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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Foglio - La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
25.03.2011 Libia: Obama attaccato dal Congresso
Cronache e analisi di Redazione del Foglio, Maurizio Molinari, Guido Olimpio, Fabio Scuto

Testata:Il Foglio - La Stampa - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Redazione del Foglio - Maurizio Molinari - Guido Olimpio - Fabio Scuto
Titolo: «Obama assediato: 'Ci fa combattere senza dire niente' - Il rebus del Colonnello - In armi anche il Qatar e gli Emirati. Un fronte comune contro il raìs»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 25/03/2011, in prima pagina, l'articolo dal titolo " L’asse Roma-Mosca-Ankara lavora alla mediazione con il regime di Gheddafi ". Dalla STAMPA, a pag. 2, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Obama assediato: 'Ci fa combattere senza dire niente' ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Guido Olimpio dal titolo " Il rebus del Colonnello ". Da REPUBBLICA, a pag. 9, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " In armi anche il Qatar e gli Emirati. Un fronte comune contro il raìs ".
Ecco gli articoli:

Il FOGLIO - "  L’asse Roma-Mosca-Ankara lavora alla mediazione con il regime di Gheddafi"

Roma. Un caccia francese ha distrutto un jet della famiglia Gheddafi che tentava di violare la “no fly zone” in vigore sui cieli della Libia. Il raid è avvenuto ieri su Misurata ed è stato confermato da fonti americane. Non è l’unico attacco portato a termine dalla coalizione: gli aerei europei hanno sorvolato Tripoli e si sono spinti sino a Sabha, che si trova a 750 chilometri dalla costa. La maggior parte degli obiettivi militari risulta distrutta dopo una settimana di bombardamenti. La flotta aerea di Gheddafi non esiste più, le strade intorno a Bengasi sono pulite e le strutture difensive del regime hanno ormai ceduto. Ma gli scontri tra l’esercito e i ribelli proseguono da Ajdabiya a Misurata, e i caccia alleati non possono fare molto per fermarli. Questo punto è ben chiaro agli ambasciatori che si muovono da giorni nei corridoi della Nato così come al governo francese, che rimane l’unico, vero sostenitore della guerra contro Gheddafi. Il ministro degli Esteri di Parigi, Alain Juppé, ha domandato pazienza ai partner europei e ha aggiunto che la campagna potrebbe durare “giorni o settimane”. Il numero dei paesi entusiasti cala giorno dopo giorno. Cresce, al contrario, quello dei governi che si preparano a mediare con Gheddafi – o che hanno già cominciato a farlo. Gli impegni assunti con la Nato non impediscono a Roma di cercare una soluzione diplomatica alla crisi: il capo della Farnesina, Franco Frattini, ha avuto ieri un colloquio con il leader dei ribelli e ha rinnovato il sostegno al cessate il fuoco in Libia. Sulla stessa linea è la Turchia, che fa parte della Nato e ha un ruolo di leadership nel medio oriente. Pochi giorni fa, il premier Recep Tayyip Erdogan diceva che non avrebbe mai appoggiato un intervento militare, ma l’attivismo di Nicolas Sarkozy lo ha convinto a cambiare opinione. Erdogan ha compreso che l’unico modo per avere influenza in questa fase è ridurre il peso dei francesi trasferendo il comando delle operazioni al Patto atlantico. Il governo di Ankara ha garantito quattro navi e un sommergibile alla causa, e ha annunciato che la guida militare passerà alla Nato “nel giro di due giorni” – la regia politica sarà affidata a un “gruppo internazionale di alto livello”, come avviene con la missione Isaf. La Turchia ha ancora diplomatici a Tripoli: i quattro giornalisti del New York Times liberati in settimana dall’esercito sono stati consegnati proprio all’ambasciatore turco, segno che i contatti fra i due governi sono costanti. Con Italia e Turchia si muove la Russia, uno dei paesi del Consiglio di sicurezza che si sono astenuti al momento di votare la “no fly zone”. Il presidente, Dmitri Medvedev, ha accolto tutte le decisioni della comunità internazionale, ma ha un canale aperto per la mediazione. Mosca ha appena nominato un nuovo inviato nell’Africa del nord, Mikhail Margelov, lo stesso uomo che ha gestito il dossier Sudan. “Non sappiamo se le trattative porteranno risultati – dice oggi Margelov – Quello di cui siamo certi è che la Russia ci può provare”.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Obama assediato: 'Ci fa combattere senza dire niente' "


