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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Libero-Il Giornale-IlSole24Ore Rassegna Stampa
24.04.2011 Stragi in Siria, l' Europa tace e gli Usa continuano a non capire niente
Articoli di Carlo Panella, Gian Micalessin, Ugo Tramballi, Mario Platero

Testata:Libero-Il Giornale-IlSole24Ore
Autore: Carlo Panella, Gian Micalessin, Ugo Tramballi, Mario Platero
Titolo: «Stragi in Siria, ma l'Europa tace- La Siria non è la Libia, i massacri di Assad non indignano nessuno-In Siria la polizia spara sui cortei dei funerali-Per gli Usa la caduta di Assad arginerà le mire di Teheran»

Mentre l'Europa tace sui massacri che avvengono in Siria, solo LIBERO (pag.1/15) e il GIORNALE (pag.12) chiariscono con accuratezza colpe e responsabilità. Nessun altro osa mettere in questione la politica americana e quella europea, fino a ieri schierate dalla parte del regime di Assad, preoccupate soltanto a fare pressioni su Israele affinchè cedesse il Golan, come se da questo dipendessero pace e guarra in Medio Oriente. Una cecità che però i nostri giornaloni si guardano bene dallo smentire, come fa, per esempio, pur attraverso una innegabile critica per le stragi commesse, anche Ugo Tramballi sul SOLE24ORE,(pag.6), che solo oggi si accorge che il problema è la Siria, non Israele.  Così come sui rapporti tra Iran e Siria, la critica all'amministrazione Obama è cauta, ipocrita, come si vede nel pezzo di Mario Platero sul SOLE24ORE,(pag.6), che riporta le affermazioni di Obama, piene di inutile retorica, quando sarebbe ora di indicare nel presidente americano uno dei massimi responsabili del caos, politico e diplomatico nel quale ci troviamo oggi.
Resta da sottolineare l'imbarazzo, sempre più evidente, dei giornali della sinistra, MANIFESTO e UNITA' in testa, che non sanno più cosa inventare per tentare di nascondere quello che oggi è evidente anche ai ciechi: sono gli stati arabi il problema, non Israele, come questi disinformatori avevano sempre propinato ai loro lettori.
Ecco gli articoli citati:

Libero-Carlo Panella: " Stragi in Siria, ma l'Europa tace "

