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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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LaStampa-Corriere della Sera-Il Giornale Rassegna Stampa
10.04.2011 Egitto, ecco l'alleanza esercito-fratelli musulmani
commenti di Maurizio Molinari,Ceciclia Zecchinelli, Livio Caputo

Testata:LaStampa-Corriere della Sera-Il Giornale
Autore: Maurizio Molinari-Cecilia Zecchinelli-Livio Caputo
Titolo: «E adesso la Casa Bianca teme una rivoluzione-bis al Cairo-La nostra rivoluzione scippata dai militari alleati degli islamici-Altro che primavera araba, la svolta s'è già inceppata»

L'Egitto, insieme alla Libia, tiene banco sui giornali, oggi 10/04/2011. Riprendiamo l'analisi dagli Usa di Maurizio Molinari sulla STAMPA, una intervista di Cecilia Zecchinelli, per niente politicamente corretta (finalmente!) che aiuta a capire la situazione egiziana sul CORRIERE della SERA, e l'analisi di Livio Caputo sul GIORNALE.

Imbarazzo è invece la parola giusta per commentare l'aerticolo di oggi sul MANIFESTO di Michele Giorgio. Non potendo ignorare il fallimento della rivoluzione laica, si limita a sottolinerae che l'esercito, che detiene il potere, si è alleato con i Fratelli Musulmani, ma si guarda bene dal dare voce  a chi rischia la vita per chiedere la modernizzazione dell'Egitto in senso democratico. Comprensibile, d'altra parte, come potrebbe essere diverso per un giornale che si dichiara comunista ?
Ecco gli articoli:

La Stampa-Maurizio Molinari:" E adesso la Casa Bianca teme una rivoluzione-bis al Cairo "


Maurizio Molinari

Dall’inizio delle rivolte arabe il presidente Barack Obama ha ricevuto alla Casa Bianca oltre quattrocento briefing sull’evoluzione delle diverse crisi, traendone una convinzione di fondo: a pesare sull’esito finale di questa trasformazione epocale sarà la direzione che prenderanno gli eventi in Egitto.

A descrivere l’approccio della West Wing alle sollevazioni in atto dalla Libia al Bahrein è un alto funzionario dell’Amministrazione nella cornice della Commissione Trilaterale che si sta svolgendo a Washington. Ad ascoltarlo ci sono ex Segretari di Stato come Henry Kissinger, ex consiglieri per la sicurezza nazionale come Zbignew Brzezinski ed ex direttori nazionali dell’Intelligence come John Negroponte.

È una platea che conosce bene la dinamica dei rapporti fra un presidente e i suoi più stretti collaboratori in situazioni di crisi e così le domande sono dirette, pungenti, spingendo l’alto funzionario a parlare con insolita chiarezza. «Ci sono molti paragoni storici possibili con quanto sta avvenendo, dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale al crollo del comunismo nell’Est dopo la caduta del Muro di Berlino ma forse quello più calzante è con la fase di decolonizzazione che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale», afferma il collaboratore di Obama, facendo proprie le tesi del libro How to Run del World del trentenne politologo Parag Khanna.

In tale cornice di «sollevazioni popolari contro i regimi esistenti» in più nazioni, dove tendono a prevalere «identità locali e realtà nazionali», gli occhi della Casa Bianca sono puntati sull’Egitto perché «è la più popolosa e influente nazione del mondo arabo», la cui importanza politico-culturale può essere paragonata soltanto all’Iraq, l’altra nazione araba culla di un’antica civiltà.Da qui l’attenzione per quanto sta avvenendo negli ultimi giorni con la moltiplicazione di manifestazioni e scontri di piazza al Cairo, che fanno paventare rischi per la transizione del dopoMubarak appena agli inizi.

Ciò che la Casa Bianca vede con preoccupazione sono le «forti critiche ai militari egiziani» che spingono la gente a tornare a Piazza Tahrir perché i generali sono stati il principale interlocutore di Obama nel rovesciamento di Hosni Mubarak ed è a loro che Washington guarda per condurre una «fase di transizione» che verte sulle elezioni presidenziali in programma a fine anno.

D’altra parte lo stesso Obama in più occasioni ha paragonato i generali egiziani a quelli di Indonesia e Filippine, che negli Anni 80 guidarono i rispettivi Paesi dalla dittatura alla democrazia. «I militari egiziani a nostro avviso stanno facendo un ottimo lavoro nel dopo Mubarak», spiega l’alto funzionario Usa, tradendo la preoccupazione che se le violenze di piazza dovessero continuare potrebbe innescarsi una seconda rivolta egiziana dalle conseguenze molto difficili da immaginare. E fra chi lo ascolta tale interpretazione si evoca addirittura lo spettro di una controrivoluzione.

