Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 28/03/2011, a pag. 10, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Promesse, l'ultima trincea ", a pag. 11, l'intervista di Francesco Battistini a Moshe Maoz dal titolo " L’Occidente sta a guardare: adesso toccare la Siria significa sfidare Teheran ", preceduta dal nostro commento, l'articolo di Antonio Ferrari dal titolo " Colta, potente, odiata: la donna che manovra per Assad ". Dal GIORNALE, a pag. 11, l'articolo di Livio Caputo dal titolo " Il doppiopesismo degli europei segna la fine della politica estera Ue ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'articolo di Lucia Annunziata dal titolo " A Damasco il gorgo del mondo ".
Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Promesse, l'ultima trincea "

Bashar al Assad
Il governo è pronto a dimettersi. Fine dello stato di emergenza, in vigore dal 1963. Ventata di libertà per la stampa e probabile tramonto del partito unico Baath, con apertura alle forze di opposizione. Pronta una pioggia di riforme, che verranno annunciate e spiegate al popolo dal presidente Bashar Al Assad. Un delizioso sogno realizzato? Meglio affidarsi al realismo e alla prudenza. Con troppa fretta gli ottimisti parlano di svolta, ma da qui a dire che la notte della repubblica siriana sia finita e che si spalanchino le finestre alla democrazia ce ne corre. Il fatto che ad alcuni giornalisti, non certo graditi al regime, sia stato detto che il permesso scadeva indica, infatti, il contrario. Siria complicata, e vien da dire Siria amara. Quel Paese è infatti l’incrocio di quasi tutte le contraddizioni del Medio Oriente. Kissinger diceva che gli arabi non possono fare la guerra senza l’Egitto né possono fare la pace senza la Siria. Oggi quella dottrina è tramontata perché il mondo è cambiato radicalmente, e forse la Damasco malata di burocrazia sovietica (va ricordato che la Siria era il satellite regionale dell’Urss) non ha ancora assorbito la frustata della rivoluzione giovanile, accompagnata da Twitter, Facebook, e cementata quotidianamente dalla tv araba Al Jazeera. Damasco vede in pericolo il suo delicato baricentro: alleata dell’Iran, sponsor di Hezbollah e Hamas, «protettrice» del ricco Libano, formalmente in guerra con Israele, capofila del fronte che dice no ai possibilisti moderati e vuol imporre orgogliosamente la propria strada. È vero che la Siria è rimasta il Paese-bandiera del laicismo arabo mediorientale, e che l’eventuale caduta del regime favorirebbe la dura reazione (la vendetta) degli estremisti islamici sunniti, che non dimenticano il massacro del 1982 nella città di Hama. Ma quel che il presidente Bashar dovrà capire è che ora le parole non bastano. Perché una promessa tradita sarebbe davvero fatale.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " L’Occidente sta a guardare: adesso toccare la Siria significa sfidare Teheran "
Non condividiamo le parole di Moshe Maoz quando dichiara : " Da quando sono cominciate queste rivoluzioni d’inverno, Israele è preoccupato. Assad cerca da anni la pace con Israele, è Israele che non l’ha mai voluta ". Israele è interessato alla pace con gli Stati limitrofi, ma è ovvio che se la pace presuppone la cessione alla Siria delle alture del Golan è difficile realizzarla. Prima che Israele riuscisse a conquistarle, la Siria le utilizzava per bombardare le città israeliane. Non è possibile renderle al dittatore siriano.