Barack Obama                Maurizio Molinari

Congresso e media mettono sotto processo la Casa Bianca per la gestione della crisi libica, ma il presidente Obama si difende con l’accelerazione del trasferimento alla Nato del comando di «Odyssey Dawn».

Per Obama il ritorno a Washington dal viaggio in America Latina non potrebbe essere più difficile. John Boehner, presidente della Camera, lo accoglie con una lettera che riassume in sette domande l’irritazione che accomuna repubblicani e democratici. «Qual è la missione delle nostre forze armate? Qual è il ruolo dell’America in questa operazione? Vogliamo che Gheddafi rimanga al potere oppure no? Qual è la definizione di successo?» sono gli interrogativi più pungenti che Boehner solleva, sottolineando che «una risoluzione Onu non sostituisce l’interesse nazionale degli Stati Uniti» e dunque spetta al presidente «spiegare perché abbiamo attaccato la Libia».

Come se non bastasse, Boehner svela che «il Congresso non è stato informato a dovere sull’attacco che si preparava» e si è sfiorato l’insulto personale, visto che «la mattina del giorno in cui l’Onu ha votato la risoluzione 1973 un basso funzionario della Casa Bianca è venuto da me per un briefing» in cui non si parlava di attacco. Il colpo più duro dei repubblicani arriva dal Senato dove Richard Lugar, veterano della commissione Esteri e sostenitore di Obama, solleva l’accusa di violazione della «risoluzione sui poteri di guerra» per aver portato l’America in un conflitto «senza aver chiesto l’autorizzazione al Congresso». Quella risoluzionefu approvata nel 1973 per scongiurare il ripetersi di un nuovo Vietnam, dove John Kennedy nel 1962 aveva inviato le truppe senza interpellare il Congresso. Evocare quel precedente basta per prospettare lo spettro di una catastrofe. Anche fra i democratici il dissenso tracima, come dimostra la scelta di Dennis Kucinich, deputato dell’Ohio ed ex candidato presidenziale, di ipotizzare una «richiesta di impeachment di Obama». Kucinich è noto per aver condotto la solitaria battaglia per l’impeachment di Bush sulla guerra in Iraq e l’analogo affondo contro Obama dà lo spessore del malcontento della base liberal. Nel tentativo di difendere il presidente, scendono in campo alcuni pesi massimi dei democratici - come i senatori Carl Levin e Dick Durbin - e la Casa Bianca preannuncia un’audizione di Hillary Clinton la prossima settimana.

Ma le critiche dilagano. Il politologo dell’Università della Virginia Larry Sabato assicura che «verranno scritti libri di Storia per narrare gli errori compiuti da Obama sulla Libia», mentre Fareed Zakaria dalle colonne di Time critica un’Amministrazione che finora ha sostenuto: «Era meglio appoggiare i ribelli libici anziché bombardare». L’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha gioco facile nel descrivere Obama come un «presidente confuso» mentre i giornali conservatori svelano i conti dell’intervento: ogni Tomahawk costa un milione di dollari, ogni ora di volo di un jet 10 mila dollari per un costo totale già sostenuto fra i 400 e 800 milioni, cui se ne aggiungeranno altri 100 a settimana. «Dobbiamo mettere a bilancio queste spese e per quanto tempo?» incalza Boehner.

