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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
01.04.2011 La repressione di Assad dimostra il fallimento della politica filosiriana di Francia e Usa
Commento di Redazione del Foglio, cronaca di Davide Frattini

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Redazione del Foglio - Davide Frattini
Titolo: «La repressione di Damasco svela il bluff della dottrina Sarkozy - Quei graffiti dei ragazzini siriani che hanno acceso la rabbia di Deraa»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/04/2011, a pag. 3, l'articolo dal titolo " La repressione di Damasco svela il bluff della dottrina Sarkozy ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 20, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Quei graffiti dei ragazzini siriani che hanno acceso la rabbia di Deraa ".
Ecco i due articoli:

Il FOGLIO - " La repressione di Damasco svela il bluff della dottrina Sarkozy "


Bashar al Assad con Nicolas Sarkozy, a destra, Obama

Parigi. Dopo aver gridato al complotto internazionale, Bashar el Assad, presidente siriano, ieri ha continuato a insistere con il maquillage riformatore con cui governa, con passo malfermo, le proteste contro il suo regime mentre l’esercito faceva almeno altre 25 vittime negli scontri a Latakia. Assad ha annunciato la creazione di una commissione per abrogare la legge d’emergenza in vigore in Siria dal 1963. Ponendo fine a una misura che restringe le libertà individuali e fornisce alle autorità un alibi per mandare in galera tutte le persone sospettate di minare la sicurezza del paese – cioè i dissidenti –, Assad cerca di tenere in piedi la sua immagine di leader autoritario sì, ma illuminato. Questa dissimulazione costituisce la sua strategia più riuscita, perché gli ha permesso di essere accolto nei consessi occidentali con grandi onori, continuando in realtà a coltivare i suoi veri interessi: la tenuta di un regime alawita (cioè vicino agli sciiti) in una terra a prevalenza sunnita con l’appoggio incondizionato dell’Iran di Mahmoud Ahmadinejad – e con rapporti non sempre idilliaci ma comunque solidi con l’Hezbollah libanese. Nella dissimulazione sono caduti in molti. Ci è caduta l’America di Barack Obama, che ha riaperto le relazioni con la Siria con un ambasciatore e con visite di importanti esponenti del Congresso, e ci è caduta soprattutto Parigi. Se Obama è in imbarazzo, come sostengono molti analisti che sottolineano l’andamento ondivago delle dichiarazioni di questi giorni, Nicolas Sarkozy lo è molto di più. Perché l’autore dello sdoganamento internazionale di Assad, dopo gli anni dell’asse del male bushiana, è proprio il presidente francese. Nel 2008 Sarkozy invitò a Parigi Assad e gli riservò un posto d’onore nelle celebrazioni della festa della presa della Bastiglia prima di lanciare insieme quell’Unione per il Mediterraneo che di fatto non è mai nata. Da quel momento la collaborazione è stata molto intensa: Sarkozy ha puntato su Assad per risolvere alcune delle questioni più importanti della regione, come la liberazione del caporale Shalit, nelle mani di Hamas dal 2006, in quel luglio in cui partì l’offensiva del gruppo palestinese in sincronia con