Sono bastate 24 ore a Francesca Paci a Damasco per mandare alla STAMPA un articolo completamente differente da quello che è stato pubblicato ieri. Nel pezzo di oggi, 27/03/2011, l'inviata si rende conto della realtà siriana e racconta quel che accade realmente; non arriva a dire che l'influenza terrorista della Siria nella regione c'era, e molta, ma un passo avanti c'è stato. Ignora Israele, visti i rapporti stretti tra la Siria di Assad con gli Hezollah in Libano, eppure sono argomenti che Paci dovrebbe conoscere, dato che è stata fino allo scorso anno corrispondente a Gerusalemme.
Lo nota invece Carlo Panella su LIBERO,con un esplicito riferimento a Israele,come anche Livio Caputo sul GIORNALE. Riccado Pelliccetti sul Giornale, riporta ingenuamente l'opinione di una guida turistica, senza sapere che le guide, nei paesi dittatoriali, sono il megafono della voce del padrone.
Ecco gli articoli:
La Stampa-Francesca Paci " A Daraa, dove è nata la rivolta, siamo stati zitti, ora basta "

Francesca Paci
Ditelo, ditelo in Italia, fuori, dite che vogliamo solo libertà: sono 41 anni che stiamo zitti» ripete il trentaduenne Ziad. Lo ripete ossessivamente versando tè «offerto dalla rivoluzione» nel ristorante di famiglia al centro di Daraa, la cittadina a un centinaio di chilometri a Sud di Damasco dov’è cominciata la rivolta contro Bashar al Assad. A sette giorni dal primo venerdì della rabbia siriana l’opposizione al presidente non arretra. La capitale è stretta compatta intorno al raiss e non passa notte che i suoi sostenitori non lo ribadiscano con caroselli di auto imbandierate. Ma qui, a sei chilometri dal confine giordano e una mezz’ora dalle alture del Golan, tra greggi di pecore e distese di ulivi punteggiate da contadini con la koefia rossa avvolta intorno alla testa per proteggersi dal sole, sfidare il potere non inibisce più Abdullah ha 54 anni, otto figli, un piccolo bazar a metà di shara Hanunu, la via che i ribelli vogliono ribattezzare shara Mhamoud Jawabra in memoria del primo dimostrante ucciso dalla polizia: «Ho passato tutta la mia vita sotto gli Assad - dice -. Ho aspettato, come tutti che cambiasse qualcosa, ma il tempo è volato. Poi si è sollevata la Tunisia, l’Egitto, la Libia, e anche i nostri ragazzi hanno preso coraggio e hanno contagiato noi anziani. In una settimana qui a Daraa sono state ammazzate 250 persone ma ormai abbiamo vinto la paura e non torniamo indietro».
Daraa, capoluogo della regione rurale dell’Hawran, galleggia in un’atmosfera sospesa, inquietante. Internet e i cellulari non funzionano, i giornalisti sono stati allontanati e le telecamere bandite, ma arrivando in città con lo spartano autobus di linea non s’incontrano check point. I militari ci sono: devi però riconoscerli dietro i vetri di suv con l’adesivo di Assad che si aggirano per i viali polverosi e deserti all’ingresso della città. «In centro non vengono molto, entrano e escono, stamattina hanno sparato di nuovo» racconta il fornaio Samar cominciando ad abbassare la saracinesca e ritirando veloce le pagnotte dal banco sul marciapiede. Che succede? «Passa la rivoluzione» esclama. In un minuto la strada si riempie di dieci, cento, cinquecento manifestanti che gridano hurryia, libertà. Ci sono uomini più e meno giovani, adolescenti, due sole ragazze a differenza delle tante di Tunisi e del Cairo, ma nessuno ha armi e pochissimi masticano un po’ d’inglese. Ne sono fieri, spiegano, perché la loro provincialità dimostra quanto sia «bugiarda» la teoria governativa dell’influenza straniera sulla protesta. «Quando abbiamo attaccato il palazzo di giustizia era perché ci avevano sparato addosso, ci hanno sparato addosso subito, al primo corteo» insiste il tassista Ahmad mostrando lo scheletro dell’edificio bruciato. Poco distante, il manifesto di Assad con la scritta «I believe in Siria» (Io credo nella Siria) è stato strappato, timido gesto di sfregio prima dell’abbattimento della statua del padre, il defunto presidente Hafez al Assad. In fondo la rabbia siriana è esplosa qui, tra queste abitazioni squadrate, sovietiche, senza traccia della raffinata architettura di Damasco, da cui si affacciano donne velate che stendono jallabie, le tuniche dei mariti abbigliati in modo assai più tradizionale che nella capitale. Il malcontento covava, ripetono tutti. L’aumento del gasolio, l’immigrazione dei connazionali dell’Est spinti dalla siccità verso una località