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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Repubblica - Il Giornale - Il Foglio Rassegna Stampa
14.04.2011 Rivoluzioni in Medio Oriente, è tutto come prima. Anzi, peggio.
Analisi di Fiamma Nirenstein, Fausto Biloslavo. Cronaca di Redazione di Repubblica

Testata:La Repubblica - Il Giornale - Il Foglio
Autore: Redazione di Repubblica - Fiamma Nirenstein - Fausto Biloslavo
Titolo: «E il premier gela Israele e la Giordania: Rivedere tutti gli accordi sul gas - La rivoluzione in Medio Oriente? È tutto come prima. Anzi peggio - Così l’intervento della Nato ha peggiorato la guerra civile libica»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 14/04/2011, a pag. 17, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " La rivoluzione in Medio Oriente? È tutto come prima. Anzi peggio ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'analisi di Fausto Biloslavo dal titolo " Così l’intervento della Nato ha peggiorato la guerra civile libica ".

A conferma di quanto scrive Fiamma Nirenstein, facciamo precedere i due pezzi dalla breve dal titolo " E il premier gela Israele e la Giordania: Rivedere tutti gli accordi sul gas " pubblicata da Repubblica, a pag.17.
Ecco i pezzi:

La REPUBBLICA - " E il premier gela Israele e la Giordania: Rivedere tutti gli accordi sul gas "


Essam Sharaf, primo ministro egiziano

IL CAIRO - L´Egitto rivedrà tutti gli accordi sul gas, compresi quelli con Israele, conclusi dall´ex presidente Hosni Mubarak, e molto criticati dall´opposizione. Lo ha deciso il primo ministro egiziano Essam Sharaf che «ha ordinato di rivedere e riesaminare gli accordi sul gas dell´Egitto con tutti i paesi, compresi quelli con Giordania e Israele. La revisione degli accordi potrebbe consentire «un aumento dei guadagni compreso tra i 3 e i 4 miliardi di dollari». L´Egitto fornisce il 43% del gas naturale usato in Israele, soprattutto per le centrali elettriche.

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " La rivoluzione in Medio Oriente? È tutto come prima. Anzi peggio "


