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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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La Stampa-La Repubblica-Corriere della Sera Rassegna Stampa
26.03.2011 Siria: alla fine il potere di Assad ?
Obama forse si muove, la cecità degli 'esperti', la cronaca

Testata:La Stampa-La Repubblica-Corriere della Sera
Autore: Maurizio Molinari-Lucia Annunziata-Francesca Paci-Bernardo Valli-Cecilia Zecchineklli
Titolo: «A Damasco la svolta di Obama- Tattiche-L'onda della rivolta non salva la nuova generazione dei raiss-I signori di Damasco-Siria, spari sulla folla in numerose città.i mortisono decine»

Grazie all'analisi di Mordechai Kedar, uscita ieri su IC,
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=320&id=39042
 i  nostri  lettori  hanno capito prima e meglio quanto sta avvenendo in Siria, ampiamente descritto oggi da tutti i quotidiani italiani. 


Mordechai Kedar

Sulla STAMPA il pezzo di Maurizio Molinari da New York, con la reazione della Casa Bianca, seguito da una breve nota, per una volta degna di menzione, di Lucia Annunziata, mentre Francesca Paci continua a non capire nulla di quanto avviene in Medio Oriente. Su REPUBBLICA, Bernardo Valli scrive un pezzo rivelatore di come non ne abbia mai imbroccata una, è lui che lo scrive !, attitudine che manifesta anche oggi scrivendo di Siria. Sul CORRIERE della SERA, la cronaca di Cecilia Zecchinelli, tra tutte quelle uscite la più accurata.

Ecco gli articoli:

La Stampa-Maurizio Molinari: " A Damasco la svolta di Obama "


Maurizio Molinari

Barack Obama apre il fronte siriano dell’impegno per «il rispetto dei diritti universali» nel mondo arabo, sostenendo il domino delle rivolte fino alle porte dell’Iran degli ayatollah.

Mentre le cancellerie di mezzo mondo erano intente a scrutare i corridoi di Bruxelles attendendo la composizione dei dissidi atlantici sul passaggio del comando di Odyssey Dawn dal Pentagono alla Nato, Obama ha pianificato dallo Studio Ovale tutt’altra partita, spostando il focus su Damasco. Nell’arco di 24 ore Robert Gates ha chiesto ai militari siriani di «farsi da parte» per «rendere possibile una rivoluzione», richiamandosi al precedente egiziano, e la Casa Bianca ha accusato le «forze di sicurezza» di Bashar Assad di una «brutale repressione» simile a quella di Muammar Gheddafi in Libia.

Forse preavvertita sull’entità delle sommosse in Siria da un’intelligence in affannosa ricerca di riscatti dopo i passi falsi in Maghreb, l’amministrazione Obama compie in fretta le sue mosse lasciando intendere che il tassello di Damasco vale molto nel mosaico della primavera araba.
Per tre motivi. Primo: se finora le rivolte hanno investito il Nord Africa e la Penisola Arabica, ora arrivano nel cuore dell’asse Iran-Siria-Libano, avversario strategico di Washington tanto sul nucleare di Teheran che sulla pace in Medio Oriente. Secondo: se Ben Ali, Mubarak e Gheddafi assieme ai leader di Yemen e Bahrein rappresentano autocrazie e regimi appesantiti da decadi di illibertà, Bashar Assad è invece uno dei governanti più giovani e da meno tempo al potere, ma le sue timide promesse di riforme non sembrano più sufficienti a placare le piazze, lasciando intendere che anche la Giordania di re Abdallah e il Marocco di Mohamed VI potrebbero essere a rischio. Terzo: se i generali siriani dovessero seguire l’esempio dei colleghi egiziani nel non difendere un regime delegittimato, il ruolo delle forze armate nel consentire le rivoluzioni diventerebbe una costante regionale, proprio come avvenne in America Latina e in Estremo Oriente negli Anni Ottanta.

Ma non è tutto, perché le rivolte arabe hanno riflessi anche negli equilibri a Washington, dove in questa fase sembra essere in ascesa il ruolo di Robert Gates. Il capo del Pentagono ha tentato di evitare la «no fly zone» sulla Libia e non vede l’ora di passare la mano alla Nato con la stessa determinazione con cui affonda i colpi sulla Siria di Assad. In entrambe le occasioni la convergenza con Obama è stata evidente, relegando in secondo piano il segretario di Stato Hillary Clinton, per non parlare del consigliere per la sicurezza Tom Donilon, quasi assente. L’intesa nel segno del pragmatismo fra l’ex capo della Cia di Bush padre e il Presidente democratico segna le scelte dell’America. Anche perché spostando il fronte arabo da Tripoli a Damasco Gates aiuta Obama sue due fronti: contribuendo a rompere l’assedio del Congresso alla Casa Bianca sulla gestione di Odyssey Dawn e rilanciando in avanti la dottrina di Barack sulle rivoluzioni non violente uscita vincente da piazza Tahrir.

