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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
30.03.2011 Siria, il governo si dimette. Oggi i manifestanti pro Assad in piazza
Cronaca di Davide Frattini, analisi del Foglio

Testata:Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: Davide Frattini - Redazione del Foglio
Titolo: «Il poker di Assad per placare la piazza - La rivolta in Siria guasta il corteggiamento felpato di Obama»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 30/03/2011, a pag. 19, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Il poker di Assad per placare la piazza ". Dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo dal titolo " La rivolta in Siria guasta il corteggiamento felpato di Obama ".
Ecco i pezzi:

CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Il poker di Assad per placare la piazza "


Davide Frattini

A Damasco gli uffici pubblici ieri sono rimasti chiusi, le scuole hanno aperto le aule e mandato i ragazzi in strada. A celebrare e festeggiare il leader, Bashar al Assad ( foto). Che sembra apparire ovunque, anche sui cartelloni pubblicitari. Oggi alle 11 dovrebbe parlare in tv per proclamare la fine delle leggi speciali in vigore dal 1963, quando lui non era neppure nato. Gli acrobati del regime salgono uno sulle spalle dell’altro, anche in tre non possono misurarsi con la foto del presidente, quindici metri srotolati sulla facciata di marmo bianco. Quello in alto indossa la mimetica e incita gli slogan: «Dio, la Siria, Bashar» , «Sacrificheremo il nostro sangue per te» . Per ora sacrificano, ripagati, una giornata di lavoro. Gli uffici pubblici sono rimasti chiusi, le scuole hanno aperto le aule e mandato i ragazzi in strada. A celebrare e festeggiare il leader, in una manifestazione che non sembra spontanea come non sono istantanee le foto del capo che tutti mostrano: pose ufficiali plastificate e incorniciate, distribuite dalla manovalanza di partito assieme alle bandiere. Bashar sorride in divisa, Bashar sorride con i gradi di colonnello, Bashar sorride in abito grigio e cravatta scura, Bashar sorride con gli occhiali da sole. Fin dal mattino, verso le 8.30, la polizia chiude le strade per lasciar passare gli autobus che portano i manifestanti. Gli agenti sulle vecchie Honda, elmetto bianco e occhialoni scuri alla Frank Poncherello di CHiPs, incanalano a gesti lo sfogo nazionalista verso il centro di Damasco. I soldati sulle jeep comprate dai russi pattugliano perché la festa riesca bene, il lunotto posteriore coperto da un poster di Assad. Che sembra apparire ovunque (anche le pubblicità sui cartelloni stanno lasciando il posto al suo volto allungato) tranne dove tutti lo aspettano: in televisione per quel discorso alla nazione annunciato e rimandato. Dovrebbe parlare oggi alle 11 per proclamare la fine delle leggi speciali in vigore dal 1963, lui non era neppure nato. Gli oppositori chiedono di più: l’apertura del sistema politico (esclusiva del partito Baath da quasi cinquant’anni), garanzie per la libertà di stampa, il rilascio dei prigionieri. Ancora ieri sono stati arrestati quattro avvocati impegnati per i diritti civili. Per ora il presidente caccia il governo. Il premier Muhammad Naji Al Utri e i trentadue ministri vengono considerati responsabili per i disordini di questi dieci giorni, per gli scontri e le vittime (62 morti dal 18 marzo secondo Human Rights Watch). Loro vanno, il controllo del Paese resta nei palazzi della famiglia Assad e dei servizi di sicurezza. Parigi e Washington invocano cambiamenti («il regime deve rispondere alle aspirazioni del popolo» ). Hillary Clinton, segretario di Stato americano, condanna la repressione. Alain Juppé, ministro degli Esteri francese, esige il «dialogo» ma spiega che la comunità internazionale «non sta pensando a sanzioni» contro la Siria. In piazza delle Sette Fontane, i bambini delle elementari cantano accompagnati dalla maestra. I manifestanti sono diventati centinaia di migliaia, qui come in altre città: il regime vuol dimostrare di avere il supporto popolare. Il gruppo di ragazzine esibisce i cuori disegnati sulle guance «Ti amiamo» (Bashar), il cartello scherza «Sorry, I’m Souri» (gioco di parole in anglo-arabo: mi spiace per voi, sono siriano), lo striscione attacca «il Mossad e i suoi cani» (con i nomi di Saad Hariri, primo ministro libanese in uscita, e Bandar bin Sultan, segretario del consiglio di Sicurezza Nazionale saudita). Gli stranieri sono accusati di complottare per spaccare la Siria e mettere i sunniti, i cristiani, i curdi contro la minoranza alauita al potere. L’unità è garantita dal «Leone di Damasco, difensore del Paese» , come recita un altro manifesto. Sopra il portale della Banca Centrale, le banconote da 100 e 200 sterline siriane stanno appese grandi come bandieroni e glorificano lo sviluppo economico sventolato dal regime. La crescita annuale è attorno al 4 per cento, la disoccupazione sarebbe scesa all’ 8 secondo le stime ufficiali, le organizzazioni indipendenti calcolano al 20 per cento i senza lavoro. In questi undici anni, Assad ha coltivato (con cautela) la nascita di una classe media, sono quelli che si possono permettere le bottiglie di Johnny Walker etichetta nera a tavola per cena, simbolo arabo di affluenza. «La società siriana, a differenza dell’Egitto, della Tunisia e della Libia, continua a essere abbastanza egualitaria — scrive Michael Bröning sulla rivista Foreign Affairs —. L’accumulo di ricchezza eccessiva nelle mani di un’oligarchia è stata l’eccezione non la regola. Solo qualche membro della famiglia Assad è accusato di nepotismo e corruzione» . A Latakia, dove gli scontri sono stati tra i più violenti, i manifestanti hanno bruciato gli uffici di SyriaTel, l’operatore telefonico posseduto da Rami Makhluf, cugino di Assad e nella lista nera del Tesoro americano. La città portuale è ancora sotto assedio, come Deraa al sud. E’ in questi due centri della rivolta che l’opposizione annuncia nuove manifestazioni per venerdì.

