delle altre città assediate; è vostra responsabilità decidere, di fronte al vostro passato, se difenderli o no’; un appello, si badi bene, che viene proprio da quella Cirenaica che soffrì il peggio della guerra coloniale e per di più è fatto proprio dal figlio di Omar al Mukhtar, il capo della resistenza libica, che ha abbandonato Gheddafi e appoggia il Consiglio; da qui la decisione di colpire dall’aria i carri armati che bombardano le città libiche”. Un peso rilevante nell’evoluzione della posizione italiana è stato giocato anche dall’esito sconfortante dei contatti che la Farnesina e Palazzo Chigi hanno avuto col governo di Tripoli. “Gheddafi ha risposto con iattanza a tutti i messaggi che gli abbiamo fatto pervenire – dice Frattini – prima attraverso l’allora potentissimo Musa Kusa e poi attraverso il primo ministro al Baghdadi al Mahmoudi, per delineare una sua uscita di scena morbida e contrattata. Lo stesso presidente Jean Ping mi ha detto del suo sconcerto quando Gheddafi ha apostrofato la delegazione della commissione dell’Unione africana da lui presieduta a Tripoli con una reprimenda fuori dalle righe per non aver sostenuto la sua persona come avrebbero dovuto”. Capitolo Siria: “Il governo italiano ha concordato con Nicolas Sarkozy che Italia e Francia, al Consiglio europeo di maggio, proporranno dure sanzioni mirate contro i responsabili militari e dei servizi di sicurezza delle stragi delle settimane scorse e certo non ci fermeremo di fronte al fatto che questi possano essere il fratello o il cugino o il cognato dello stesso Assad. Nessun doppio standard rispetto alla crisi libica, anche se a oggi è evidente un decorso diverso”. La crisi siriana può avere un impatto enorme sulle decisioni di Hezbollah (e di Hamas) e quindi concerne ormai direttamente la missione Unifil in Libano: “Il ruolo che la Siria ha giocato, gioca e giocherà con Hezbollah fa ormai venire meno una – ripeto, ‘una’ – delle ragioni importanti della missione Unifil; per un apparente paradosso, se Hezbollah si sentirà indebolito a causa del venir meno della forza della ‘copertura’, dell’armamento e del ‘padrinato’ siriano, può diventare più aggressivo, può andare fuori controllo e, se questo accadrà, dovrà cambiare il mandato di Unifil. Se Unifil non è utile, sgombriamo; se è utile, va aggiornato il mandato a un’evoluzione di una crisi il cui end game non è ancora chiaro. Di queste analisi, di questi scenari e di queste decisioni investiremo il Consiglio supremo di difesa e il presidente della Repubblica. Ne parlerò con fermezza anche nel Consiglio dei ministri degli Esteri dell’Ue di metà maggio. Unifil, che ha svolto bene il suo ruolo di decantazione della crisi dopo il 2006, può – ma non è una decisione facile e scontata – essere un eccellente deterrente anche a fronte di una nuova crisi nella regione, ma non certo in base al dispositivo della risoluzione 1.701. Deve essere comunque chiaro che anche se la crisi siriana non influenzasse il Libano – come però temo che farà – il nostro impegno in Unifil, come ha già deciso il governo, diminuirà sensibilmente, in raccordo con gli alleati. Anche perché la Spagna, che ha rilevato il comando dal generale Graziano, contrariamente alla prassi non ha aumentato il numero dei suoi militari; ne prendiamo atto e ci comporteremo di conseguenza”.
Il FOGLIO - " L’importanza di chiamarsi Assad "

Barack Obama
La Siria ha un lasciapassare speciale che le permette di essere accettata nei palazzi di Washington, nonostante tutto. Damasco reprime a colpi di pistola le manifestazioni, fa sparire quotidianamente ribelli dalle strade, se la intende con Hezbollah, ha fatto da rifugio agli uomini di al Qaida diretti in Iraq, mercanteggia sospettosamente in Libano – che rivendica come parte della “Grande Siria” – e lo spirito alawita della casa Assad riverisce in tutti i modi il suo storico protettore, l’Iran, ma tutto questo non basta a scatenare nemmeno un decimo delle reazioni americane verso un Gheddafi, rais genericamente inviso ma tutto sommato lontano dagli interessi dell’America. Bashar el Assad è molto diverso dal colonnello. A Washington il presidente siriano ha amicizie che reggono anche agli urti ufficiali, tipo i sei anni in cui l’America non ha avuto un ambasciatore in Siria, e coltivano per suo conto l’immagine di leader riformista e alleato utile presso i piani alti dell’Amministrazione. L’ex speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha detto nel 2007 che “la strada di Damasco è una strada di pace”, l’ex segretario di stato James Baker è un grande promotore dell’amicizia siriana e così anche i senatori Chuck Hagel e John Kerry (un repubblicano e un democratico), che due anni fa hanno scritto un editoriale dal titolo chiaro: “E’ tempo di parlare con la Siria”. Il Wall Street Journal chiama questa rete trasversale di amicizie la “Syria Lobby”, per fare il verso alla “Israel Lobby” descritta dai professori Walt e Mearsheimer; i suoi avvocati non credono che Assad sia un sincero riformista, ma che per lo meno ci si possa trattare, lo si possa comprare e che quindi si possa chiudere un occhio sul trattamento brutale che sta riservando al suo stesso popolo. Per giustificare il salvacondotto morale di Damasco, la lobby usa il solito ricatto: chiunque verrà dopo sarà peggio, quindi tanto vale tenersi questo regime, magari imporre qualche sanzione – linea che si sta affermando al Tesoro – e chiuderla per sempre con la storia che la Siria è nell’asse del male. Così dicono i protettori di Assad mentre i suoi uomini in piazza prendono a rivoltellate le legittime richieste di libertà che Washington dice di sostenere.
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