l’attacco di Hezbollah contro Israele. L’amicizia ritrovata tra Parigi e Damasco è culminata nel 2010 nella firma di un accordo di cooperazione culturale senza precedenti tra il Louvre e il Museo nazionale di Damasco (iniziativa nata per volontà della moglie di Assad, Asma, che proprio nel 2008 a Parigi si meravigliò di come fossero valorizzate le opere siriane all’interno del museo parigino) che oggi infatti, come scrive il Monde, mette in grande imbarazzo la diplomazia francese. Shalit non è ancora stato liberato, il via vai di emissari francesi tra Damasco e il Cairo non ha portato alcun frutto. Nonostante le pressioni francesi – e americane – la Siria non ha collaborato con gli investigatori dell’Agenzia atomica dell’Onu, l’Aiea, che indagano sulle attività clandestine relative a un programma atomico (nel settembre del 2007 Israele bombardò un sito nucleare siriano); non ha ridimensionato i rapporti con l’Iran e con Hezbollah, né ha ridotto le sue ingerenze nella politica del vicino Libano, considerata a Damasco affare privato siriano; non ha fatto aperture al Tribunale che indaga sulla morte dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, amico personale del predecessore di Sarkozy, Jacques Chirac – la sentenza del tribunale è già stata depositata, ma non è ancora stata resa nota, si continua a rimandare, perché ogni volta che si prospetta una data si scatena la guerriglia di Hezbollah contro le forze riformatrici libanesi. In più non ci sono stati progressi né nei rapporti tra Israele e la Siria né nella questione palestinese, nonostante da più parti fosse stata concessa a Damasco una linea di credito per una mediazione tra le fazioni palestinesi (buona parte della leadership di Hamas vive protetta e coccolata a Damasco) e il governo di Gerusalemme. Cioè la strategia di appeasement messa in campo da Sarkozy, anche in nome di una grande tradizione di politique arabe, è fallita. Ora che Assad finge di aprire alle riforme ma spara sulla folla con l’aiuto del fiero fratello Maher – ci sono già stati più di ottanta morti, l’esercito ha tutta l’intenzione di non farsi intimidire, “chi vuole la guerra l’avrà”, ha detto Assad nel discorso che molti hanno letto come una iniziale concessione alle proteste – Sarkozy si trova in un guaio. Il presidente francese, sull’onda della campagna libica voluta da Parigi più di qualsiasi altro paese al mondo, ha dichiarato che l’offensiva contro Gheddafi è un monito a tutti i regimi: non potete più stare tranquilli, voi dittatori che vessate i vostri popoli e reprimete nel sangue le proteste, perché noi verremo a prendervi. Ma come si fa ad andare a prendere Assad a Damasco?, chiedono i realisti, che considerano la politica di Sarkozy non soltanto velleitaria, ma anche pericolosa. Non è affatto semplice. Ma se davvero dietro all’attivismo con cui Parigi ha dichiarato guerra a Gheddafi in Libia non ci sono soltanto interessi ma c’è anche una dottrina – la difesa dei diritti umani, la lotta ai dittatori che reprimono i loro popoli, come ha cercato di spiegare Alain Juppé, risorto nel ruolo di ministro degli Esteri, come fu Dominique de Villepin ai tempi dell’Iraq –, la Siria è proprio il posto giusto per metterla in pratica.