Ecco l'articolo:

Moshe Maoz
Nonostante i 76 anni, il professore guarda Al Jazeera fino a tardi: «Immagini straordinarie...» . Non si perde nulla dallo Stato caserma: «Vedere la gente che strappa i ritratti degli Assad, impensabile...» . Tira fuori un’intervista di poco tempo fa, al Wall Street Journal, Bashar che cercava di svettare: «Diceva che il suo regime era più stabile di Mubarak..» . Pochi come il professor Moshe Maoz, in Israele, sanno che cosa dicono quando parlano di Siria: cattedra di Storia del Medio Oriente alla Hebrew University, insegnamento a Oxford, alla Columbia e a Harvard, già consigliere di Ben-Gurion, di Weizman, di Rabin e di Peres nei rapporti sempre problematici con le volpi di Damasco, autore nel 1995 del libro «Siria e Israele: dalla guerra alla pace» , Maoz ha consegnato qualche settimana fa in tipografia un saggio sugli «Sviluppi politici e socioeconomici della Siria moderna» . Eppure, confessa, ci capisce poco: «È difficile prevedere come va a finire. Guardi l’Egitto: sono passati quasi tre mesi e non è spuntato un leader...» . La fine della legge marziale è una svolta o un bluff? «Dal 1963, da quando il partito Baath è al potere, non c’è mai stato un governo siriano senza stato d’emergenza. Le incarcerazioni senza processo, il bavaglio ai media, la cancellazione dei diritti sono parte della Siria moderna. Bashar non può farne a meno. Bisogna capire quali riforme seguiranno: se saranno elezioni vere, il Baath è già morto» . Perché l’ideologia baathista è incompatibile con la democrazia? «Esatto. In Siria, il Baath coincide con gli Assad come in Iraq coincideva con Saddam. Governo e partito sono la stessa cosa. Impossibile che sia il governo a voltare pagina. Il Baath può sopravvivere solo in una situazione di caos, ma come uno degli elementi, altrimenti è destinato a sparire come in tutto il Medio Oriente» . Colpisce il silenzio dell’Occidente: un ministro italiano, Tremonti, lo attribuisce al fatto che non ci sia petrolio... «Per la verità, un po’ di petrolio c’è anche in Siria. Ma l’interesse dell’Occidente qui è d’altro tipo: questo è uno Stato-chiave nell’"asse del male". Americani ed europei avrebbero interesse ad appoggiare un cambiamento, perché Damasco è una via di controllo sul Libano e sull’Iraq. Se non lo fanno, è perché toccare la Siria significa sfiorare l’Iran. E ogni Paese dell’Occidente, quando si parla d’Iran, ha interessi propri e ben differenziati» . Israele per chi tifa? «Da quando sono cominciate queste rivoluzioni d’inverno, Israele è preoccupato. Assad cerca da anni la pace con Israele, è Israele che non l’ha mai voluta. E allora la nascita d’uno Stato democratico, sarebbe un vantaggio. In realtà, nessuno ci crede: la democrazia non si fa solo con le elezioni, ci vogliono le tradizioni. Qualche seme democratico non darà grandi frutti. Meglio lo status quo. Perché la vera preoccupazione israeliana è l’Iran. Con tutte queste rivolte, nessuno si occupa del programma nucleare iraniano» . Sta dicendo che l’Iran ha interesse a questa rivoluzione? «Fa comodo, finché è in Tunisia. Ma in Siria, ayatollah e Hezbollah continuano ad appoggiare Assad. Non hanno interesse al fatto che cada. Hanno paura di questo cambiamento anche più dell’Occidente» . Ma lei crede alla casuale concatenazione di queste rivolte? «Sono rivoluzioni che accomuniamo, ma molto diverse. Nascono tutte da fattori come la situazione economica e la corruzione dei governi. Di Paese in Paese, però, cambiano. Altrimenti, non si spiegherebbe perché al Cairo c’è adesso una dirigenza militare, sostenuta dal popolo, assai vicina alla dinastia alauita, minoranza contestata dal popolo, che comanda a Damasco. Bisogna guardare il cambiamento con le differenze dovute. In Siria, lo scontro fra società laica e religiosa, sarà più importante che altrove. E, più che altrove, sarà difficile capire con chi stare» .