 La strage di 112 manifestanti abbattuti sull’asfalto dalle truppe speciali di Maher al Assad venerdì scorso e della decinadi vittime durante i funerali di ieri indicano qualcosa di ben più grave di una ferocia repressiva siriana che non ha nulla da invidiare a quella di Muammar Gheddafi.Questa mattanza ha arrossate le piazze di una decina di città (Deraa, Latakia, Qhamsili, Homs, Homa ecc.) e a Duma, sobborgo popolare di Damasco, proprio il giorno dopo la “grande riforma”promessa dal presidente Bashar al Assad: il ritiro delle Leggi di emergenza in vigore dal 1963. Reprimere nel sangue la protesta popolare con maggior ferocia ancora, dopo che si sono ritirate le Leggi di emergenza ha infatti un inequivocabile significato: lancia alla Siria e alla comunità internazionale un segnale netto: il regime baathista siriano non intende minimamente intraprendere una pur lenta strada verso la democrazia ed è fermamente intenzionato a reprimere con la ferocia di sempre ogni manifestazione di dissenso, ogni mobilitazione popolare che chieda libertà. Le manifestazioni contro il regime ormai si svolgono ovunque in Siria–tranne che nel centro di Damasco, unica cittadella fedele al regime – da ormai cinque settimanee sicuramentecontinueranno nelle prossime, perché il movimento siriano dimostra la stessa – se non maggiore – capa - cità di tenuta e mobilitazione di quello tunisino, egiziano, libico e yemenita. Barack Obama, Nicolas Sarkozy, David Cameron e tutti i governi europei devono prendere atto di questa pervicace strategia liberticida da parte di quel Bashar al Assad che negli ultimianni avevanostranamente giudicato «un riformista», comeha incredibilmente affermato al Congresso Hillary Clinton (questo, dopo che a Deraa gli scherani del regime avevano già ucciso fuori da una mosche un centinaio di persone, donne, vecchi e bambini inclusi).
Raìs onorato
In particolare, Nicolas Sarkozy deve ora spiegare al mondo il suo incredibile gesto di due anni fa, quando – tra le proteste indignate dei suoi generali e di Jacques Chirac –invitò Bashar al Assad ad assistere al suo fianco sul palco d’onore degli Champs Elisées alla parata del 14 luglio. Omaggio ben più alto, e quindi più grave, di tutte le attenzioni ricevuteda MuammarGheddafia Roma e anche a Parigi (dove lo stesso Sarkozy lo portò a una battuta di caccia al fagiano, scoprendo peraltro che il raìs ha una pessima mira). Il presidente francese deve fare ammenda di quel suo – enne - simo – errore di valutazione e comprendere che quell’alleato a cui ha riservato un così eccezionale onore, altri non è che un dittatore spietato, alla pari, se non peggio di Gheddafi.
Solo parole
In questi giorni la Casa Bianca, l’Eliseo, Downing Street e anche la Farnesina non hanno lesinato note di protesta verbali contro gli «ignobili» massacri sulle piazze siriane. Ma si sono fermati a questo. Nessuno ovviamente può pensare alla ripetizione di uno schema “libico”.È quindi oggi indispensabile, pegno l’onta e la vergogna, che gli Usa, l’Europa e il mondo libero facciano giungere al popolo siriano che tenta di conquistare la sua libertà, un segnale chiaro di rottura dei rapporti con un regime che lo opprime e si macchia di crimini infami. Non è difficile farlo, senza impantanarsi in una nuova demenziale avventura militare, è sufficiente che il Consiglio dell’Onu deliberi che Bashar al Assad e tutta la sua cricca di parenti-assassini non possano più recarsi all’estero, quali “personae non gratae” e che si congelino tutti i beni all’estero della famiglia Assad e dei suoi accoliti. Infine, ma non per ultimo: la crisi siriana sta già tracimando con la forza di un lento tsunami sul Libano, da anni tornato a essere provincia di Damasco. È più che prevedibile che da qui a poco lo schieramento libanese anti siriano che fa capo a Saad Hariri verrà ai ferri corti con il fronte avverso capeggiato da Hezbollah. Anche perché l’Arabia Saudita, che spalleggia il movimento di Saad Hariri, è ben cosciente di un elemento che le cancellerie occidentali faticano ad afferrare: la crisi del regime siriano è la prima rivolta araba che contrasta duramente e direttamente gli interessi dell’Iran. Ryad, dunque, farà di tutto per destabilizzare al massimo sia il Libano che la Siria, nel tentativo non impossibile di portarla sotto la sua sera di influenza (ambizione ormai secolare). Ahmadinejad ha salutato con gioia la caduta di Ben Ali e di Hosni Mubarak, ma sa bene che se ora cadesse il regime del suo fido alleato Bashar al Assad, la potenza regionale dell’Iran riceverebbe un colpo durissimo.
Traffici d’armi
Anche perché verrebbe a mancare lo snodo sicuro di una Damasco che serve da intermediaria per tutte le operazioni sporche (fornitura di missili, armi e finanziamenti per Hamas e Hezbollah) e per bypassare con “triangolazioni” l’embargo economico che interessa l’Iran (ma non la fida Siria).

Il Giornale-Gian Micalessin: " La Siria non è la Libia, i massacri di Assad non indignano nessuno "