Il FOGLIO - " La rivolta in Siria guasta il corteggiamento felpato di Obama "


Bashar al Assad

Roma. Il premier siriano Naji al Otari ha rassegnato ieri le dimissioni del suo esecutivo, ma il discorso alla nazione del presidente Bashar el Assad, preannunciato da cinque giorni dalla sua portavoce, ha subito un nuovo rinvio a oggi. E’ un evidente sintomo delle divisioni del vertice Baath sulle “importanti riforme liberalizzatrici” di cui si è parlato in questi giorni. In attesa della “svolta”, la piazza ieri è stata ferma, anche a Daraa, dove peraltro continua, nonostante le promesse aperturiste, l’assedio dei reparti speciali di Maher el Assad. Hillary Clinton ha dato un aiuto non da poco a Bashar el Assad rassicurandolo sull’assoluta contrarietà degli Stati Uniti a un eventuale intervento militare in Siria per proteggere i manifestanti. Aiuto involontario, ma comunque apprezzato da un regime non solo contestato nelle piazze, ma anche palesemente diviso al suo interno. Pure, un minimo di saggezza diplomatica avrebbe imposto alla Clinton una risposta evasiva, anche perché nel 1982 Hafez el Assad ha ampiamente sorpassato la ferocia di Muammar Gheddafi bombardando Hama (migliaia di morti nella città cannoneggiata) e non è detto che un domani i figli Basher e Maher el Assad non ripercorrano le orme del padre. Peggio di Hillary Clinton ha fatto John Kerry, che lunedì ha definito il dittatore siriano “un riformista”. Certo è che la linea ondivaga di Barack Obama trova in Siria una delle sue applicazioni più sconcertanti. Il 17 gennaio infatti, l’ambasciatore Robert Ford ha riaperto dopo sei anni l’ambasciata americana di Damasco in ossequio a una strategia che intende sganciare la Siria dall’alleanza con l’Iran. Mossa dialogante che è stata però di fatto azzerata dalla decisione dello stesso Obama del 5 maggio del 2010 di prorogare le sanzioni economiche decise da Bush contro la Siria. Sta di fatto che da anni tutta la politica mediorientale dei democratici ha nella ampia concessione di credito a Bashar el Assad il suo punto forte. Antesignana è stata Nancy Pelosi che nel 2007 ruppe la linea bipartisan in politica estera facendo visita a Bashar el Assad per inaugurare una posizione aperturista nei confronti del dittatore siriano opposta a quella di Bush (facendo una gaffe clamorosa, perché annuncio la certa volontà di Israele di riprendere i colloqui di pace con la Siria, subito smentita con irritazione da Ehud Olmert). Naturalmente il tentativo di inserire un cuneo tra Siria e Iran è più che lecito. Il problema è che non è mai avvenuto – Bashar el Assad e Mahmoud Ahmadinejad dileggiarono Hillary Clinton sul punto, in conferenza stampa – e che la Siria continua a essere il braccio operativo dell’Iran sia nei confronti di Hezbollah sia con Hamas. L’apparente mistero di una linea di credito nei confronti della Siria, che continua anche se priva di riscontri, ha comunque una sua spiegazione. Gli Stati Uniti (e l’Ue) sono spinti su questa strada da Riad (re Abdullah ha solidarizzato con Assad due giorni fa), che dal 2008 si offre come garante di Damasco. Ma la ragione di questa “copertura” è tattica e tutta e solo interna alla politica regionale saudita. L’8 maggio 2008 infatti i sauditi spinsero il libanese Saad Hariri a tentare un colpo di mano disastroso contro Hezbollah – e quindi contro la Siria – in Libano. Con un ribaltamento di posizione tipico della tradizione politica araba, il nemico siriano vittorioso è stato allora e subito trasformato da Riad in “fedele alleato”, ottenendo in cambio un qualche equilibrio, sia pure instabile e in posizione subordinata, per Saad Hariri in Libano. Oggi re Abdullah, da Riad, continua sulla linea di finto appeasement con Damasco – fino al prossimo scontro frontale – e condiziona una Casa Bianca che ha ampiamente dimostrato a fronte della rivolta araba di non avere una griglia interpretativa adeguata.

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