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Colta, potente, odiata: la donna che manovra per Assad "

Bouthaina Shaaban
Gli attempati vertici politici siriani, custodi della più assoluta ortodossia del regime, affascinati dalla gestione del potere di Hafez el Assad, e sempre prodighi di consigli (troppi) nei confronti del figlio Bashar, non l’hanno mai amata. Troppo indipendente, colta, coriacea, ambiziosa. Maestra di immagine. E soprattutto donna. Bouthaina Shaaban, 57 anni, sposata, tre figli, capace di gestire i suoi compiti con la forza di un ciclone, a 16 anni era già nel partito Baath. Ha poi scalato tutti i gradini del potere, fino a diventare la persona più influente nell’entourage del giovane presidente, di cui è assieme consigliera politica e consigliera per la stampa. Il potere le è stato dato per gli indubbi meriti professionali, ma in gran parte se lo è conquistato da sola, diventando prima la cassaforte dei segreti del defunto presidente Hafez el Assad, e poi quella del figlio Bashar. In che modo? Semplice. Con la sua perfetta padronanza della lingua più veicolare (ha un Phd in letteratura inglese dell’Università di Warwick), è stata infatti l’interprete di entrambi, prima di abbandonare l’incarico e diventare di fatto il braccio destro del capo dello Stato. Come fidata interprete, non soltanto ha conosciuto le asprezze e le titubanze dei due presidenti, ma pregi e difetti di molti potenti della Terra che andavano in missione in Siria. Alla fine, la dottoressa Shaaban conosceva più cose e retroscena internazionali di gran parte della nomenklatura del regime. Quando Assad è mancato, pochi mesi dopo il fallimento dell’incontro con il presidente americano Bill Clinton, a Ginevra, dove si arrivò a pochi metri dal traguardo di uno storico accordo tra la Siria e Israele, Bouthaina Shaaban è passata da subito alle dipendenze del figlio, seguito con le premure di una influente ma rispettosa sorella maggiore. È in questa fase, pur continuando occasionalmente a svolgere il lavoro di interprete, che la Shaaban ha consolidato il suo ruolo politico, prima come portavoce del ministero degli Esteri durante la guerra all’Iraq del 2003, poi come ministro degli Espatriati. Incarico tenuto fino al 2008, per volere di Bashar, che l’aveva scelta con un doppio obiettivo: continuare ad avvalersi dei consigli a tutto campo della preziosa collaboratrice, e avere un affidabile e fedelissimo punto di riferimento all’interno del governo. Un governo turbato da un crescente dissenso sociale, accentuato dopo l’assassinio a Beirut dell’ex premier Rafik Hariri, di cui in un primo tempo furono accusati i servizi di sicurezza siriani. Con determinazione la ministra ha cercato di coniugare le frequentissime missioni all’estero con periodiche interviste ai grandi network, soprattutto occidentali. La padronanza della lingua inglese e la certezza di saper interpretare perfettamente il pensiero del presidente le hanno ovviamente creato problemi, invidie e gelosie. Alimentati dal ruolo di consigliera a tutto campo, che di fatto la pone al di sopra di quasi tutte le istituzioni politiche. A parte ovviamente quegli apparati di sicurezza che secondo alcuni analisti contano persino più dello stesso presidente. In questi giorni Bouthaina Shaaban, per amor di tesi e per la volontà di servire al meglio il suo turbato superiore, probabilmente ha ecceduto. Come quando ha detto di non seguire altre televisioni per sapere la verità: «Visto che queste cose succedono in Siria, l’unica tv che dice la verità è quella statale!» . Polemica evidente nei confronti di Al Jazeera, il canale arabo del Qatar più seguito dalla gente e più odiato dai regimi. Però la consigliera ha anticipato, con un intervento pubblico, che verrà ritirato lo stato di emergenza, in vigore dal 1963, e che il presidente parlerà alla nazione per illustrare il suo piano di riforme. Ma basterà?
Il GIORNALE - Livio Caputo : " Il doppiopesismo degli europei segna la fine della politica estera Ue "

Livio Caputo
La rapida avanzata dei ribelli libici, protetti dall’aviazione alleata, nel Golfo della Sirte e la graduale estensione della rivolta araba a sempre nuovi Paesi stanno mettendo in crescente imbarazzo i governi occidentali. Gli interrogativi si accavallano. Fino a che punto è lecito intervenire nella guerra civile libica sulla base della risoluzione del Consiglio di sicurezza? È legale attaccare le truppe lealiste quando non minacciano la popolazione civile, ma si limitano a combattere i ribelli? Si può fornire armi a questi ultimi,nonostante l’embargo che sulla carta riguarda l’intero Paese? L’intervento deve essere solo umanitario o può avere come obbiettivo anche l’abbattimento del regime o addirittura la eliminazione fisica di Gheddafi? Come lo si può giustificare sul piano morale se non si procede anche contro il regime siriano, che sta massacrando la popolazione civile esattamente come faceva il colonnello? Quanto ci si può fidare dei ribelli? In quali Stati appoggiare la piazza conviene e in quali sarebbe autlesionistico? Le risposte a queste domande variano da Paese a Paese, dando vita a contrasti sempre più forti e favorendo inedite alleanze: nella Ue, per esempio, si sta delineando un asse italo-tedesco, che giudica eccessiva e potenzialmente pericolosa la interferenza di Parigi e Londra in Libia e spinge per una soluzione negoziata, che eviti nuove stragi e tenga conto che Gheddafi, senza aviazione e con le armi pesanti decimate, mantiene pur sempre il controllo della Tripolitania e difficilmente potrà essere sloggiato manu militari senza andare molto oltre la deliberazione dell’Onu. La richiesta avanzata ieri dal governo libico di un cessate il fuoco e di una riunione del Consiglio di sicurezza dovrebbe aiutare questo piano. Idee simili, del resto, cominciano a farsi strada anche negli Stati Uniti, dove il discorso di Obama in difesa dell’intervento non ha convinto l’opinione pubblica e il Pentagono preme per un rapido ridimensionamento del ruolo americano.
