Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello
Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.
Armare i ribelli significa armare al Qaeda Immigrazione dal Maghreb, il cavallo di troia islamico. Commenti di Maria Giovanna Maglie, Guido Ceronetti
Testata:Il Foglio - Libero Autore: Maria Giovanna Maglie - Redazione del Foglio Titolo: «Se diamo le armi ai ribelli facciamo il gioco di Al Qaeda - Il grido di allarme lanciato da Guido Ceronetti scrutando 'dal mare il pericolo senza nome'»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 06/04/2011, a pag. 14, l'articolo di Maria Giovanna Maglie dal titolo " Se diamo le armi ai ribelli facciamo il gioco di Al Qaeda ". Dal FOGLIO, a pag. II, l'articolo dal titolo " Il grido di allarme lanciato da Guido Ceronetti scrutando 'dal mare il pericolo senza nome' ". Ecco i due pezzi:
LIBERO - Maria Giovanna Maglie : " Se diamo le armi ai ribelli facciamo il gioco di Al Qaeda"
Maria Giovanna Maglie
Chi ce lo fa fare, ministro Frattini, di diventare, da vittime di un complottone internazionale che potrebbe fallire, smaniosi protagonisti di alleanze al buio? In guerra si cammina sempre nella nebbia, ma sguazzarci diventa una responsabilità seria. Mentre la candidatura peraltro scontata di Barack Obama al secondomandato sancisce per chi non lo avesse capito prima la fine dell’intervento americano nella no-fly zone e nelle operazioni Nato in Libia, mentre la campagna contro Gheddafi registra un successo pari al trenta per cento di arsenale militare distrutto, ovvero un fallimento. E pure costato morti civili; mentre non sappiamo più dove metterci decine di migliaia di clandestini irriconoscenti, vandali e lestofanti, la feccia di quei Paesi evidentemente, Lampedusa si riempie e si svuota come un suk nell’ora di pieno mercato, e al ministro Maroni gli tocca trattare a Tunisi con i nuovi governanti, quelli presunti democratici, come in un suk, mentre l’Egitto, quello della grande rivoluzione di piazza che ha fatto piangere di gioia i cretini del progressismo fighetto europeo, ma che è stato consegnato alla legge coranica, e l’Iran si riavvicinano ufficialmente dopo 32 anni; insomma mentre succedono tutte queste orribili cose e incresciose, e se n’è accorto, risvegliandosi dal letargo anche l’obamiano «New York Times», noi che continuiamo a non sapere niente di niente dei ribelli di Bengasi, se non che li hanno armati i servizi non tanto segreti di Inghilterra e Francia, noi che nella nebbia della guerra non abbiamo ancora capito chi prevarrà, perché dunque abbiamo entusiasticamente quanto tardivamente deciso che li preferiamo, quei ribelli, a un dittatore che sarà pure odioso ma che è in pensione da tempo, piegato ai nostri accordi e alle nostre esigenze di sicurezza e di fabbisogno energetico, sia pur pagati a lauto prezzo, che soprattutto è tutt’altro che sconfitto o piegato all’esilio? Perché minacciamo addirittura di armarli? Tiro il fiato emi spiego, la domanda è rivolta al ministro Franco Frattini che ha annunciato in conferenza stampa che per l’Ita - lia i ribelli di Bengasi sono gli unici interlocutori, il timore è che il nostro responsabile degli Esteri si sia piegato non so quanto volontariamente alla teoria dominante del “Risorgimento arabo”, termine coniato dal presidente Giorgio Napolitano, e che chissà che non gli costi nel ricordo dei posteri, al quale sicuramente tiene, beffardamente più caro dell’adesione mantenuta fino all’ultimo istante secondo alla storia comunista. Cito a questo punto alcuni fatti di cronaca. Da quando nel 1979 Il Cairo aveva firmato gli accordi di pace di Camp David con Israele e aveva concesso asilo politico allo Shah deposto, Mohammad Reza Pahlavi, i rapporti con gli ayatollah erano stati di palese ostilità. Oggi tutto è cambiato. Il primo passo nel silenzio mondiale è avvenuto il 22 febbraio scorso, quando due navi da guerra iraniane avevano attraversato il Canale di Suez, e il governo egiziano per la prima volta aveva permesso il transito. Questa volta a prendere l’iniziativa è Il Cairo. Il ministro degli esteri Nabil al- Arabi ha intrapreso una serie di iniziative per aprire «tra Iran ed Egitto nuove re relazioni che riflettano la loro storia e la loro civiltà, a condizione che si basino sul rispetto reciproco della sovranità degli Stati e la non ingerenza negli affari interni». Teheran ha accolto con entusiasmo l’invito e sta pianificando il viaggio della delegazione diplomatica. L’obiettivo è quello di creare un Gruppo parlamentare d’ami - cizia Iran-Egitto. Capito? I Paesi europei più coinvolti nel conflitto, Francia e Gran Bretagna, si agitano per portare a casa la dipartita del colonnello Gheddafi. Non sembra che ci stiano riuscendo. La no-fly zone non basta a sconfiggere le forze fedeli al Colonnello il quale, nonostante non possa più contare su una superiorità nei cieli, resta al comando di un vero esercito, dotato di un sistema di comando e di truppe addestrate. Dei ribelli non si può dire certamente la stessa cosa. Peggio, mentre la Francia imbottisce di armi francesi i ribelli, Londra eWashington rimangono scettiche perché le intelligence statunitense, europea e israeliana sanno per certo che elementi vicini ad al-Qaeda e a Hezbollah avrebbero ormai da giorni infiltrato le forze dei ribelli libici, che per colmo hanno bisogno di totale addestramento, che richiederebbe mesi se non anni. Obama, che della primavera araba è il primo responsabile, si è già defilato con l’inizio della campagna elettorale per le elezioni presidenziali 2012. L’in - tervento di Libia rischia infatti di essere un insopportabile peso politico per l’inquilino della Casa Bianca la cui campagna è già in faticosa salita, l’intervento in Libia non piace e non interessa all’opinione pubblica americana. Capito?