La Stampa-Lucia Annunziata: " Tattiche "


Lucia Annunziata

La definiscono il «volto» della Siria per il resto del mondo. Da ieri è il volto della Siria che dovrebbe vergognarsi con il resto del mondo. Due giorni fa, a poche ore dalla sparatoria con cui l’esercito siriano ha attaccato i manifestanti nella città di Daraa, Bouthaina Shaaban ha fatto il suo solito numero: ha convocato una conferenza stampa e ha rassicurato la stampa internazionale che in Siria tutto va bene, e che il Presidente (molto amato dal popolo) aveva già promesso le riforme. Vestita da business woman occidentale, capelli sempre perfetti e inglese ancora più perfetto, grazie ai suoi studi in Inghilterra, la Shaaban è un classico di tutte le dittature del Terzo mondo - il ministro alla occidentale, messo lì a rappresentare il volto umano dei regimi. Che sia in questo caso una donna è ancora meglio. La Shaaban, che ha 57 anni ed è nel Baath da quando ne aveva 16, ha da anni il potere di dare o no i visti, di controllare ogni accesso e di fare da portavoce. Dopo l’uccisione nel giorno di San Valentino del 2005 dell’ex premier libanese Rafic Hariri, mise la sua faccia, in tutte le tv del mondo, sul bugiardo diniego di colpe della Siria. Figure patetiche. Il moltiplicarsi dei media rende ridicolo infatti ogni tentativo di coprire la realtà. Come è successo, puntualmente, ancora una volta ieri.

La Stampa-Francesca Paci: " L'onda della rivolta non salva la nuova generazione dei raiss "


Francesca Paci

Assad, Assad, il popolo è con te» urlano sventolando la bandiera siriana centinaia di automobilisti in corteo lungo shara Victoria, a Sud di Damasco. Non molto distante, al caffè dell’hotel Dedeman, nel quartiere moderno Abu Remmaneh, l’elegante imprenditrice cinquantenne Amal commenta positivamente le aperture del governo: «La Siria è diversa dagli altri Paesi arabi, non ci sarà bisogno di rivoluzioni, il presidente ha già fatto concessioni importanti come l’abrogazione della legge d’emergenza in vigore da quarantotto anni».

È possibile che, sebbene tempestive, le riforme promesse dal regime baathista non riescano a compensare la repressione delle ultime ore a Daraa, Latakia, Hama. Ma, comunque finisca la partita, Bashar al Assad la sta giocando in modo più razionale di molti leader regionali che l’hanno preceduto nello scontro con la piazza. Se Ben Ali, Mubarak, Saleh e Gheddafi hanno reagito con il medesimo automatismo - bloccare Internet e le comunicazioni, sparare, tendere in extremis la mano ai ribelli - la tattica del Presidente siriano, che pure sta colpendo duro contro i dissidenti, ricorda piuttosto le sortite in contropiede nella metà campo ribelle dei coetanei sovrani giordano e marocchino, entrambi ancora abilmente distanti dalla linea di non ritorno.

Riuscirà la nuova generazione di leader arabi a evitare il baratro in cui sono sprofondati i grandi vecchi? Pochi mesi fa il settimanale The Economist pubblicava la classifica dei 22 Paesi più «vulnerabili» dal punto di vista della democrazia, della corruzione e della libertà di stampa, in testa alla quale comparivano Algeria, Bahrein, Egitto, Giordania, Libia, Marocco, Arabia Saudita, Tunisia, Yemen, le bombe a orologeria con il 14,5% di disoccupazione e il 65% della popolazione under 30 che sarebbero rapidamente esplose nella inattesa seppur prevedibile primavera araba. A ben guardare però i regimi in discussione hanno caratteristiche assai diverse e non solo dal punto di vista geografico.