Se i 120 dimostranti siriani am­mazzati nelle ultime 48 ore vi sem­bran pochi aggiungeteci quelli ca­duti dal 18 marzo in poi. In totale fan quasi 400 vittime. Un’ecatom­be, un mattatoio in piena regola, una strage con i fiocchi. Ma al mon­do c’è massacro e massacro. Per quelli commessi dal diavoletto Muammar Gheddafi si bombarda la Libia e s’invoca la necessità di un rapido cambio di regime. Per i cadaveri ammassati dal ragazzot­to Bashar al Assad si preferisce in­dugiare, attendere, tergiversare. Per Gheddafi il presidente Barack Obama ottiene, con l’appoggio di Parigi e Londra, prima le sanzioni e poi il voto della risoluzione Onu sulla “no fly zone”.Per Assad il pre­sidente Nobel per la Pace e gli altri interventisti di Libia continuano ad accontentarsi d’una condanna energica, ma pur sempre verbale. È la legge del sangue. Sangue pre­zioso se a spargerlo c’è un Belzebù da operetta seduto su un mare di petrolio, ma in fondo estraneo alla grande trame della geopolitica in­ternazionale. Sangue di seconda classe se a spargerlo ci pensa l’ere­de di un dittatore che da 11 anni approfitta dell’abusata fama di ri­formista “ in pectore”per tessere in­trighi internazionali al fianco di Teheran e Hezbollah ed eliminare nemici e oppositori.
Chiamatela se volete legge della complessità. Applaudire la fuga di un cleptocrate come Ben Ali in una Tunisia pronta ad autoriformarsi è facile. Salutare la caduta di farao­ne senescente come Hosni Muba­rak può rientrare nell’ordine natu­rale delle cose. Cercare di far fuori un dittatore eccentrico e detestato come Gheddafi può sembrar fac­cenda da poco. Ma la grana Assad è tutt’altra cosa. La Siria è il vero ginepraio del Medio Oriente. È una nazione a maggioranza sunni­ta governata da un presidente alawita, figlio di una setta islamica che rappresenta meno del 5 per cento della popolazione, ma vie­ne, per convenzione politico reli­giosa, assimilata al grande scisma sciita. È un Paese dove, nonostan­te l’alleanza con l’asse iraniano, i gruppi salafiti e i fratelli musulma­ni contano su consensi diffusi e ra­dicati che superano­in certe regio­ni - il 50 per cento. Cercare di rove­sciare Bashar e la gang di generali ereditati da papà Hafez significa in­somma scoperchiare un vaso di Pandora di cui nessuno conosce la reale entità.
Anche perché l’inconsistente po­litica dell’amministrazione Oba­ma in Medio Oriente, i falliti tenta­tivi di dialogo con Teheran,
il disin­teresse per un Libano regalato a Hezbollah e la passività esibita di fronte al destino di un alleato co­me Mubarak spingono l’Arabia Saudita a muoversi fuori dal con­trollo dell’alleato americano. Do­po aver mandato le truppe a seda­re la rivolta sciita in Bahrein, la cor­te di Riad sta ora alimentando e ar­mando­la rivolta dei fondamentali­sti sunniti in Siria. E così il perenne­mente incerto presidente Obama fa i conti con l’ennesimo dubbio co­smico. Favorendo le trame saudite e accelerando la caduta del regime non rischia soltanto di favorire un affermazione fondamentalista, ma anche di spingere all’interven­to in difesa di Assad l’Iran e il Parti­to di Dio libanese. Rischia insom­ma d’innescare un conflitto capa­ce di incendiare l’intero Medio Oriente e bloccare gli approvvigio­namento energetici dell’Occiden­te.
Ma anche ipotizzando una com­passata indifferenza iraniana c’è poco da star tranquilli. L’avvento di un regime fondamentalista sun­nita a Damasco rischia di riaprire quel conflitto del Golan con Israe­le che sia Bashar al-Assad sia il pa­d­re Hafez si sono sempre ben guar­dati dal riaccendere. E proprio que­sto spiega il riflessivo silenzio con cui anche Israele osserva le pertur­bazioni siriane. Sull’altalena del­l’incertezza si muove anche Anka­ra, preoccupata dall’idea che il de­stabilizzato territorio siriano pos­sa offrire rifugi e nuove opportuni­tà all’insurrezione curda. Preoccu­pazioni quasi speculari per il vici­no Irak dove i gruppi qaidisti po­trebbero approfittare delle turbo­lenze siriane per ampliare ed esten­dere la propria sfera d’azione.
E così di fronte agli incubi del gi­nepraio siriano tutti dimenticano le nobili dichiarazioni d’intenti con cui si auspicava la rimozione del tiranno Gheddafi. Primo fra tut­ti quel segretario di Stato Hillary Clinton che in un’intervista televi­siva di qualche settimana fa ribadi­sce - a stragi già avviate - la «diffe­renza » del presidente Bashar difen­dendone una già stantia ed abusa­ta indole «riformista».