Inevitabile il nervosismo della Casa Bianca, il cui consigliere strategico Ben Rhodes scivola con i reporter definendo l’intervento in Libia una «azione militare cinetica», per evitare di pronunciare il termine «guerra». È al termine di una giornata sotto assedio che Obama riceve da Bruxelles munizioni preziose per resistere, grazie alla possibilità di un’intesa alla Nato sul trasferimento dei poteri «nei prossimi due giorni». Ma il portavoce del Pentagono gela le attese: «Non c’è ancora un calendario fissato».

CORRIERE della SERA - Guido Olimpio: " Il rebus del Colonnello "


Muammar Gheddafi

WASHINGTON— Muammar Gheddafi ha promesso: «Io resto nella mia tenda» . E la pensano così molti oppositori. Difficile che ceda. Eppure figure di primo piano del regime, Musa Kusa e Abdullah Senussi, hanno cercato dei contatti con Washington e nei paesi arabi. Altre mosse le ha compiute il figlio del raìs, Saif Al Islam, attraverso intermediari in Austria. Roger Tamraz, un uomo d’affari vicino alla Libia e ben conosciuto anche in Italia, ha confermato che il regime ha avviato un’iniziativa che potrebbe avere come esito una tregua ma non ha escluso neppure l’opzione dell’esilio. Fonti libiche hanno aggiunto che l’attuale premier Mahmoudi Bagdadi e un secondo dirigente hanno parlato con i ribelli di Bengasi. Non si sarebbero mossi senza il consenso del raìs. Notizie che fanno ipotizzare che, alla fine, il colonnello possa lasciare. E’ davvero così? Magari il dittatore vuol buttare fumo negli occhi. O ancora: le indiscrezioni sono una manovra per insinuare dubbi nel bunker di Tripoli. In questa crisi, tutto è ancora aperto. C’è chi lavora — come l’Italia — ad un accordo sul cessate il fuoco seguito da una trattativa. Tre gli scenari considerati in ambienti diplomatici. 1L’esilio Gheddafi, se dovesse cadere nelle mani del nemico, rischia la pelle. Come Ceausescu e Saddam. Oppure finisce in galera per i crimini compiuti contro la popolazione. Le prove — ha ribadito ieri il presidente della Corte penale Internazionale dell’Aja— sono abbondanti. Omicidi, torture e centinaia di persone fatte sparire. Al Colonnello viene proposto il baratto: sospendiamo l’incriminazione e tu va in esilio con una parte del tesoro. La soluzione può trovare un appiglio anche una scappatoia legale. Due Paesi, in ottimi rapporti con Tripoli, non hanno firmato il Trattato di Roma sulla Corte Penale internazionale, che regola i procedimenti per i crimini. Il primo è lo Zimbabwe di Robert Mugabe. Il secondo è la Guinea Equatoriale guidata da Teodoro Obiang Nguema attuale presidente dell’Unione Africana e coinvolto, nei giorni scorsi, in una timida mediazione. La «pista» dello Zimbabwe non è costruita sulla sabbia. Gheddafi ha molte proprietà nel Paese, ha investito denaro e sarebbe accolto come un amico al quale si deve molto. Inoltre qui non si applica il