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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-IlSole24Ore Rassegna Stampa
27.03.2011 Le rivolte arabo-musulmane e la teoria degli 'aiuti umanitari'
Analisi di Maurizio Molinari, Christian Rocca

Testata:La Stampa-IlSole24Ore
Autore: Maurizio Molinari-Christian Rocca
Titolo: «Dopo le colonie, il Rinascimento-Il grande rischio; pensiero unico su Guerra e pace»

La rivolta del mondo arabo-musulmano e la teoria degli 'aiuti umanitari' sono lo spunto per due analisi della politica internazionale sulla STAMPA, con Maurizio Molinari, sul SOLE24ORE con Christian Rocca.
Ecco i loro articoli:

La Stampa-Maurizio Molinari: " Dopo le colonie, il Rinascimento "


Maurizio Molinari

Le rivolte arabe come l’inefficacia dell’Onu e la debolezza dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) sono manifestazioni dello stesso fenomeno: la dissoluzione dell’architettura internazionale frutto dell’era coloniale, che schiude le porte a un «nuovo Rinascimento» destinato ad avere per protagonisti popoli definiti su base etnica, individui armati di cellulari e gruppi accomunati da perseguire singoli obiettivi. È questa la tesi che Parag Khanna, 34 anni, esperto di strategia della «New American Foundation» di Washington, illustra nelle 221 pagine di «How to Run the World» (Come governare il mondo), offrendo una chiave di lettura per comprendere quanto sta avvenendo da Tripoli a Srinagar. «Chi si è affrettato a dichiarare morta la globalizzazione deve ricredersi, siamo nel bel mezzo di una dissoluzione degli Stati post-coloniali destinata a far emergere popoli congelati dalla Storia» sostiene Khanna, parlando di «entropia universale», unmovimento «dall’ordinemedioevale in cui viviamo» a una «fase di disordine » segnata da «forza di idee, identità e individui», i cui sintomi sono nelle nuove tecnologie vettori di libertà, nellamoltiplicazione di associazioni che perseguono obiettivi come le fonti alternative di energia e nel risveglio di etnie congelate da intese fra potenze risalenti all’800. Per motivare questa tesi, Khanna esamina quanto sta avvenendo sul terreno. In Africa i confini fra gli Stati sono nellamaggioranza dei casi ancora quelli disegnati dal Congresso di Berlino del 1884, quando a guidare la Germania era Bismarck, con il risultato di avere in Sudan uno Stato grande il doppio dell’Alaska in via di disintegrazione - dalla recente indipendenza del Sud alle violenze in Darfur -, in Nigeria una delle maggiori potenze petrolifere lacerata dalle faide fra cristiani e musulmani, e nella Repubblica democratica del Congo una «obsoleta finzione» voluta da Leopoldo II del Belgio per controllare le miniere di cobalto a dispetto delle differenze fra oltre 200 etnie. In Medio Oriente è invece l’eredità dell’accordo Sykes- Picot del 1916, con la spartizione dei territori dell’Impero Ottomano fra Londra e Parigi, a essere all’origine di confini fittizi: dall’Iraq del dopo-Saddam, dove a imporsi sono sciiti, sunniti e curdi, all’ex Palestina britannica dove esiste la Giordania - artificialmente creata nel 1922 - mentre manca uno Stato per i palestinesi a fianco di Israele. Post-coloniali sono anche i confini della Libia governata da Gheddafi, che prima di essere invasa dagli italiani nel 1911 era divisa nelle stesse Tripolitania, Cirenaica e Fezzan che stanno riemergendo adesso. Spostandosi verso l’Asia centrale lo scenario non cambia perché Iran, Afghanistan e Pakistan sono Stati che le potenze coloniali crearono attorno a gruppi etnici - persiani e pashtun - a dispetto di altri, come i beluchi. Per Khanna, se il «vecchio colonialismo» generò confini artificiali artificiali - come quelli che lacerano il Kashmir - c’è un «nuovo colonialismo» che vorrebbe mantenerli ma si scontra con «l’entropia universale» destinata a cambiare la geopolitica con l’affermarsi di realtà come il Pashtunistan, il Beluchistan o il Kurdistan, fondate sull’identità di popoli realmente esistenti in «zone delmondo ricche di risorse lungo l’anticaVia della Seta». Ai governanti che tentano di salvare Stati artificiali come la Somalia temendo l’«avvento dei terroristi», Khanna risponde che «se il problema sono gli Stati falliti la soluzione non sono i governi centralizzati» ma l’autodeterminazione dei popoli che vi risiedono. In concreto ciò significa che il XXI secolo potrebbe veder nascere una moltitudine di nuove nazioni portando a un «risveglio della diplomazia che è il secondo mestiere più antico del mondo», con il risultato di far emergere «un mosaico di movimenti, accordi, network e codici» destinati a sostituire organizzazioni internazionali centralizzate al punto da risultare immobili, come dimostra il fallimento del Wto sul commercio globale e l’incapacità della Conferenza di Copenhagen di arrivare a un accordo sul clima, «sebbene unamoltitudine di individui e Ong già operino singolarmente contro i gas serramentre una nuova generazione di mercanti domina gli scambi globali». È questa la genesi del «Rinascimento» che Khanna vede all’orizzonte, destinato a essere però basato su un documento già esistente che rappresenta il legame fra presente e futuro: la Dichiarazione universale dei diritti umani.