Fiamma Nirenstein

Tutte le grandi rivoluzioni, quella francese, quella americana, quella russa, quelle nazionali, ol­tre che sul sangue degli eroi nasco­no su pile di libri, sulle parole dei filosofi e dei grandi leader. Natural­mente a noi occidentali le rivolu­zioni piacciono molto, sono i moto­ri, le levatrici della nostra storia. E forse questo ci porta a fare pesanti errori nella valutazione dell'im­menso spettacolo cui assistiamo oggi, della piazza araba in fiamme, dello spettacolo estetico e morale dei moti mediorentali e nordafrica­ni. Noi, pensando che ne nasca de­mocrazia e pace, l'abbiamo chia­mata «primavera», e non c'è parola più ricca di gemme. Ma il Nuovo Medio Oriente è ancora una volta da rimandare. Non si vede né mag­giore libertà né una sistemazione internazionale vantaggiosa per la pace. Tutt'altro.
In Egitto il nuovo potere militare ha represso il popolo in piazza Tahrir proprio come quello vec­chio.
Il 77 per cento della popola­zi­one ha votato per una riforma co­stituzionale disegnata dai Fratelli Musulmani che, con travestimenti tolleranti destinati a sfiorire, si avvi­cinano al potere. Il governo provvi­sorio, e questo è uno dei peggiori guai in vista, sta approntando un trattato di amicizia con l'Iran. In­tanto ha smesso di costruire il mu­ro con Gaza che impediva il passag­gio di armi e uomini di una pedina base dell'Iran, Hamas; non c'è for­za politica che, in vista delle elezio­ni, non annunci un ridimensiona­mento della pace con Israele, e i Fratelli Musulmani hanno dichia­rato che «dato che Israele in Medio Oriente lo odiano tutti, deve spari­re ».
Il trattato con l'Iran è conseguen­za­della distruttiva debolezza ame­ricana: quando era in corso la rivo­luzion­e liberale contro il regime de­gli ayatollah nel 2009 Obama si mo­strò indifferente, e dette a Ahmadi­nejad la sensazione di poter fare tutto quello che gli pare sia nel cam­po della costruzione del nucleare che dei diritti umani. E così è stato. L'Iran ha approfittato della parali­si americana per rilanciare il pro­gramma nucleare vantandosene, ha ottenuto dall'Egitto il passaggio nel Mediterraneo attraverso il ca­nale di Suez, cosa mai avvenuta pri­ma. Proprio davanti alle coste di Israele, e adesso costruisce una ba­se iraniana permanente sulla co­sta siriana. L'Iran ha in mano il Li­bano, con i missili degli Hezbollah puntati su Tel Aviv, e Gaza, dove Hamas lavora al nuovo rapporto con l'Egitto, puntando sui suoi so­dali Fratelli Musulmani. El Bara­dei, candidato laico alla presiden­za: ha dichiarato che se Israele do­vesse attaccare Gaza, l'Egitto scen­derebbe in guerra al fianco di Ha­mas! La novità in vista è dunque un' alleanza fra Iran e i Fratelli Musul­mani egiziani per una guerra a Isra­ele imperniata su Hamas, mentre dal Libano Hezbollah è pronto e agli ordini degli ayatollah.
Hamas dà pensiero anche al re giordano Abdullah, dato che nel suo Paese il 75% della popolazione è palestinese, e fra questi una buo­na parte è integralista. Abdullah sa che potrebbe distruggere la dina­stia ashemita. Con una lettera a Bashar Assad, il rais siriano asse­diato da una rivoluzione che ha già avuto i suoi 200 uccisi dal regime, propone un'alleanza riformatrice e si riferisce a Israele, nonostante il trattato di pace, come a un nemico mestatore. Una tendenza che di nuovo si presenta prepotente ades­so che i dittatori non sanno su chi scaricare le loro disgrazie. Anche Ahmadinejad ieri ha dichiarato che prevede un Medio Oriente sen­za Israele. In Siria, Bashar intanto gioca con suo fratello Maher a go­od cop e bad cop . Il dittatore alawita chiama «martiri» i ribelli uccisi dal fratello per suo ordine, e prende misure libertarie eccezio­nali, figurarsi che intende permet­tere alle donne di indossare il hijab . A restare al potere lo aiuta l'ambiguità americana che nei me­si passati ha cercato di strapparlo all'asse con l'Iran, un asse cui aderi­sce anche la Turchia, e spera anco­ra di farne un alleato, nonostante sia chiaro che la sopravvivenza del­la sua fragile setta sciita in un mon­do per l' 80 per cento sunnita, è oggi nelle mani dell'Iran.
Sullo scenario libico le cose non vanno bene, compreso il disvelarsi di astiosi contrasti nel mondo occi­dentale: l'incertezza nell'interveni­re ha preso tempo prezioso; la de­stituzione di Gheddafi è incerta; i ribelli, confusi e inaffidabili in bat­taglia, sono tipi inaffidabili che pa­re abbiano venduto a Hamas e agli hezbollah migliaia di proiettili a gas nervino e mostarda, e che ab­biano fra i capi personaggi come il colonnello Khoftar, per oltre vent' anni in Afghanistan come mem­bro del gruppo libico islamico di combattimento. Non una patente di liberalità e democrazia. Il Sudan è ormai pista di rifornimento di ar­mi iraniane e di Al Qaeda. Lo Ye­men è un astruso mosaico di odi tribali e religiosi ormai senza con­trollo. Nel Golfo l'Arabia Saudita, a sua volta contestata e quindi anco­ra peggio quanto a libertà civili e diritti umani, è in armi contro l'espansionismo iraniano che prende piede in Bahrain contro la minora nza sunnita.
Tutta la nuova confusione ha una sua traduzione diplomatica micidiale, in cui balbettiamo di li­bertà e democrazia senza un ogget­to concreto, un gruppo, una realtà civile, cui riferirci e in cui di nuovo la tentazione europea e di Obama è quella di scaricare gli incubi su Israele: l'Onu programma per set­tembre una risoluzione unilatera­le di riconoscimento di uno Stato Palestinese contro tutte le risolu­zioni che prevedono sempre una trattativa che garantisca la sicurez­za di Israele. Uno stupido modo di placare il moloch arabo in trasfo­r­mazione.
www.fiammanirenstein.com