di 770 mila anime e scarsissime risorse, la mancanza di prospettive. Ma serviva un simbolo. In Tunisia era stato il suicidio del fruttivendolo Mohamed Bouazizi, in Egitto il blogger e attivista Khaled Said ucciso dalla polizia, a Bengasi l’incarcerazione dell’avvocato che difendeva le famiglie delle vittime del carcere di Abu Salim. A Daraa è stato l’arresto di venti bambini rei di aver scritto sui muri slogan anti-regime e in favore della primavera araba. «Ma come si fa ad arrestare dei bambini che scrivono sui muri? Pare che gli abbiano strappato le unghie» confida il muratore Mohammad mentre una piccola folla si raduna davanti alla moschea Omari, dove mercoledì le forze di sicurezza hanno fatto irruzione con la forza uccidendo almeno sei persone. Si celebra il funerale di una delle vittime di venerdì, gli amici caricano la bara di legno celestino su un furgone sgangherato e benedicono il «martire».
«La protesta ha anche una connotazione religiosa, la regione di Daraa ha una forte presenza sunnita e confina con una regione giordana molto islamizzata. Anche se non condivido la violenza del governo e sono deluso dalle promesse di riforme mai mantenute dal presidente ho paura di un futuro di caos e settarismo» ammette l’architetto Alsham al caffè dell’hotel Four Season di Damasco. La protesta in realtà si sta estendendo. Ieri ci sono stati scontri a Homs, Sanamein, Daeel, Duma, Tafas, Hama, dovenel 1982 fu repressa nel sangue u n ’ i n s u r r e z i o n e guidata dai Fratelli musulmani, perfino a Latakia, principale porto nella Siria del Nord e centro alawita da cui proviene la famiglia al Assad. Ma il Sud rivendica l’orgoglio dei pionieri. «Abbiamo cominciato noi» proclama Ziad mentre la Bbc in arabo rilancia la notizia di un possibile imminente discorso televisivo del presidente alla nazione. La sera a Daraa cala prima che altrove. Il tramonto è ancora lontano ma i cortei mordi e fuggi, le saracinesche serrate, gli sguardi sempre vigili a cercare di riconoscere un’uniforme dietro i vetri di un’automobile meno scalcinata delle altre, rendono la bella luce mediorientale cupa, buia. Se ne accorgono anche gli abitanti: «Ditelo fuori cosa succede qui, il mondo deve vederci».
Il Giornale-Riccardo Pelliccetti: " La Siria brucia, ma la rivolta non è
"

Riccardo Pelliccetti
«Non ci fermeremo, non crediamo alle false promesse di riforma: scenderemo in piazza ogni giorno finché non avremo la libertà». I messaggi rimbalzano su Facebook per chiamare alla raccolta gli oppositori del regime di Bashar Assad. È inutile nasconderlo, la situazione in Siria è precipitata nell’arco di pochi giorni. Il fuoco della rivolta si è acceso mercoledì nel sud del Paese, a Dar’a, dove la gente è inizialmente scesa in piazza contro il governatore della provincia, accusato di essere corrotto. La repressione è stata violenta, anche se il bilancio delle vittime è ancora un punto interrogativo e varia a seconda delle fonti: dai 20 ai 100 morti.Eppure nell’ultimasettimana la situazione appariva tutt’altro che destinata a precipitare. Abbiamo attraversato la Siria da nord a sud e in tutte le città, da Aleppo fino a Bosra, il clima era più che tranquillo e non c’erano segnali evidenti di un’imminente rivolta. Tantissimi turisti, in gran parte italiani ed europei. E affollate di stranieri non erano soltanto le mete archeologiche ma anche le principali città. Solo raggiungendo il sud, ai confini con la Giordania, la tensione era palpabile. La strada che portava a Dar’a era bloccata dalle forze di sicurezza, la città era circondata e isolata, nessuno poteva avvicinarsi. Era il mercoledì della protesta, ma le notizie filtravano a rate. Le fonti ufficiali minimizzavano gli scontri. Qualcuno affibbiava la colpa ai palestinesi, accolti come profughi dopo la diaspora negli anni ’70, altri parlavano con timore di una nuova fiammata integralista. Ma il governo ha reso difficili le comunicazioni: internet va a singhiozzo e dopo la rivolta di Dar’a è diventato difficile perfino inviare e ricevere sms. A Damasco tutti hanno pensato, o forse è meglio dire sperato, che la rivolta fosse un episodio isolato. Così non è stato. E lo si vede camminando per il centro storico della capitale, dal suk alla grande moschea degli Omayyadi fino al palazzo Azem: poliziotti e agenti di sicurezza in borghese sono schierati in ogni punto strategico, pronti a sedare qualsiasi tentativo di protesta.