IlSole24Ore-Ugo Tramballi: " In Siria la polizia spara sui cortei dei funerali "

Può un regime massacrare fra 72 e 90 persone - sono le stime delle organizzazioni umanitarie - e il giorno dopo continuare a governare? Evidentemente sì, il Governo siriano fa anche di più: ieri ha ripreso a sparare sulla gente e ad ammazzare come aveva fatto venerdì. Forse altri 13 morti e una quarantina di feriti, è il bilancio provvisorio.

Come si ripete da cinque settimane, da quando la Primavera araba è arrivata anche in Siria, dopo il venerdì della preghiera, delle grandi manifestazioni e dei morti, viene il sabato dei funerali. Occasione anche questa per altre dimostrazioni e altre vittime. La stima dei morti di ieri è ufficializzata anche dalla Tv di Stato che ha la sua versione dei fatti: una banda armata ha preso d'assalto una caserma fuori Damasco, fra le vittime ci sono soprattutto soldati. Non solo. Le forze di polizia hanno sequestrato telecamere con false immagini dei presunti massacri di venerdì. Di più. Sono stati anche arrestati alcuni uomini che avevano con sé bottiglie piene di sangue, usate per rendere più credibile le finte immagini delle violenze. Come sul set di un film western.
Quando un regime arriva a questo, forse ha raggiunto un punto di non ritorno. Gli scricchiolii hanno spinto due deputati a lasciare i loro seggi nel bel Parlamento di Damasco, fatto di legno intarsiato e madreperla. «Dopo aver fallito nel proteggere i miei figli dai perfidi colpi» della polizia, «non c'è ragione per me di restare seduto in Parlamento», ha spiegato Naser al-Hariri. Lui e l'altro deputato che ha dato le dimissioni, Khalil al-Rifaei, sono di Deraa, la città dove è nata la protesta e dove continua ogni giorno. Dimettersi per loro era ormai un obbligo. Ma ad andarsene è anche il muftì Rizk Abdel Rachman Abasid, la più alta autorità sunnita di Deraa, che era stato nominato a quella carica dal ministero per gli Affari religiosi.

Dopo il grande massacro di venerdì, il peggiore da quando sono iniziate le proteste, l'altra notte finalmente ha parlato l'amministrazione americana, seguita dal Governo francese e da Ban Ki-moon, il quale chiede per conto dell'Onu un'indagine indipendente che ricostruisca gli avvenimenti. I libanesi ancora aspettano di conoscere come sono andate le cose con l'omicidio del loro ex premier Rafik Hariri, 2005, e di un'altra ventina di noti anti-siriani.

Nella sua dichiarazione Barack Obama naturalmente chiede che cessi «lo scandaloso uso della violenza». Ma soprattutto accusa la Siria di cercare «l'assistenza iraniana per reprimere i cittadini siriani». Forse il presidente americano sa qualcosa che altri non conoscono delle strette relazioni fra Damasco e Teheran.
Diversamente dagli altri Paesi della regione fino ad ora investiti dalla Primavera araba, eccetto il Bahrain, la caduta del regime in Siria non sarebbe un avvenimento circoscritto alle sue frontiere. Bashar Assad e l'apparato militare che sorregge il sistema, sono gli unici sostenitori arabi dell'espansionismo iraniano nella regione. E alla Siria si affida il partito sciita di Hezbollah in Libano: come copertura politica e come arsenale militare. Senza il regime di Damasco che arma direttamente o consente il transito delle armi iraniane, la milizia di Hezbollah più potente dell'esercito libanese, smetterebbe di essere un fattore determinante nella regione: capace di controllare la vicenda politica interna in Libano e di minacciare la sicurezza di Israele. Senza Hezbollah anche Hamas a Gaza diventerebbe più debole. Ultima dose di dinamite sul fuoco, fra qualche settimana il Tribunale speciale internazionale per l'omicidio Hariri dovrebbe formalizzare le sue accuse contro Hezbollah.