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Quei graffiti dei ragazzini siriani che hanno acceso la rabbia di Deraa "


Davide Frattini

Il soldato stringe il blocco di fogli sgualciti, la lista dei ricercati è scritta a penna. Chi esce in manifestazione entra nell’elenco. I posti di blocco sono predisposti a cerchi che si stringono verso il centro di Deraa per strangolare la rivolta. Un’intera città è agli arresti domiciliari. Gli oppositori sono braccati e seguono i percorsi sulla mappa mentale disegnata dalla paura. Schivano le pattuglie della Guardia Repubblicana, le forze speciali comandate da Maher Assad, il fratello minore del presidente. In strada ci sono loro: armati di fucili mitragliatori, sorvegliano dalle torrette dei blindati. I gabbiotti della polizia restano deserti da giorni. I centodieci chilometri da Damasco verso sud e il confine con la Giordania attraversano la piana di Hauran e i campus universitari, la promessa mantenuta dal leader di garantire l’educazione ai giovani siriani, che prima finivano esportati (negli atenei in Russia o nei Paesi arabi) come i pomodori coltivati in questa regione molto fertile. L’autostrada a quattro corsie scende parallela alla vecchia provinciale, che si spezza verso i villaggi dove i cammelli pascolano tra i dadi grigi delle case non intonacate. I carrarmati controllano gli ingressi a questi incroci, la ribellione è iniziata tra i 350 mila abitanti di Deraa e si è estesa ai villaggi di tutta la zona, dove i sunniti sono ancor più maggioranza che nel resto del Paese. Gli alauiti al potere, la setta religiosa della famiglia Assad, sono ossessionati da un’insurrezione etnica che parta dalle tribù di quest’area. Le vie di Deraa svelano che la calma apparente della capitale qui è stata fracassata. I resti dei cassonetti e delle gomme bruciate, le pietre rimaste sull’asfalto come i bossoli dopo la battaglia. Bashar Assad annuncia un’inchiesta della magistratura sulle violenze e sulla repressione (il governatore sarebbe stato rimosso). Suleiman Khalidi, giornalista giordano dell’agenza Reuters, è scomparso nei giorni scorsi mentre si stava muovendo da queste parti. Il regime non vuole che la città sotto assedio racconti la sua storia. L’appartamento in periferia è protetto solo dal giro intricato che bisogna percorrere per raggiungerlo. Fino a tre anni fa, Ahmed (ha chiesto di non usare il vero nome) aveva un impiego pubblico. E’ stato cacciato dallo Stato dopo aver sostenuto la Dichiarazione di Damasco, il manifesto che invoca la fine delle leggi d’emergenza, la libertà di parola e il pluralismo politico. I cinque uomini nella stanza fumano e bevono caffè turco, mentre ricostruiscono le quattordici giornate di Deera, la rivolta che nessuno in Siria avrebbe immaginato: i video ripresi con i telefonini mostrano i manifestanti che stracciano il poster di un sorridente Bashar, la demolizione di una statua del padre Hafez, l’ufficio del Baath, il partito unico al potere, in fiamme. Nella loro versione, inzeppata della paura di chi vive accerchiato e dei buchi di chi non può verificare le voci, tutto è cominciato così. «Alla fine di febbraio, un gruppo di ragazzini decide di imitare i giovani che hanno visto ribellarsi dalla Tunisia all’Egitto. Ripetono lo slogan che hanno sentito in televisione: basta con il regime. Creano la rima con la parola dottore perché così in Siria tutti chiamiamo Bashar Assad: Ajack Al Dor Ya Doctor. Lo scrivono con lo spray rosso sui muri di cinta in quattro scuole. La frase viene subito coperta con la vernice bianca, la polizia cerca i colpevoli. «Hanno tredici anni, il più giovane undici, è solo una spacconata. La loro giovane età non impietosisce il regime. In quindici vengono fermati e incarcerati. I padri e le madri vanno alla caserma della polizia militare, il comandante nega che i figli siano stati arrestati. I genitori si rivolgono al governatore Feisal Kalthoum, che li minaccia ("se volete vederli, vi sbatto dentro con loro") e li fa cacciare dalle guardie. «Venerdì 18 marzo, dopo la preghiera di mezzogiorno, la gente esce dalla moschea Omar Ibn Al Khattab, la più grande della città, e forma un corteo. Tremila persone protestano e chiedono il rilascio dei bambini. Gli agenti sparano lacrimogeni e caricano con i bastoni. Questa volta il governatore prova a dialogare, c’è molta tensione. Parte dei ragazzini viene rilasciata, gli altri dopo due giorni. Raccontano di essere stati picchiati, girano voci — non possiamo confermarlo — che a qualcuno di loro siano state strappate le unghie delle mani. «Sabato le proteste continuano e l’esercito circonda la città. Non sono i soldati ad avere sparato contro la gente, loro sono tranquilli. Hanno mandato le squadre speciali dalla capitale, sono sbarcate da sette elicotteri e dai blindati. I morti sono difficili da contare: in tutta la regione di Hauran, 150 corpi sarebbero stati restituiti alle famiglie, 50 risulterebbero ancora scomparsi. «Qui non ci sono gli shabiha, gli sgherri del regime, come a Latakia. Siamo una comunità unita. I cristiani hanno aiutato noi sunniti, hanno nascosto e curato i feriti. I pochi alauiti che vivono tra di noi non sono stati toccati. Non è vero come sostiene il regime che c’è uno scontro religioso. «Siamo isolati, da dodici giorni Internet è bloccata. Venerdì all’uscita delle moschee (oggi, ndr) torniamo in strada. Non possiamo più fermarci» .

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