Giovedì la contestazione è continuata, mentre a Damasco il partito Baath del regime mobilitava i suoi sostenitori per una serie di manifestazioni che inneggiavano alle riforme appena annunciate dal presidente: revoca dello stato d’emergenza, elezioni aperte a tutti i partiti a eccezione di quelli religiosi, aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici, indennità per i disoccupati. Per un momento tutti si sono illusi che ciò sarebbe bastato ad arrestare l’onda della protesta. Ma venerdì, dopo la preghiera, le manifestazioni si sono estese in molte città siriane e continuano tutt’ora. Francamente, non è ancora una rivolta di popolo: a Damasco sono scese in corteo circa 200 persone e i numeri non sono molto superiori nelle piazze delle altre città. Il vero epicentro della rivolta è il sud: per il quarto giorno consecutivo Dar’a è stata messa a ferro e fuoco, con assalti alla sede del partito Baath e scontri sanguinosi tra manifestanti e forze di polizia ed esercito. Cortei spontanei si sono formati nelle località circostanti con l’obiettivo di raggiungere in marcia i rivoltosi di Dar’a. E la rivolta ha contagiato anche la roccaforte alawita di Latakia. La reazione del regime è stata ancora una volta durissima: fonti locali parlano di oltre 100 vittime dall’inizio di una protesta che non sembra placarsi neppure di fronte alle riforme promesse e alla scarcerazione, annunciata ieri dal presidente Assad, di oltre 200 prigionieri politici. Sono le prime sostanziali aperture del regime. Basteranno? Molti analisti concordano nel dire che quella di Assad, vista dal mondo arabo, è una dimostrazione di debolezza. E i fatti sembrano confermarlo:l’opposizione interna al regime non alcuna intenzione di fermarsi e continua a chiamare a raccolta la gente in piazza.
A Damasco la gente non parla volentieri. Gli unici che cercano di dare spiegazioni sono le guide turistiche che, incalzate dagli ospiti stranieri, esprimono la loro opinione sulla situazione. Ahman fa la guida turistica da alcuni anni, parla bene l’italiano ed è cristiano, una minoranza religiosa che in Siria sfiora il 10% a fronte di una maggioranza islamica divisa tra sunniti (74%), alawiti (una frangia sciita, che nonostante sia una minoranza domina il Paese: la famiglia Assad e i vertici dello stato e militari sono alawiti) e drusi, che insieme non superano il 13%. «È vero, non c’è abbastanza democrazia come la intendete voi - dice Ahman- . Ma viviamo dignitosamente. Qui c’è uno stato laico e per ora siamo tutelati. Forse le riforme di Assad non saranno sufficienti, ma se dovesse cadere lasciando spazio ai partiti religiosi per noi sarebbe la fine. Come in Iraq, dove i cristiani sono costretti a fuggire per le persecuzioni».
Il presidente Bashar Assad, quindi, può contare ancora su numerosi sostenitori, sia perché è considerato il male minore sia perché il regime e l’esercito sono una roccaforte alawita, uniti indissolubilmente allo stesso destino. La partita è ancora aperta e la strada verso la democrazia ancora lunga.