Per questo l'amministrazione americana e il resto della diplomazia occidentale erano state molto caute sulle proteste siriane. Il crollo del regime non è solo una questione di democrazia a Damasco: avrebbe un effetto domino riguardo al quale nessuno aveva incominciato a prepararsi.

IlSole24Ore-Mario Platero: "Per gli Usa la caduta di Assad arginerà le mire di Teheran"

Con l'assedio sempre più aggressivo del regime siriano, l'amministrazione Obama è giunta all'appuntamento strategico più importante e complesso nella marcia per assecondare le rivendicazioni democratiche del popolo arabo. Per Washington la Siria è la tappa intermedia, una delle ragioni per cui si è intervenuti in Libia e si è tenuta la barra dritta in Egitto, Tunisia e Yemen. Una possibile caduta del regime di Assad infatti, non avrà solo ripercussioni interne a Damasco, ma cambierà l'intero assetto di un fronte, quello siriano/iraniano, ostile all'Occidente.

La conseguenza più diretta di una caduta di Assad e della nascita di governo democratico? La chiusura della porta d'accesso dell'Iran al Libano e al Mediterraneo e, quel che più conta, a Hezbollah e Hamas. Il paradosso è che questo avverrebbe quando Hezbollah è più forte. Ma anche quando il gruppo estremista islamico si accorge che governare a Beirut è più difficile di quel che potesse pensare la sua leadership. Tagliare il cordone ombelicale di Hezbollah e Hamas con l'Iran avrebbe dunque un impatto diretto sullo scacchiere mediorentale, sul dialogo fra Israele e palestinesi, sul ridimensionamento possibile del potere di Hamas a Gaza. Ma c'è anche il messaggio soft: se la protesta siriana avrà successo, galvanizzerà la protesta iraniana che «esploderà fra qui e i prossimi sei mesi al massimo». Secondo un consigliere molto vicino a Obama, profondo conoscitore della regione, il contesto degli eventi di queste settimane è più ampio: per la Siria la partita non sarà necessariamente facile, a differenza dell'Egitto le forze armate siriane sono divise almeno in tre fazioni. Una caduta del regime, che fa da collante, potrebbe scatenare una guerra civile e non incoraggiare necessariamente un cambiamento di uomini e di mentalità.
Ma la scelta americana resta quella di tenere la linea del rigore. L'altra sera Obama ha detto: «Gli Stati Uniti continueranno a difendere le aspirazioni democratiche e i diritti universali cui tutti gli esseri umnai hanno diritto, in Siria e in tutto il mondo». Una spinta per gli insorti siriani (ma anche per quelli iraniani) verrà da una rapida conclusione dell'impasse libico. L'esercito libico non è quello iracheno e la partita potrebbe davvero chiudersi in pochi giorni con la cattura o l'esecuzione di Gheddafi. Il presidente dovrebbe decidere sapendo che il rischio sarà quello di dimissioni del segretario al Pentagono Bob Gates.

La lezione libica tuttavia ha avuto anche un impatto negativo. Gheddafi in un accordo con l'Occidente aveva rinunciato a cercare di dotarsi di armi nucleari. Il suo assedio dimostra ai realisti nel mondo islamico che se avesse avuto armi nucleari forse non si sarebbe trovato in stato di assedio da parte delle truppe alleate. Tra le conseguenze c'è che il Pakistan sta accelerando il rafforzamento del suo arsenale nucleare. È già la quinta potenza nucleare, entro breve potrà diventare la quarta scalzando la Francia (le altre sono nell'ordine Stati Uniti Russia e Cina). L'Iran sta freneticamente accelerando i suoi progetti per armi atomiche e l'Arabia Saudita ha cominciato a perseguire progetti analoghi con altrettanta rapidità. Una ragione in più per auspicare che la regione araba si apra: meglio la democrazia che restare ostaggio di dittatori o peggio, di estremisti islamici.

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