Il FOGLIO - " Il grido di allarme lanciato da Guido Ceronetti scrutando 'dal mare il pericolo senza nome' "
Guido Ceronetti
Roma. Sulla Stampa di ieri uno scrittore, poeta e pensatore dalle forti venature pessimistiche, una delle figure più riverite nel panorama culturale italiano come Guido Ceronetti ha squarciato con un colpo di sciabola, con “un’opinione-pirata”, il velo dell’ipocrisia umanitarista, che avvolge il dibattito – se dibattito si può definire, sull’ondata di profughi e clandestini dal nord Africa che sta raggiungendo l’Italia. Gettando un allarme. Ceronetti in “Dal mare il pericolo senza nome”, scrive: “Non ho prove provabili, ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali. Uno di questi è la talpa di un celebre racconto di Kafka. ‘Si crede di essere in casa propria, in realtà si è nella loro’. (…) Un elementare senso del pericolo (territoriale, identitario, genericamente nazionale, e in questo caso anche religioso) dovrebbe suggerire la semplice idea che, quando gli sbarchi sulle coste italiane diventano di migliaia, si pone un problema di difesa militare”. Invece, per Ceronetti è “strano”, “che si invochino aiuti e scatti di alleanze per prenderne sempre di più, per predisporre modi di accoglienza e non per stabilire e proteggere – umanamente ma fermamente – un confine militarmente invarcabile. (…) Non si danno vuoti disoccupati, né occupazioni innocenti o neutre. Gli stessi Stati Uniti temono e sempre più, inesorabilmente, temeranno, l’occupazione ispanica, che ha messo l’Arizona (immensa Lampedusa) in legittima fibrillazione”. Eppure, prosegue Ceronetti, “un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto”. Ceronetti coltiva il sospetto che la “flotta da sbarco squisitamente islamica” che sta arrivando ondata dopo ondata, per spandersi in tutta la penisola, “sia stata pianificata, per l’occasione prevista della rivolta tunisina”. Che i sommovimenti politici e sociali che stanno squotendo il nord Africa e il medio oriente, quelli che la vulgata e l’opinione pubblica hanno prontamente etichettato come la “primavera araba”, siano qualcosa di più diverso e meno promettente. Ad esempio perché “hanno schiodato Israele dal suo ruolo fisso di centro di una ‘questione mediorientale’ stanca di essere diventata uno sgangherato luogo comune”. Un’invasione, “pianificata: non si sa da chi”, ma “il mio non è che un sospetto fondato”. Fondato su alcune evidenze, che lo scrittore non nasconde: “Il popolo che sbarca è di uomini validi, tra i diciotto e i quaranta, che pagano un esoso biglietto. (…) In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco. Allora, c’è un plausibile scopo? Portare scompiglio politico e sociale in una Italia afflitta da sgoverno cronico? Saldarsi ad una comunità religiosa islamica preesistente già forte di voce, e da tempo? Azione in vista di un sogno, che potrebbe prendere corpo, di califfato europeo in cui l’europeo autoctono diventerebbe dhimmi (cristiano o ebreo tollerato, pagante tassa)?”. “Puoi pensarle tutte. La verità, nelle predicazioni unanimemente buoniste, è certamente impossibile trovarla”. Per nulla consolante, per lo scrittore, è “la soluzione del governo, dominato dai vantoni celoduristi della Lega, e promossa dal loro stesso ministro dell’Interno, è sconcertante: lo sparpagliamento lungo tutta la penisola della promettente piena umana in arrivo mediante una flotta di mezzi navali”. Infine chiude, da sublime Cassandra, evocando “un paragone classicissimo”: “La faccenda del cavallo di legno che sorprese l’eccessiva credulità dei poveri Troiani, che per metterselo in casa avevano addirittura squarciato le mura. Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta”.
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