Il FOGLIO - Fausto Biloslavo : " Così l’intervento della Nato ha peggiorato la guerra civile libica "


Fausto Biloslavo

Quando sento la notizia che i caccia di Muammar Gheddafi bombardano il centro di Tripoli, per fermare la rivolta, mi prende un colpo – racconta Bruno Dalmasso, l’ultimo italiano della capitale libica – Sono al volante e passo proprio dove avrebbe dovuto esserci la strage, ma non trovo un solo segno dell’attacco aereo. Era una bugia”. Bruno è un veterano d’Africa, è il custode del cimitero italiano di Tripoli, che testimonia come fin dai primi giorni della crisi in Libia la disinformazione di grandi media, a cominciare dalla tv araba al Jazeera, ha alimentato il caos. Il colonnello Gheddafi a un passo dal crollo, la rivolta “buona” del popolo contro i “cattivi” del regime, la guerra “umanitaria” della Nato sono il frutto di un’illusione – e ieri, un portavoce dei ribelli ha detto che Italia, Qatar e Francia sono pronti a fornire loro armi “per autodifesa”. Il 24 febbraio, a Tripoli, tutti i giornalisti erano convinti che la caduta del regime fosse imminente. Si pensava che baldanzose colonne di ribelli in marcia fossero a un passo dalla capitale, ma in realtà non abbiamo mai visto neppure una piccola avanguardia capace di ribaltare il regime nelle sue roccaforti come Tripoli. Con il passare dei venerdì di preghiera le coraggiose proteste anti Gheddafi davanti alla moschea di piazza Algeria, nel centro città, o a Tajura, il grande sobborgo occidentale, sono state represse a colpi di kalashnikov e schierando i blindati. Questi sì erano i veri tentativi di cacciare il colonnello, il contagio dalle piazze del Cairo e di Tunisi. “Ci sparano addosso, non ce la faremo mai”, urlavano di rabbia i manifestanti. Mentre i media di mezzo mondo continuavano a dare Gheddafi per spacciato o addirittura in fuga con tutta la famiglia sui jet privati, lui e il suo clan consolidavano il loro potere. A Tripoli in molti vorrebbero vederlo morto, il colonnello, ma altrettanti, con il fazzoletto verde al collo, lo considerano il “fratello leader”. E lo difendono con le armi. L’insurrezione fallita nella capitale e nella Tripolitania ha continuato a essere alimentata da una serie di bugie. Fin dalle prime settimane di rivolta i morti sarebbero stati diecimila, con fosse comuni che poi si sono dimostrate normali cimiteri. A questo punto, in piena guerra civile, con i bombardamenti della Nato, dovrebbero essere dieci volte tanto. Secondo fonti degli insorti sarebbero sempre gli stessi o addirittura “diminuiti” a ottomila. I ribelli sono un miscuglio di società civile, come si direbbe da noi, disertori dell’esercito, giovani laici e fondamentalisti, compresi barbuti che non disdegnano l’emirato propagandato da Osama bin Laden. Al Zawia era un guaio per Gheddafi: è a soli 45 chilometri dalla capitale, ed è stata “liberata” dagli insorti nei primi giorni della rivolta. In una via trasformata in campo di battaglia Mohammed – un giovane con la barba nera dell’islam, il caffettano marrone, pareva un talebano – apriva la strada verso le linee ribelli. Qualcuno voleva dimostrare che uno dei soldati del regime catturati era un mercenario africano – aveva la pelle nerissima. In realtà parlava dialetto libico e veniva dal Fezzan, la regione del sud dove molti sono scuri come all’equatore. I mercenari esistono, ma in gran parte dei casi sono stati arruolati a forza, da una parte e dall’altra, fra i due milioni e