L’importanza strategica dell’Egitto per la sorte della primavera araba spiega l’approccio della Casa Bianca ad altri due influenti attori regionali: l’Iran e la Turchia. Nei confronti di Teheran la preoccupazione è massima «non solo per il nucleare ma anche perchè sta tentando di sfruttare a proprio favore le rivolte arabe» sostenendo gruppi, partiti ed etnie capaci di allargare la propria influenza regionale.

La Turchia di Recep Tayyp Erdogan viene invece descritta come un «solido alleato» per via delle «convergenze che abbiamo avuto sulla transizione in Egitto» e sul passaggio dei comandi in Libia alla Nato, oltre al «sostegno dato nella formazione del governo iracheno» e all’«approvazione della difesa antimissile al recente summit della Nato a Lisbona».

Il dopo-Mubarak è dunque la chiave per comprendere l’approccio della Casa Bianca al mondo arabo che sta emergendo. Da qui la spiegazione del silenzio dell’alto funzionario sull’Arabia Saudita, alleato di ferro da oltre un secolo, con cui i disaccordi sulla deposizione del raiss egiziano sono stati notevoli. Forse non a caso, quando si tratta di enumerare gli «alleati arabi», il collaboratore di Obama sceglie un nuovo metodo: cita quelli che stanno fornendo aerei alla Nato per la no fly zone contro Gheddafi, «a cominciare dall’Emirato del Qatar».

Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " La nostra rivoluzione scippata dai militari alleati degli islamici "


Ahmed Salah

Ahmed Salah è un leader importante (lui dice «organizzatore» o «tattico» ) della protesta esplosa in Egitto il 25 gennaio, diventata rivoluzione, vittoriosa in 18 giorni contro le attese di tutti. Comprese quelle del movimento 6 aprile da lui co-fondato nel 2008, o di altri gruppi di base come Kifaya! da cui Salah è passato negli ultimi anni: tutte anime di piazza Tahrir e della sua rivolta, ora esempio nel mondo. Che però, sostiene, è stata «tradita dai militari» . Un messaggio che in marzo aveva portato anche a Washington, in una serie di incontri alla Casa Bianca e al Dipartimento di Stato, chiedendo di non dimenticare l’Egitto. In Occidente in realtà l’Egitto è passato in secondo piano, le violenze di venerdì sono state una brutta sorpresa per chi riteneva la transizione pacifica. Cosa è successo? «Sono arrivato a Tahrir dopo gli scontri ma molti miei compagni erano presenti. I morti sono stati almeno quattro. Tutto è iniziato perché 38 militari hanno deciso di protestare pubblicamente contro la corruzione alzando una tenda nella piazza per passarvi la notte. E’ per questi "traditori"che sono arrivati i corpi speciali antiterrorismo dell’Unità 777, gente durissima. Hanno sparato sui militari e sui civili, tra cui i miei compagni, che li proteggevano. Proiettili veri» . Perché questa protesta? E perché quella della giornata di venerdì con centinaia di migliaia ancora in piazza? «Perché è in atto una cospirazione evidente per mantenere il vecchio regime. I militari, guidati dagli ex uomini di Mubarak, come lo stesso capo del Consiglio Tantawi, e molti membri del partito dell’ex raìs Ndp hanno stretto un patto con i Fratelli Musulmani e gli islamici per non cambiare niente e quasi tutti i partiti storici d’opposizione tacciono per opportunismo. Stanno uccidendo la rivoluzione, nessuna delle nostre richieste è stata esaudita» . Cosa chiedete? «Che i militari lascino subito il potere, sostituiti da un consiglio presidenziale civile. Che si fermi davvero la corruzione: gli elementi del vecchio regime vanno rimossi dai posti che occupano e tutti vanno processati, compresi Mubarak e famiglia. E vanno rimossi anche i giudici che continuano a fare processi pur essendo collusi con il vecchio regime, gli stessi che mandarono in galera dissidenti come Saad Eddin Ibrahim o Ayman Nour. Infine chiediamo che non si voti in settembre, è troppo presto. Si devono ancora formare partiti liberi, manca una vera Costituzione, ci vogliono riforme: la gente prima di votare deve sapere chi è chi. Altrimenti sarà ancora tutta una farsa, voteremo e non cambierà niente. Per questo la lotta va avanti»

Il Giornale-Livio Caputo: " Altro che primavera araba, la svolta s'è già inceppata"