Il Giornale-Livio Caputo: " Una chance rischiosa per spezzare l'asse con Teheran "

Livio Caputo
Il regime siriano, ultimo obbiettivo della piazza araba, è solo in apparenza simile a quelli di Tunisia, Egitto e - parzialmente - Libia, già travolti dalla contestazione: eguale è il rigore poliziesco con cui vengono repressi gli aneliti alla libertà e alla democrazia, ma diverse sono le origini, la struttura e soprattutto la politica estera. È, nello stesso tempo, figlio di un partito, il Baath (motto «Unità, libertà socialismo ») che ha svolto un ruolo importante nella storia del Medio oriente; feudo di una famiglia, gli Assad, che domina il Paese da quando, 40 anni fa il vecchio Hafez, allora comandante dell’aviazione, mise fine con un colpo di Stato a un periodo di grande turbolenza; espressione di una minoranza religiosa, quella degli Alawiti, una setta dissidente dello sciismo, che pur rappresentando solo il nove per cento della popolazione è arrivata a occupare tutti i posti di potere; campione dello Stato laico, tollerante nei confronti di tutte le fedi (cristiani compresi), ma inflessibile verso i fondamentalisti islamici al punto di reagire a un loro tentativo di insurrezione massacrandone ventimila nella città di Hama nel 1982. Ma è soprattutto sul fronte internazionale che la Siria degli Assad si differenzia dagli altri Paesi arabi: dopo essere stata, fino alla dissoluzione dell’Urss, quasi un’appendice del Patto di Varsavia nel Mediterraneo, ha rifiutato la mano che le tendeva l’Occidente e stretto un patto di ferro con l’Iran degli ayatollah, che la rifornisce generosamente di armi e di petrolio. Questa strana alleanza tra uno Stato laico e una teocrazia ha profondamente influenzato la geopolitica della regione. Non solo la Siria è l’unico Paese arabo tecnicamente ancora in guerra con Israele, che nel ’67 le ha strappato le alture del Golan, ma è anche la protettrice dei principali movimenti votati alla distruzione dello Stato ebraico: ospita a Damasco la direzione politica di Hamas, ha equipaggiato l’Hezbollah sciita con le migliaia di missili puntati sulla Galilea dal Libano meridionale ed alimenta tutte le tensioni che possono mettere in difficoltà Gerusalemme. Pur non condividendo l’antiamericanismo esasperato di Teheran, durante il conflitto iracheno ha permesso il transito sul suo territorio di migliaia di jihadisti di ogni nazionalità che andavano a combattere il «Grande Satana». Per anni ha cercato di sottomettere il vicino Libano, in cui ha mantenuto un forte contingente di truppe fino a quando la pressione degli altri Paesi arabi, che la considerano con diffidenza, non l’ha costretta a ritirarsi; ma è sicuramente responsabile dell’assassinio del premier Hariri e di una serie di altri delitti che hanno insanguinato Beirut negli ultimi anni. Molti speravano che il giovane Bashir, succeduto al padre nel 2000 dopo una elezionefarsa, avrebbe impresso al Paese una svolta in senso liberale.Si illudevano:un po’ per il condizionamento della vecchia guardia, un po’ per una sua personale involuzione, ha favorito qualche modernizzazione in campo economico, ma ha mantenuto in vigore la legge di emergenza, imposto uno strettissimo controllo sulla stampa e tenuto in galera oltre quattromila oppositori. Per questo, le sue aperture degli ultimi giorni sono apparse, più che l’alba di un’era di riforme,un segno di debolezza di un regime che pure dispone di un formidabile apparato di sicurezza.
Di fronte a un quadro delgenere, non c’è da meravigliarsi se i governi occidentali guardino con simpatia alla rivolta e si siano affrettati a intimare a Damasco di non reprimere le dimostrazioni con la violenza. Esattamente come negli altri Paesi arabi, la piazza siriana porta avanti un misto di rivendicazioni politiche, economiche e tribali di difficile interpretazione, non ha per ora alcuna leadership ed è perciò impossibile prevedere a che tipo di governo darebbe vita se riuscisse a sbarazzarsi degli Assad. Nel Paese non mancano le pulsioni fondamentaliste, che si riflettono tra l’altro nella graduale «islamizzazione» dei costumi delle donne. Ma un ritorno al potere della maggioranza sunnita dovrebbe anche portare a un raffreddamento con Teheran; e questo sarebbe, per Usa e Ue, un enorme sollievo.