mezzo di immigrati, che hanno cercato di fuggire dalla Libia. La guerra civile è tremenda. Sembra che i “cattivi” siano soltanto gli uomini di Gheddafi: monsignor Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, ha denunciato che “il governo fa fuori gli oppositori senza pietà” andandoli a prendere di notte casa per casa a Tripoli. Sui telefonini dei fan del colonnello girano video di ribelli prigionieri picchiati e costretti ad abbaiare come cani. Ma gli insorti, i “buoni”, non sono da meno. Fin da prima dell’intervento della Nato hanno sgozzato o giustiziato, con un proiettile in testa, soldati e poliziotti fatti prigionieri. File di cadaveri sono state ritrovate con le mani legate dietro la schiena. A Derna e al Beida, roccaforti jihadiste nella Cirenaica, si sono girati da soli il video di quando strappavano il cuore a un uomo di Gheddafi mettendolo in mostra come un trofeo su un carro armato. L’unico, vero successo L’unico, vero successo dell’intervento aereo della Nato è aver salvato Bengasi, “capitale” dai ribelli, dalla rappresaglia di Gheddafi. Lo stesso colonnello, poche ore prima degli attacchi, aveva pronunciato in tv il delirante discorso del “zanga zanga” (zanga vuol dire vicolo): “Io con altri milioni ripuliremo la Libia dai ratti – urlava – Centimetro per centimetro, casa per casa, stanza per stanza, vicolo per vicolo”. La voce di Gheddafi è stata trasformata in una canzone rap di grande successo utilizzata pure come suoneria dei telefonini. Bengasi era salva, ma la situazione in Libia è precipitata. Le bombe alleate non hanno fatto altro che alimentare la guerra civile illudendo, ancora una volta, i ribelli e la comunità internazionale che sarebbe finito tutto in fretta. Gheddafi ha reagito distribuendo le armi ai civili che ancora credono in lui. E il regime resiste. Il bunker di Gheddafi a Bab al Azizya è stato colpito soltanto una volta, ma il colonnello fin dalle prime ore dei raid aveva aperto la cittadella fortificata ai fan trasformati in scudi umani. Bab al Azizya è diventata così uno specchio per le allodole, i bunker veri sono disseminati chissà dove. Per non parlare dell’annunciata caduta di Sirte, la città natale del colonnello. Tutte le agenzie internazionali dicevano che era stata presa dai ribelli, ma i poliziotti di Gheddafi erano fuori dalla porta, avevano montato la guardia tutta la notte. Nel centro, al posto degli insorti, si incrociavano mezzi governativi pieni di volontari del colonnello di tutte le età, che sfrecciavano verso il fronte. I ribelli, a decine di chilometri di distanza, sono stati attirati in una trappola. I governativi li hanno ricacciati indietro di oltre duecento chilometri lungo la strada costiera del golfo della Sirte, dimostrando che senza l’appoggio aereo alleato i ribelli non riescono a fare nulla Dopo quarantacinque giorni di guerra, il colonnello è ancora al potere e cerca la via diplomatica approfittando della stanchezza dei volenterosi. Ieri a Doha sono stati decisi i meccanismi per finanziare i ribelli, che vendono petrolio al Qatar ma dicono di avere bisogno di fondi (e di armi, ma quelle stanno già arrivando). I bombardamenti continuano, la Nato difende il suo ruolo. La Libia è spaccata in due: la Tripolitania sotto controllo del regime, a parte l’enclave di Misurata, e la Cirenaica in mano ai ribelli, come all’inizio della rivolta – che è sempre stata una guerra civile.

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