Mohammed Mahdi Akef, leader dei Fratelli Musulmani in Egitto

 «Abbiamo cacciato un dit­­tatore, ma la dittatura è rima­sta! » gridavano la notte scorsa i dimostranti al Cairo, mentre venivano caricati a manganel­late e arrestati in massa. Radu­nati di nuov­o a migliaia in piaz­za Tahrir per chiedere l'apertu­ra di un processo contro Muba­rak, tuttora rintanato nella sua villa di Sharm el-Sheik, hanno cominciato presto a prender­sela anche con il Consiglio Su­premo militare e il suo presi­dente maresciallo Tantawi, un ufficiale settantacinquenne ancora addestrato in Urss che prima di subentrargli aveva la­vorato per trent'anni fianco a fianco con il Raìs per mantene­re la stabilità. Ma quando ne hanno chiesto le dimissioni, è arrivata immediatamente la repressione, con la solo diffe­renza rispetto ai vecchi tempi che ad attaccare non è stata la polizia, ma l'esercito.
Poche cose in effetti sono cambiate in Egitto dopo l'appa­rente trionfo della piazza, che aveva fatto esultare tutti i «pro­gressisti » di questo mondo. Nonostante i cambiamenti ap­portati alla Costituzione, il via libera alla formazione di nuovi partiti e i preparativi per le ele­zioni, Tantawi e il suo Consi­glio, responsabili per la transi­zione, esercitano lo stesso po­tere assoluto che prima era di Mubarak e procedono con la stessa irritante segretezza: nel­le prigioni continua ad essere praticata la tortura, i diritti del­le donne (che pure avevano avuto una parte importante nella rivolta) sono conculcati forse più di prima e nessuno ha ancora mosso un dito per ri­durre la corruzione. Le Forze
armate, investite di un compi­to che non è il loro, sembrano intente a proteggere i loro rile­vanti interessi anziché pro­muovere le istanze popolari. Così, dopo due mesi, i giovani rivoltosi stanno perdendo di nuovo la pazienza e piazza Tahrir ha ripreso a riempirsi, con il rischio di nuovi eccidi (la notte scorsa per fortuna i morti sono stati solo due).
Ma non è solo la piazza egi­ziana ad essere frustrata. L'in­tera «grande rivolta araba», che sembrava dovesse cambia­re il mondo, sta segnando il passo, e a mano a mano che ar­riva a toccare interessi forti ­come in Arabia Saudita - viene abbandonata al suo destino anche dall'Occidente. Il solo
posto dove finora ha trionfato è la Tunisia, con il risultato che alla dittatura di Ben Ali è su­bentrata una specie di anar­chia, che ha portato alla fuga in massa di 25.000 giovani ver­so l'Italia. In Algeria il regime ha soffocato le dimostrazioni senza troppa difficoltà, in Li­bia gli insorti non riescono ad abbattere Gheddafi nonostan­te il consistente aiuto degli ae­rei della Nato, nel Bahrein l'ar­rivo delle truppe saudite ha po­sto facilmente fine a una rivol­ta sciita in parte ispirata dall' Iran e perfino nello Yemen, do­ve pure i morti si contano già a centinaia, il presidente Saleh è ancora in sella.
Sotto i riflettori c'è adesso so­prattutto la Siria, dove ci sono state venerdì, in varie città, le dimostrazioni più imponenti e sanguinose dall'inizio dei di­sordini. Qui non siamo di fron­te a una rivolta del pane,
quan­to a una catena di insurrezioni di ispirazione diversa e non be­ne coordinate, che il presiden­te Bashar Assad è riuscito fino­ra a tenere a bada. Ma la cosa significativa è che la Comuni­tà internazionale, preoccupa­ta per le sorti della popolazio­ne civile libica al punto da sca­tenare una guerra, ha voltato gli occhi dall'altra parte di fon­te ai quasi duecento morti si­riani: qui infatti a una caduta del regime, considerato tutto­ra saldo, potrebbe subentrare un caos capace di incendiare tutto il Medio Oriente.
Insomma, dopo due mesi di gloria, la 'grande rivolta ara­ba' sembra perdere la sua spin­ta propulsiva. Ma c'è ancora al­meno un posto dove potrebbe riprendere slancio: la Cisgior­dania, dove si segnala, su Inter­net, la stessa frenetica attività che ha preceduto le rivolte tu­nisine ed egiziana e dove i gio­va­ni palestinesi hanno la possi­bilità di sperimentare le nuove
tattiche non solo contro il loro pur poco amato governo, ma contro lo storico nemico israe­liano.

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