Mentre gli ormai tramontati raiss egiziano e tunisino e i loro traballanti colleghi libico e yemenita affondano le loro radici nella prima metà del ’900, Bashar al Assad, re Abdallah II e re Mohammed VI sono figli degli Anni 60, hanno studiato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, non sono cresciuti come i padri nell’esercito ma al cospetto dei migliori docenti di politica internazionale. Tutti e tre, in fondo, sono saliti al potere quasi «per caso». Il Presidente siriano sarebbe dovuto diventare oftalmologo se il primogenito Basil non fosse morto in un incidente di macchina nel 1994; re Abdallah studiava con successo relazioni internazionali prima che il padre re Hussein, nel 1999, morisse sconfessando il fratello Hasan e incoronandolo di fatto successore del regno; Mohammed VI era predestinato ma forte della laurea in giurisprudenza e d’una formazione laica è salito al trono nel ’99 deciso a rompere con il passato guadagnandosi il titolo di «monarca modernizzatore». E nessuno di loro ha sposato la tradizione: la first lady siriana Alma al Akhras sfida regolarmente in eleganza occidentale la ex top model madame Sarkozy, la regina Rania - tra le prime ad aprire un blog per i sudditi - riscatta con le sue origini palestinesi l’oblio dei connazionali, Salma Bennani è un’informatica. In mezzo al guado, incerto tra lo scatto in avanti e la retromarcia, si dibatte il sovrano del Bahrein Hamad bin Isa al Khalifa, laureato nel Regno Unito ma militare, cittadino del mondo ma accompagnato da quattro mogli.

La formazione e soprattutto l’età più vicina alla stragrande maggioranza dei propri concittadini non hanno risparmiato i regnanti siriano, giordano e marocchino dall’onda di libertà che travolge la regione. Sarà però che Assad non concepisce la giornata senza Internet, che Abdallah è un patito della serie televisiva americana Star Trek , a uno dei cui episodi partecipò quando era principe e che re Mohammad si è insediato annunciando in tv la lotta alla corruzione e alla discriminazione femminile inaugurata poco dopo, nel 2004, con la riforma del diritto di famiglia a vantaggio delle figlie femmine, ma tutti e tre stanno tentando il salto carpiato: cambiare restando se stessi. Vale a dire cariche contro i manifestanti ma anche riforme e la valvola di sfogo del Web a disposizione (per ora).

«Il Presidente siriano ce la farà», sostiene Fawaz A. Gerges, massimo esperto di politiche mediorientali alla London School of Economics di Londra. A suo giudizio però a salvarlo non saranno la riduzione del servizio militare obbligatorio, il comitato per le riforme politiche o la scarcerazione dei detenuti, «tutte misure minori non diverse da quelle tentate da Mubarak e Ben Ali». È troppo presto: «Il regime e l’esercito sono legati in modo clanico, inseparabili, una fortezza alawita da cui non ci saranno defezioni». Il Presidente siriano potrebbe invece essere costretto a concedere di più sotto la pressione del potente vicino turco, preoccupato che una richiesta di democrazia ai confini possa ridestare gli irredentisti curdi. La partita è aperta, ed è anche generazionale.

La Repubblica-Bernardo Valli: " I signori di Damasco "