Trattato sui crimini. All’inizio della crisi si è pensato anche al Sudafrica, legato da relazioni speciali con il Colonnello. Le cose, però, si sono complicate. I sudafricani hanno votato in favore della no-fly zone anche se hanno ribadito che l’operazione non deve portare al cambio di regime. Un altro Paese che ha rapporti privilegiati è la Bielorussia, grande fornitore di armi. In alternativa l’Algeria che, in queste settimane, ha lavorato per la Libia. In sede diplomatica e sul campo favorendo — sembra — il transito di rifornimenti. Più lontani ci sono il Venezuela di Chavez e il Nicaragua di Ortega: i due presidenti sarebbero pronti a concedergli ospitalità. L’esilio venezuelano è stato evocato nei primi giorni della guerra. Uno dei figli del raìs è stato segnalato sull’isola Margarita, località turistica e di affari. 2I gerarchi I negoziati segreti non riguardano Gheddafi ma piuttosto il suo «cerchio di ferro» . Con messaggi diretti, minacce e offerte, la coalizione prova a sgretolare il regime dall’interno. In concomitanza con l’offensiva, l’intelligence ha ripetuto uno schema già adottato – con scarso successo – nell’Iraq di Saddam. Telefonate ai gerarchi perché cambino campo. Dopo che la Libia è stata «riabilitata» si sono sviluppate conoscenze dirette tra 007, diplomatici, alti funzionari. Fino a un mese fa si parlavano e non da avversari. Infatti, sono stati Musa Kusa e Senussi a cercare i primi approcci. Possono agire per conto del boss ma anche per se stessi. Se abbandonano Tripoli, l’apparato perderà pezzi importanti. Un vuoto che il raìs può bilanciare con il clan familiare. 3Il compromesso Le trattative hanno l’obiettivo di salvare Gheddafi. Almeno nel medio termine. Lui resta il re della Tripolitania e i ribelli sono i signori della Cirenaica. Quindi si cerca di avviare un dialogo che oggi appare impossibile. Gli insorti lo rifiutano, la Francia definisce Gheddafi un capo «screditato» , Obama ha sostenuto che deve andarsene. Ma ci sono altri protagonisti— l’Italia è tra questi — che studiano soluzioni diverse che partono dal coprifuoco come prima passo. Un’azione che il governo Berlusconi insegue con due capitali amiche. Mosca e Ankara. Un terzetto contrario alla guerra, con forti interessi a Tripoli, che può trovare per strada altri compagni. Scommettono sulla disorganizzazione dei ribelli e la tempra del raìs. Il Cremlino non è certo contento di vedere partire un suo buon «cliente» e non lo è neppure la Turchia che sta svolgendo un ruolo primario. Snobbata da Parigi, è rientrata nella partita diplomatica. L’asse potrebbe allargarsi alla Lega Araba. C’è un blocco di paesi che non piange per la sorte di Muammar. Al tempo stesso i leader, alle prese con rivolte interne, si fanno due conti: oggi tocca Gheddafi, domani a noi. Se la rivoluzione libica dovesse arenarsi non sarebbero poi così dispiaciuti.