IlSole24Ore-Christian Rocca: " Il grande rischio; pensiero unico su Guerra e pace "


Christian Rocca

Guerra umanitaria, guerra giusta, guerra democratica. Peace-keeping, peace-enforcing, operazione di polizia internazionale. Difesa attiva. Missione di pace. Operazioni impreviste d'oltremare. Fino all'ultima trovata lessicale coniata in ambito obamiano per descrivere con la neolingua del politicamente corretto l'imposizione della no-fly zone sui cieli libici: azione militare cinetica. Formulazioni retoriche a parte, dal 1999 l'occidente combatte sempre la stessa guerra: la guerra buona, etica e morale ideata un decennio dopo la caduta del Muro di Berlino da due leader della sinistra mondiale, Tony Blair e Bill Clinton. Una guerra capace di mobilitare le coscienze, legittimata a violare la sovranità nazionale in nome del diritto di ingerenza democratica, volta a fermare preventivamente i massacri, i genocidi e la pulizia etnica.

Dietro questa finzione si nasconde il nuovo modo occidentale di fare la guerra, in realtà l'unico. Non c'è grande differenza ideologica tra gli interventi militari in Bosnia, Kosovo, Iraq, Libia e la continuazione della guerra in Afghanistan. Non è un caso che, tranne qualche eccezione, tra i promotori e in prima fila ci siano sempre gli stessi politici e intellettuali americani ed europei: Blair, i suoi eredi di sinistra e di destra; la famiglia Clinton e i suoi consiglieri, esperti e analisti; gli opinionisti Andre Glucksmann, Bernard Henry Lévy, Christopher Hitchens, Leon Wieseltier e Paul Berman; le riviste liberal come «New Republic» e le pagine degli editoriali del «Wall Street Journal». Ideologicamente, interventisti liberal e neoconservatori si dividono soltanto sul ruolo delle istituzioni internazionali, dai neocon giudicate un freno al potere americano e dai liberal come un'utile legittimazione politica del dominio statunitense. Entrambi credono nella promozione della democrazia, nella forza militare come strumento per centrare obiettivi umanitari, nel diritto-dovere dell'occidente di riparare i guasti del mondo. Si arriva a un paradosso, il paradosso umanitario, ha scritto l'opinionista di sinistra David Rieff in Un giaciglio per la notte (Carocci): chi si batte per il rispetto dei diritti umani, per la pace e per la democrazia invoca interventi militari per raggiungere quegli obiettivi. La strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni umanitarie, secondo Rieff. La pace può anche essere violenta, argomenta il giurista e romanziere Stephen L. Carter nel saggio The violence of peace con cui esamina le idee di Obama sulla guerra giusta, etica e morale.