Bernardo Valli

LA NOTIZIA che l´insanguinata "primavera araba" sta investendo anche la Siria non mi coglie tanto di sorpresa, mentre seguo la guerra civile libica. E non solo perché i raìs, in tutte le capitali, del Maghreb e del Makresch, d´occidente e d´oriente, sono quasi tutti despoti destinati a cadere come birilli o a mantenersi per il momento in sella, come Gheddafi, seminando cadaveri. Il padre dell´attuale presidente siriano era un generale d´aviazione.
Venne battezzato il Bismark dell´Estremo Oriente. Era un uomo freddo e duro. Prese il potere a Damasco nel 1971, due anni dopo che il colonnello Muhammar Gheddafi l´aveva preso a Tripoli.
I due colpi di Stato sono avvenuti in contesti diversi. Uno contro un debole regime siriano. Il quale era stato sconfitto e umiliato in una battaglia delle truppe blindate beduine di re Hussein di Giordania, dopo il Settembre nero, che aveva opposto i palestinesi di Al Fatah, di cui Arafat era il capo, e i beduini del monarca hascemita. Più che essersi schierato con Arafat, Damasco aveva colto l´occasione per affrontare l´avversario re Hussein. In Libia fu invece spazzata via una monarchia fragile, incerta nel gestire la nuova ricchezza del petrolio. Ma entrambi i colpi di Stato hanno allora confermato che il dispotismo nel mondo arabo era riservato, in quegli agitati decenni, ai militari.
Hafez el-Assad (Assad I) sembrava in verità destinato a una breve carriera di dittatore. Ero a Beirut in quei giorni e non avrei puntato un centesimo su di lui. Apparteneva a una minoranza, era un alauita, una corrente dell´Islam relegata in Siria sulle montagne, e quindi non avrebbe retto, secondo i sofisticati analisti di Beirut, all´inevitabile rivalità delle altre comunità, assai più numerose e assuefatte a governare. Uno dopo l´altro, gli amici e colleghi libanesi e siriani autori di quella profezia morirono invece prima di lui. Furono uccisi nella interminabile guerra civile libanese, in cui Hafez el-Assad ebbe sempre un ruolo determinante e deleterio.
Tra quelle vittime c´era un vecchio amico: il cristiano maronita Edouard Saab, coraggioso direttore del quotidiano Le Jour, colpito da una pallottola in fronte, nel centro di Beirut, mentre era al volante della sua automobile. Seduto accanto a lui, Henry Tanner del New York Times uscì indenne. Assad senior è morto nel suo letto, e il figlio Bashar gli è succeduto undici anni fa.
Gli Assad sembrano o sembravano eterni. Ma, a dispetto delle apparenze, l´abile, spregiudicato equilibrio su cui si è appoggiato per decenni il loro clan, basato in gran parte sulle forze armate, cominciava a traballare. Per questo non mi stupisce quel che sta accadendo in queste ore. Anche se non è facile scalzare Assad. Il suo potere ha radici profonde. E il sangue scorre facilmente in Siria. L´esercito esiste e conta. Come ha contato e conta in Egitto; e non conta invece in Libia, dove Gheddafi un esercito vero non l´ha mai creato.
Giocando sulla strategica posizione della Siria (sull´asse della "Mezzaluna fertile" con l´Iraq e limitrofa anche del Libano, della Giordania, della Turchia e d´Israele), i due Assad padre e figlio, al contrario dell´Egitto dello Yemen e della Giordania non hanno mai stretto un´alleanza con gli Stati Uniti e hanno mantenuto relazioni privilegiate con l´Iran, dopo la rivoluzione khomeinista.
Gli Assad si sono destreggiati nei rapporti con i palestinesi. Hanno fomentato le rivalità tra le correnti. Li hanno combattuti, uccidendone più di quanti ne abbiano uccisi gli israeliani. Con Hamas, Bashar, il figlio, va d´accordo. Ne ospita i dirigenti. Esercita inoltre un´influenza sugli hezbollah libanesi, con i quali sa essere severo quando deve placare le preoccupazioni all´interno del suo paese, dove è vivo il timore di essere trascinati da quegli alleati sciiti libanesi esaltati in disordini simili a quelli che tormentano, insanguinano il vicino Iraq. Inoltre la Siria è sempre ufficialmente in guerra con Israele, che occupa un territorio siriano sulle alture del Golan. Con il clan degli Assad hanno conti da regolare i Fratelli musulmani, che il padre Hafez massacrò nella città di Hama, poi demolita con i bulldozer.
Nella rivoluzione araba che infuria, la Siria di Assad presenta la peculiarità di essere antiamericana, al contrario della Tunisia dei Ben Ali e dell´Egitto di Mubarak. La Libia di Gheddafi sfuggiva ad ogni classificazione prima di essere tragicamente isolata. Ma l´antiamericanismo non sembra rappresentare un vaccino contro la protesta democratica. La collera dei manifestanti a Tunisi e al Cairo era rivolta contro i rispettivi raìs, senza alcun riferimento agli Stati Uniti e a Israele. E i ribelli libici invocano l´aiuto occidentale.
Bashar el-Assad è accusato dai manifestanti di essere un falso riformatore. Laureato in medicina, e poi convertito alla politica per prendere la successione del padre, egli si prestava come un uomo aperto alla modernità, appassionato d´informatica ed esperto internauta. Ma ha fatto disperdere brutalmente le timide manifestazioni dei giovani armati di candele riunitisi la sera a Damasco per appoggiare l´insurrezione del Cairo. Il caso di Tal al-Malluhi, una ragazza di diciannove anni, autrice di blog impertinenti, arrestata, maltrattata, condotta in tribunale con gli occhi bendati e le manette, e condannata a cinque anni per spionaggio a favore degli Stati Uniti, non ha reso credibile la conversione democratica di Bashar.
Le promesse in favore della democrazia, della critica costruttiva e della trasparenza, sono state propagandate a lungo. Avrebbero dovuto promuovere la «Primavera di Damasco». Ma il regime ha continuato a mantenere lo stato d´urgenza in vigore dal 1963. Per questo gli oppositori denunciano come una truffa l´esibito riformismo di Bashar el-Assad. E non hanno creduto quando in febbraio ha annunciato che gli avvenimenti di Tunisia, d´Egitto e dello Yemen, avevano aperto una nuova era in Medio Oriente. Il tentativo di accodarsi alla primavera araba non gli è riuscito. Le organizzazioni dei diritti dell´uomo denunciano la Siria come uno dei paesi in cui si pratica di più la tortura in trent´anni sarebbero scomparsi diciassettemila persone.