La REPUBBLICA - Fabio Scuto : " In armi anche il Qatar e gli Emirati. Un fronte comune contro il raìs "

GERUSALEMME - Non doveva avere molti amici nel mondo arabo il Colonnello Muhammar Gheddafi, se in tutto il fronte arabo ha trovato voci in sua difesa nella Siria e nell´Algeria, unici Paesi della Lega Araba che si sono schierati contro la no-fly zone e la risoluzione dell´Onu che la istituisce. Ma prima ancora della riunione del 19 marzo della Lega Araba, che ne chiedeva all´Onu l´istituzione per motivi umanitari e di protezione della popolazione civile libica, si era mosso il Consiglio di Cooperazione del Golfo - che riunisce i Paesi del Golfo Persico - sollecitando l´8 marzo un embargo aereo sui cieli della Libia. E in maniera ancor più chiara il segretario generale del Consiglio la scorsa settimana avallava l´uso della forza e elogiava le forze della «Coalizione dei volenterosi» per «proteggere il popolo libico dallo spargimento di sangue».
È a partire da queste posizioni che la Lega Araba, guidata ancora per pochi giorni dall´egiziano Amr Moussa, ha potuto prendere la decisione - per la prima volta nella sua storia - di chiedere una risoluzione all´Onu contro uno dei suoi Stati membri e partecipare dopo vent´anni a un intervento militare occidentale in Medio Oriente (l´ultima volta fu nel 1991 nella guerra contro Saddam che aveva invaso e si era impadronito del Kuwait). Certo, timorosi che magari all´interno dei propri confini potesse montare una protesta di piazza c´è stato qualche basculamento dopo i primi bombardamenti, ma il "fronte arabo" nella sostanza è compatto sull´intervento, anche se con toni e motivazioni diverse. La posizione araba è chiara: lo scopo dell´intervento in Libia non è rovesciare Gheddafi - e aprire sulle rive del Mediterraneo un´altra crisi come quella in Iraq dopo la caduta di Saddam - ma «riequilibrare» le forze sul campo.
Spetterà poi ai rivoluzionari libici scegliere il destino del raìs, della sua cerchia e il futuro del Paese.
L´Egitto post-Mubarak guidato dai generali appoggia l´azione militare in Libia per segnalare ai suoi cittadini che sostiene la lotta per i diritti umani e la democrazia, così come ha fatto l´Iraq, presidente di turno della Lega Araba. Ma Il Cairo, pur disponendo dell´esercito migliore fra i Paesi mediorientali, ha scelto di non partecipare alle operazioni militari. Il perché lo ha spiegato bene ministro degli Esteri Nabil Elaraby: ci sono centinaia di migliaia di cittadini egiziani oltre confine che potrebbero essere oggetto di rappresaglie da parte del regime del Colonnello. Più discretamente, la Giunta militare egiziana, attraverso il confine con la Cirenaica, sta armando il nascente esercito della nuova Libia rispondendo all´appello che è venuto da Bengasi, che chiede armi leggere e armi anti-carro per affrontare i tank T-72 e T-92 dell´esercito di Gheddafi. Ruolo discreto ma decisivo perché alla fine è sul terreno che si combatterà la battaglia finale.
L´Arabia Saudita - il Paese più influente del Golfo Persico - è stato subito favorevole all´intervento sotto l´ombrello dell´Onu perché rafforza la legittimità del suo recente intervento militare a sostegno della monarchia in Bahrein, minacciata dalle manifestazioni di piazza della minoranza sciita che chiede riforme e più partecipazione alla vita politica. L´intervento in Bahrein è stato "autorizzato" dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, organismo di mutuo soccorso militare e economico fra i paesi dell´area, che nacque in funzione anti-Iran. L´Arabia Saudita, così come la Giordania e il Kuwait, ha deciso di dare un appoggio, per il momento, solo logistico alle operazioni in Libia.
Spicca, perché Hezbollah è parte decisiva del governo, la posizione del Libano. Nel Paese dei Cedri sono gli integralisti filo-Iran a gestire le danze. Eppure l´ambasciatore di Beirut all´Onu, insieme ai colleghi di Francia e Gran Bretagna, è stato tra i redattori del testo della Risoluzione 1973.
Il fronte degli arabi "interventisti" è guidato da Qatar e Emirati Arabi Uniti, i primi due paesi mediorientali ad annunciare la loro partecipazione alla no-fly zone con i loro caccia, i Mirage e gli F-16. L´emirato guidato da Hamad Bin Khalifa Al Thani, nonostante la sua modesta dimensione territoriale, ha una grande influenza in questo momento nel mondo arabo: il Qatar è presente in ogni mediazione, trattativa, iniziativa che riguardi il mondo arabo e la grande disponibilità finanziaria ne fa sempre un protagonista.
Non può stupire la posizione negativa della Siria, paese dove da settimane l´opposizione scende in piazza per chiedere democrazia e affronta una sanguinosa repressione. E anche l´Algeria affronta la stessa tempesta. Bashar Assad sente che l´ondata rivoluzionaria che sta investendo tutto il Medio Oriente è arrivata anche alle porte del suo palazzo presidenziale a Damasco.
Assad attacca «l´ingerenza straniera in Libia» sapendo che presto potrebbe trovarsi di fronte allo stesso dilemma che affronta oggi Gheddafi: resistere o abbandonare? Tutto sembra indicare che la Siria potrebbe essere la prossima tessera del domino mediorientale a cadere.

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