Le radici ideologiche della guerra buona&giusta si rintracciano nel movimentismo libertario del Sessantotto francese e americano, ha raccontato Paul Berman in Idealisti e Potere. Ma anche nella tradizione delle Brigate internazionali che negli anni Trenta hanno combattuto la guerra civile spagnola, oltre che nell'esperienza dell'antifascismo democratico italiano. Carlo Rosselli, intellettuale, politico e militante riformista, scriveva che «una sola politica di intervento, volta a far risparmiare al mondo un nuovo massacro, sarebbe concepibile e accettabile», così come «un intervento che avesse lo scopo preciso e proclamato di appoggiare una rivoluzione antifascista».

La fine della storia, annunciata prematuramente da Francis Fukuyama nel 1993, è stato il collante ideologico ottimista capace di convincere i giovani leader occidentali dell'ineluttabilità di un futuro democratico. Il pessimismo di Samuel Huntington, secondo cui semmai stavamo pericolosamente andando verso uno scontro di civiltà, è stato messo da parte. L'archiviazione della Guerra fredda, la diffusione della democrazia, i progressi tecnologici, la circolazione delle notizie in tempo reale e la globalizzazione hanno archiviato l'era dell'indifferenza, delle politiche isolazioniste, della sacralità della sovranità popolare. Far finta di niente di fronte a massacri, pulizie etniche e genocidi è diventato insopportabile, insostenibile, vergognoso. Mai più, never again, not on my watch sono diventati gli slogan morali di ogni leader occidentale di destra e di sinistra. Blair e Cameron. Clinton e Bush. Obama e Sarkozy.
Le guerre buone dell'occidente hanno origine in eventi traumatici che il mondo non è riuscito a evitare o che finalmente ha deciso di fermare: l'assedio di Sarajevo ha costretto Blair e Clinton a intervenire in Bosnia. Le indicibili atrocità di Srebrenica e del Ruanda hanno convinto i leader angloamericani a fermare i progetti di pulizia etnica in Kosovo. Gli attacchi dell'11 settembre hanno portato un presidente conservatore come George W. Bush, eletto con una piattaforma di politica estera definita "umile", a fare squadra con Blair per intervenire nel mondo arabo e islamico, anche col sostegno politico e le prove anti Saddam di Clinton, contro i talebani e contro un dittatore stragista che aveva velleità espansioniste, rapporti col terrorismo e progetti nucleari.

Il vento di rivolta anti-autoritaria in Nord Africa e la repressione violenta di Gheddafi hanno convinto Obama, un presidente eletto con l'idea di fare la pace con i nemici, di non rimuoverli dai loro palazzi. Obama ha seguito i consigli degli interventisti liberal del suo team per evitare che a Bengasi si concretizzasse una nuova Srebrenica. Tra i suoi consiglieri, oltre a Hillary, moglie di Bill Clinton, c'è Samantha Power, vincitrice del Premio Pulitzer per Voci dall'Inferno. L'America e l'era del genocidio, il saggio-manifesto sull'indifferenza occidentale nei confronti dei massacri in Bosnia e del genocidio in Ruanda.

La retorica negli anni di Bush è stata più belligerante e meno ipocrita («war on terror», «long war», «surge»). Ma nella versione intellettuale di sinistra, la sua spavalderia da cowboy al massimo diventa la teoria del «male minore» proposta dal filosofo canadese e leader politico democratico Michael Ignatieff in The lesser evil. Political Ethics in an age of terror: a volte è necessario usare la forza per sconfiggere un male maggiore, ma non illudiamoci di fare una cosa bella. Stiamo solo scegliendo il male minore.
Il principio è chiaro: quando la forza è usata come strumento di liberazione invece che di oppressione, come mezzo per migliorare la dignità e per mitigare la sofferenza umana, può essere considerata moralmente necessaria.