Washington comincia a prendere in considerazione la possibilità di un conflitto prolungato, con Gheddafi arroccato nella capitale e i ribelli incapaci di dargli la spallata finale, che potrebbe portare a una spaccatura permanente del Paese.Oltre tutto l’Occidente non può ignorare che la Lega araba, che pure aveva dato luce verde alla risoluzione del Cds per la diffusa antipatia verso Gheddafi, comincia a dare segni di inquietudine per la pesantezza dell’intervento militare occidentale.
Altrettanto difficile è il discorso su come reagire alle rivendicazioni nei diversi Paesi. Qui si tratta di bilanciare i proclami a favore dei diritti umani e della democrazia con le esigenze della Realpolitik.Finora l’Occidente ha usato due pesi e due misure. Ha appoggiato la rivolta in Libia, Tunisia ed Egitto, salvo a nutrire già qualche timore sugli ultimi sviluppi politici al Cairo.
È incline a sostenere la incipiente rivoluzione in Siria contro un regime alleato con l’Iran,anche se teme che una rivolta della maggioranza sunnita contro gli Alauiti al potere possa gettare il Paese nel caos e coinvolgere anche Libano e Israele. Sarebbe felice se la piazza araba contagiasse anche quella iraniana, ridando slancio a quel movimento di opposizione che l’anno scorso fece tremare gli ayatollah e fu poi soffocato nel sangue. Al contrario, teme che l’effetto domino investa Arabia Saudita, Bahrein, Oman, Emirati arabi uniti, fedeli alleati degli Stati Uniti nel confronto con l’Iran e insostituibili fornitori di petrolio. Nessuno, infatti, si è sognato di protestare quando re Abdullah, senza prevenire gli Stati Uniti, ha inviato duemila uomini nel Bahrein per soffocare la rivolta sciita. Neppure la rivolta contro il corrotto e tirannico presidente yemenita Saleh è vista di buon occhio, per il rischio Al Qaeda.
La rapidità con cui si sviluppano gli eventi e gli spesso contrastanti interessi nazionali rendono ancora più difficili le scelte e impediscono ai Paesi occidentali di concordare posizioni comuni. Un effetto collaterale della rivolta araba rischia di essere proprio la fine della politica estera e di difesa comune della Ue, prevista dal Trattato di Lisbona ma resa oggi impossibile dalle velleità di grandeur della Francia e dalle pulsioni belliciste della Gran Bretagna.
La STAMPA - Lucia Annunziata : " A Damasco il gorgo del mondo "

Lucia Annunziata
La Siria sta rapidamente raggiungendo un punto di non ritorno. Di fronte al presidente Assad si apre un bivio molto semplice: di qua le riforme, di là la repressione. Quale sarà la direzione che Damasco prenderà si saprà in non tanto tempo.
Ieri le cose lasciavano sperare: sono state annunciate la cancellazione dopo 48 anni dello stato d’emergenza imposto nel 1963 e le dimissioni dell’attuale gabinetto di governo. Ma alla fin fine, come ci hanno insegnato fin qui le altre rivolte arabe, il livello di riforme necessarie a calmare le acque o è molto alto o è inesistente. E la leadership dell’erede del Leone di Damasco, come lo definisce nella sua migliore biografia Patrick Seal, non ha mai dato fin qui particolari segni di forti capacità né strategiche né politiche - nemmeno nel senso di forza repressiva che il padre era capace di scatenare.
Per cui, se tanto dà tanto, al di là anche delle intenzioni della presidenza, molto presto la Siria potrebbe diventare terreno di intervento di altre potenze regionali. Non intendiamo qui né un’occupazione militare né tanto meno un intervento diretto degli occidentali.