Corriere della Sera-Cecilia Zecchinelli: " Siria, spari sulla folla in numerose città, i morti sono decine "


Siria, la rivolta per le strade

Al grido di «libertà» e «abbasso Bashar Al Assad» , «Deraa siamo con te» , ieri sono stati in decine di migliaia a rispondere in tutta la Siria all’appello per il «Venerdì della dignità» e di solidarietà con la cittadina meridionale protagonista da giorni di un’intifada contro il regime. Dalla stessa Deraa e la sua regione di Hawran che già piangono decine di vittime, alla capitale Damasco e le sue periferie, all’importante centro di Homs, alla città alawita di Latakia e a quelle curde di Raqqa e Qamishli nel Nord, perfino a Hama che ieri ha visto proteste di piazza per la prima volta da quando nel 1982 Hafez Al Assad la rase al suolo uccidendo decine di migliaia di civili, ovunque la rabbia contro la dittatura è esplosa come mai era accaduto da anni. Impossibile il conto dei morti in un Paese blindato da una collaudata censura, ma le testimonianze che filtrano ne segnalano decine, moltissimi i feriti, tanti gli arresti. Tutti tra la popolazione civile. «Questa giornata doveva essere un test, superato con successo: i siriani hanno rotto la paura, niente sarà più come prima — dice un attivista esule in Europa in contatto continuo con il suo Paese —. Le promesse di Bashar due giorni fa erano ridicole, la sua portavoce ha annunciato qualche aumento di stipendio e una commissione per studiare l’eventuale revoca delle leggi speciali che dal 1963 consentono ogni tipo di abuso, come se questo bastasse. E ha assicurato che non è stato il presidente a dare l’ordine di sparare finora. E allora chi? Il fratello Maher è più crudele, è lui che sta guidando la repressione a Deraa. Ma chi comanda il Paese? Ormai siamo allo sfascio, aspettiamo solo che ambasciatori e ministri abbandonino il posto, com’è stato in Libia e in Yemen» . Forse molti siriani in patria o in esilio sono ora troppo ottimisti. E non perché le marce a favore di Assad organizzate ieri soprattutto nella capitale indichino un sostegno di massa. Piuttosto perché — la Libia insegna — cambiare un regime non è cosa da poco. Ma è vero che se ieri sono successe cose mai viste — l’aver dato alla fiamme la statua in bronzo di Hafez nel centro di Deraa o l’attacco delle forze speciali contro i manifestanti dentro la sala della preghiera nella storica moschea degli Omaiadi nella capitale— è anche un fatto che per la prima volta il mondo preme adesso esplicitamente su Damasco perché conceda democrazia all’interno, non perché cambi la sua politica estera. La Casa Bianca ha condannato «il governo siriano per la brutale repressione» , il segretario dell’Onu Ban Ki-moon ha chiamato il raìs con lo stesso messaggio, Nicolas Sarkozy ha intimato a Damasco «basta violenze» , e tutti e tre— fanno notare i dissidenti siriani — senza appellarsi a un generico ritorno della calma ma difendendo apertamente i manifestanti. Anche la Turchia ha chiesto a Assad «riforme che soddisfino la richiesta del popolo» . Da altri Paesi, dall’Europarlamento, dalle organizzazioni per i diritti umani come Amnesty condanne sono seguite. Perfino Sheikh Yusef Qaradawi, uno dei più noti e influenti religiosi musulmani che in passato sosteneva (blandamente) Assad, nel suo sermone del venerdì ieri in Qatar ha invitato il mondo a sostenere i siriani: «Il treno della rivoluzione è arrivato a questa nuova stazione, era ora»

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