L'Italia ha partecipato a tutte le guerre umanitarie. Con o senza l'assenso delle Nazioni Unite. Con governi di destra e di sinistra. Spesso con spirito bipartisan, l'unico che i due schieramenti abbiano mostrato di avere negli ultimi tre lustri. L'obiettivo finale è stato sempre quello della destituzione del despota: il regime change. A volte è stato detto esplicitamente, a volte no.

L'articolo 11 della nostra Costituzione afferma che «l'Italia ripudia la guerra», ma non si ferma lì, definisce anche il tipo di guerra che l'Italia ripudia: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli». Non c'è alcun divieto se la guerra non offende la libertà di altri popoli, se anzi la difende, la preserva, la garantisce. La Costituzione antifascista vieta le guerre di aggressione e l'uso della forza contro i popoli liberi, non gli interventi militari a favore degli oppressi. L'articolo 11 continua spiegando che l'Italia ripudia la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ma un genocidio o una pulizia etnica o una minaccia di sterminio non sono più considerate «controversie internazionali».
Queste guerre non sono mai soltanto umanitarie. Non servono soltanto a prevenire una tragedia o a espiare la colpa di non essere riusciti a evitarne una precedente. L'elemento buonista c'è in ciascuna di esse, compresa in quella irachena per esportare la democrazia, anche perché il fattore umanitario assieme a quello della paura di un attacco catastrofico è l'unico capace di mobilitare l'opinione pubblica occidentale, altrimenti indisponibile a riconoscere la presenza del male nel mondo.
Le guerre umanitarie sono anche geostrategiche. L'intervento nei Balcani è servito a cacciare un dittatore nazionalista al centro dell'Europa e ad allargare l'area democratica e atlantica fino ai confini con la Russia. Con la destituzione di Saddam e dei talebani, gli americani non hanno soltanto liberato due popoli, ma anche reagito agli attacchi islamisti del 2001 mutando lo status quo dispotico mediorientale e avviando un complesso esperimento democratico che si basa su elezioni e Costituzione.
La no-fly zone sulla Libia serve a impedire a Gheddafi di sterminare senza pietà una delle due fazioni della guerra civile libica. Ma l'intervento è diventato necessario anche per un altro motivo, meno umanitario. Se Gheddafi fosse lasciato libero di sterminare gli insorti, diventerebbe un pericoloso modello per tutti gli altri despoti della regione, un esempio diverso rispetto a quello dei dimissionari Mubarak e Ben Alì. Le conseguenze geopolitiche e umanitarie sarebbero devastanti.
Le riflessioni più acute sulla guerra umanitaria restano quelle di Sant'Ambrogio e di Sant'Agostino, secondo i quali difendere gli altri è un atto moralmente superiore rispetto alla difesa di se stessi. La guerra umanitaria concilia i principi etici e gli interessi nazionali, definisce la statura politica e morale di un leader di governo. Sono stati, infatti, due discorsi politici ad aver elaborato i principi della guerra etica. Il primo è di Tony Blair, a Chicago nel 1999. Il secondo è di Obama a Oslo, in occasione del Premio Nobel 2009.
Citando Milosevic e Saddam, Blair ha spiegato che il genocidio non può essere considerato una questione interna di uno stato sovrano, che l'ingerenza negli affari interni di un paese è giustificata quando il regime perde legittimità perché massacra il suo stesso popolo e quando l'oppressione produce profughi, esodi di massa e diventa quindi una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale.
A Oslo, Obama ha detto che Gandhi e Martin Luther King sono grandi esempi etici. Ma da soli non bastano, perché il male esiste e va affrontato anche con gli strumenti della guerra. Per prevenire il massacro di civili o per fermare una guerra intestina, le cui violenze e sofferenze potrebbero inghiottire un'intera regione, ha spiegato il Nobel per la Pace, l'uso della forza è giustificato

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