I giochi dentro questa nazione sono però troppi e troppo aperti perché la rivolta contro gli Assad proceda troppo a lungo e vada fuori controllo. La ribellione siriana sarà pure, infatti, parte dell’onda delle rivoluzioni popolari del Nord Africa, ma sposta l’asse della storia dal Mediterraneo alla regione a più alta tensione del mondo - il triangolo petrolifero tra Iran, Iraq e Arabia Saudita. Il paradosso è dunque che proprio un Paese senza petrolio, qual è la Siria, rischia di aprire una falla nel faticoso equilibrio che negli ultimi dieci anni si è costruito intorno alla cassaforte energetica mondiale.
L’importanza di Damasco è scritta sulla carta geografica, dove si colloca, oggi come nei secoli scorsi, al centro di un vasto incrocio. Sul vicino Libano esercita da anni un protettorato senza scrupoli, che negli anni ha fatto sentire il suo pugno di ferro nei momenti chiave - dal bombardamento contro il generale cristiano maronita Michel Aoun a Beirut Est, con cannoni di lunga gittata, nel 1989, all’uccisione nel 2005 dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri che aveva guidato la rinascita del Libano dopo la Guerra civile. Oggi il ruolo di Damasco è quello di costituire un santuario politico per gli Hezbollah che senza governare pienamente controllano la vita politica in Libano, e per le forze palestinesi radicali di Hamas nella Striscia di Gaza: è tramite la Siria, infatti, che arriva a questi movimenti l’appoggio logistico (armi) e politico dell’Iran.
A proposito di religione, va notato che la Siria è governata dagli Assad che sono una minoranza sciita alawita in un Paese a maggioranza sunnita. L’esatto contrario di quel che è stato l’Iraq di Saddam Hussein, per intenderci. Il che la dice lunga nel rapporto con l’Iraq attuale.
La tensione inter-islamica è all’origine di uno degli episodi della formazione della Siria moderna la cui memoria oggi rischia di avere molto peso negli eventi di questi giorni: nel 1982, nella città di Hama, Assad padre sterminò ventimila persone per dare una lezione ai Fratelli Musulmani. Oggi però l’esercito popolare è a maggioranza sunnita, e questo mette a rischio la coesione dell’intervento del governo centrale.
Delle frontiere che la Siria ha con Israele e con la Turchia, e del ruolo che ha nella politica di questi due Paesi, si sa molto. Infine va considerato il legame, anche sociale, fra la Giordania e la Siria, entrambi Paesi con una vasta popolazione di palestinesi, retaggio del conflitto arabo-israeliano. E in Giordania l’opposizione islamista agita le piazze e ha chiesto le dimissioni del primo ministro Maaruf Bakhit.
Quante possibilità ci sono che questo gorgo non diventi un ingovernabile caos che si scarica su tutti i Paesi confinanti?
Per Washington infatti la Siria pone un serio dilemma. L’indebolimento degli Assad sarebbe positivo per gli Usa perché indebolirebbe l’influenza regionale iraniana. Ma una crisi non risolta bene e presto rischierebbe di scalfire il precario equilibrio iracheno. Per ora si sa che a Damasco il nuovo ambasciatore Usa, Robert Ford, sta fortemente consigliando al Presidente la via delle riforme.
Ma lo scenario è pronto, come si diceva, per una sorta di apertura a un intervento di potenze esterne. È possibile che più o meno apertamente si muova l’Iran: un po’ di settimane fa, come si ricorderà, subito dopo la caduta di Mubarak, il Canale di Suez fu attraversato da due navi da guerra iraniane. La loro apparizione nel Mediterraneo suscitò allarme. Quelle navi erano dirette in Siria, e ancora lì stanno. Si muove tuttavia anche la Turchia, altra potenza che in questa crisi libica ha assunto peraltro un maggior ruolo nei confronti degli Stati Uniti. Fra Istanbul e Damasco corrono relazioni, anche recenti, «fraterne», con una vigile presenza dell’abile Erdogan sul fragile giovane Assad.
Un altro dilemma dunque si è aperto, un altro gioco nel Grande Gioco. Un altro possibile deragliamento del mondo arabo, in una maniera o nell’altra, è dietro l’angolo.
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