Libero-Carlo Panella: " Si incendia la nazi-Siria, Israele spera "

Sette giovani falciati dal fuoco della polizia a Latakia, dove nella tarda serata di ieri - secondo fonti giornalistiche locali - l’eser - cito è entrato in forze. Ancora scontri a Daraa, la città epicentro della rivolta contro il regime di Beshar al Assad, dove giovani a torso nudo si sono arrampicati gridando slogan sulle macerie della statua di Hafez al Assad (padre del dittatore) abbattuta venerdì. A Tafas, nei pressi di Daraa, i funerali di una delle vittime di ieri, si sono trasformati in una manifestazione politica che si è diretta verso la sede del partito Baath, che controlla il paese, l’ha devastata e bruciata. Dall’inizio delle proteste, 10 giorni fa, i morti sono almeno 150, caduti in molte città siriane: innanzitutto a Daraa, dove la ribellione è iniziata, poi a Duma un sobborgo industriale di Damasco, a Homs, Sanamein, Ladhiqiya e a Qamshli nel Kurdistan, a conferma di una crisi di regime che si allarga a tutto il Paese. Scene e notizie che paiono simili a quelle che abbiamo visto neimesi scorsi in Tunisia, Egitto e Libia, ma che in realtà segnalano una forza mai vista, in nessuno di questi Paesi, da parte dei manifestanti. Scendere in piazza contro il regime oggi in Siria, infatti, è come manifestare nella Berlino di Hitler nel 1938, perché il Paese è sottoposto ad un regime poliziesco feroce, capillare e invasivo e ideologicamente motivato di pura impronta nazista: spie dappertutto, violenza senza eguali della polizia e dei servizi segreti, nessuna remora di fronte ai massacri più efferati. Paragone non forzato perché il partito al potere, il Baath, fu fondato negli anni ’30 da Michel Aflaq (ammiratore di Adolf Hitler) proprio come articolazione araba del nazionalsocialismo europeo (e si schierò al suo fianco nella seconda guerra mondiale). Ad Hama, il ricordo è incancellabile per i siriani, città in cui ieri si sono svolti cortei e si sono avuti morti, nell’autunno del 1982Hafez al Assad decise di dare una risposta esemplare alla rivolta che era riuscita a prendere il controllo di tutta la città. La fece circondare dai carri armati e dall’arti - glieria pesante e la bombardò per giorni, semi distruggendola e facendo migliaia di vittime. Ma nonostante questo ricordo, oggi il contagio della “rivoluzione dei gelsomini”fa presa anche in Siria e la ferocia della repressione non riesce a venirne a capo. Indicativa la scintilla che ha innescato la ribellione a Daraa, città capoluogodella regione di Jiza, devastata da una siccità che ha obbligato migliaia di contadini alla fame a inurbarsi fuggendo dai campi riarsi, mentre il governo non ha fatto nulla venire loro in aiuto.Un mese fa, i bambini di una quarta elementare, uscendo da scuola, hanno scritto frasi irrisorie contro il regime sui muri. La notte, quindici di loro, tra gli 8 e i 10 anni sono stati prelevati di casa dalla polizia e sottoposti a regimedi carcere duro per 30 giorni. Anche per questo la città, già esasperata per la fame e la sete, si è riversata nelle piazze e, dopo le prime cariche della polizia e i primi morti, ha occupato la centrale moschea al Omri. Nella notte di mercoledì le forze speciali comandate da Maher al Assad, fratello del dittatore, sono penetrate nella moschea sparando all’im - pazzata e uccidendo decine di persone, anche donne e bambini. La ferocia della repressione e la capillarità del controllo del territorio da parte del Baath (in ogni stabile, in ogni luogo di lavoro, in ogni famiglia, c’è una spia del regime che inoltra rapporti su ogni minima espressione di dissenso), lasciano ancora aperto a oggi l’interrogativo sul futuro della crisi siriana, molto più stentata di quanto non sia stata l’irruenza che ha abbattuto i regimi tunisino e egiziano. Damasco, va notato, non è stata sinora sconvolta da manifestazioni di massa (poche centinaia i manifestanti in centro città), che si sono viste a Tunisi e al Cairo. Non è dunque ancora stata raggiunta quella “massa critica”del - la mobilitazione popolare che ha scosso i regimi tunisino, egiziano e libico e non è ancora certo che si accumulerà. Certo è che se anche in Siria il regime collasserà, per la prima volta l’Iran non avrà di che rallegrarsene - anzi- perché perderà un alleato strategico, che per di più garantisce ad Hezbollah il controllo sul governo del Libano. Specularmente, sarà la prima rivolta araba a fare piacere ad Israele, che vede nel regime degli Assad l’ultimo avversario temibile sotto il profilo militare (l’eser - cito siriano, a differenza di quello egiziano è tuttora in forze), finanziatore e spalleggiatore di un Hezbollah, che senza le spalle coperte da Damasco, si troverebbe in non poche difficoltà.
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