Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 24/03/2011, a pag. 11, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Tutti i tiranni che minacciano il mondo ", a pag. 9, gli articoli di Giorgio Israel, Vittorio Dan Segre titolati " Basta una crisi a mostrare che Obama è peggio di Carter " e " Basta l’ostilità dei turchi a svelare i limiti dell’Europa ". Dalla STAMPA, a pag. 6, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "La missione di Barack: un patto con gli arabi ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Tutti i tiranni che minacciano il mondo"

Fiamma Nirenstein
Tutti presi dalla guerra in Libia, ormai le rivoluzioni mediorentali ci sembrano solo lo sfondo della guerra libica.
E invece tutto brucia, e quei fuochi ci segnalano il tempo di capire il Medio Oriente: il mondo arabo è entrato in una epoca nuova e con esso anche il Mediterraneo. Oggi purtroppo balza agli occhi un evento solo apparentemente estraneo all’attualità: l’esplosione a Gerusalemme dell’autobus numero 74, un morto e 31 feriti di cui tre molto gravi. Un ritorno al terrorismo islamista che ha fatto duemila morti nella Seconda Intifada. È il messaggio di Hamas, insieme alla pioggia di missili su tutto il sud di Israele e alla strage di Itamar, a Israele ma anche a quello che chiama il Mubarak palestinese, ovvero Abu Mazen.I siti palestinesi chiedono l’unificazione Hamas Fatah e la contestazione radicale di Israele. Hamas, parte della Fratellanza Musulmana, bombarda e esplode, vuole trascinare tutto nel caos per accrescere il suo potere.
Poco lontano, in Siria, Bashar rampollo della dinastia alawita fondata da Hafez quarant’anni fa,dopo dieci annidi equilibrismo rischia di cadere giù. Aveva detto che lui non si preoccupava perché è in sintonia col suo popolo. Ieri nella città di Daraa, la più ribelle ( ma la rivoluzione è anche a Homs, a Der El Zor, sobborgo di Damasco), Qamishli -città curda-, Baniase e Aleppo) le forze dell’ordine hanno fatto una strage in una moschea. L’hanno fatto con premeditazione, tagliando l’elettricità e facendo irruzione al buio. Hanno ammazzato 15 persone, fra loro anche Ali Ghasab Al Mahmid, un dottore accorso per soccorrere i feriti. Assad, capo del partito baathista, è il vero rappresentante degli interessi iraniani in Medio Oriente, snodo delle armi per Hezbollah e Hamas, ospite, a Damasco, del terrorismo internazionale, campione di persecuzione dei dissidenti, e convinto come Gheddafi, che con le cattive si ottiene tutto. Se i rivoluzionari resistono, lo scontro sarà duro e se Assad perde cambieranno gli equilibri dell’area. Doveroso notare però che in piazza non ci sono solo i giovani democratici ma anche islamisti che minacciano di fare della Siria, ricca di missili russi e di armi chimiche, una bomba contro Israele e l’Occidente. Eppure, si battono per la libertà anche loro, ripresentandoci il dilemma che ci proviene anche dallo Yemen, il Paese per 32 anni dominato da Ali Abdallah Saleh. L’opposizione sostiene che ormai i morti, da venerdì quando le forze di sicurezza hanno sparato sui manifestanti a Sana’a, siano cento. Saleh è determinato e crudele. Si sa però con certezza Al Qaeda è molto forte e che il possibile successore potrebbe essere il generale Ali Mohsen al Ahmar, legato all’Arabia Saudita, un salafita superislamista. Per proseguire il nostro conturbante volo sull’area,vediamo qualche manifestazione persino in Arabia Saudita: le famiglie dei desaparecidos nelle carceri di Ryiad si presentano disperati in piazza.
Le forze saudite rispondono con la forza. E compaiono anche nelle piazze del Bahrain, dove reprimono la popolazione sciita in rivolta contro il regime sunnita suo amico. Anche là, comprendere le rivendicazioni dei rivoltosi non vuol dire ignorare gli attacchi iraniani ai sauditi accusati dal regime più repressivo del mondo, appunto, di reprimere.
Non è finita:a Beirut,e nessuno se n’è accorto, il 13 marzo si è radunata in piazza una folla valutata a un milione di persone per festeggiare il sesto anniversario dell’uscita della Siria dal Libano e per chiedere agli Hezbollah di consegnare le armi. Ecco finalmente dunque una piazza democratica: può avvenire però solo dove la tradizione democratica esiste già. Così è per la manifestazione tenutasi a Istanbul per la libertà di stampa. 68 giornalisti sono stati arrestati dal governo di Erdogan, e qualche mese prima erano stati rastrellati 300 fra militari, avvocati, professionisti accusati di cospirazione. In piazza c’erano, il 13 marzo, almeno 1000 dimostranti.
Anche la rivoluzione egiziana non è ancora finita, e il referendum sulla Costituzione ha dimostrato che i Fratelli musulmani probabilmente vinceranno le prossime elezioni. Infine, anche il re Abdullah di Giordania non ride: la sua scelta di un nuovo primo ministro, Al Bakhit, ex ambasciatore in Israele, non è stata apprezzata dai Fratelli Mussulmani e dai Palestinesi, questi ultimi maggioranza in Giordania, e non la accettano neppure molte tribù del regno. Alta marea dunque, nel Mediterraneo. Prepariamoci alla lunga traversata, la terra non è in vista, non solo Gheddafi è pericoloso, non ingaggiamoci in classifiche fra la pericolosità di questo e quel dittatore, o di Al Qaeda comparata ai Fratelli Musulmani. Non ci sono buoni in vista, se non pochi dissidenti laici, intellettuali, femministe e giovani liberali, ancora fragili come vetro.
www.fiammanirenstein.com
Il GIORNALE - Giorgio Israel : " Basta una crisi a mostrare che Obama è peggio di Carter "

Giorgio Israel
La domanda da porsi è se il peggior Presidente degli Stati Uniti del dopoguerra sia stato Jimmy Carter o Barack Obama. Come Carter, Obama ha dato prova di debolezza e titubanza disastrose. Coniugando tali 'doti' con una notevole prosopopea retorica ha raggiunto livelli comici, per esempio nel celebre discorso del Cairo dove, con tono da salvatore dell'umanità, propose castronerie come l'attribuzione all'islam della scoperta della polvere da sparo e della stampa.
Tanto generose concessioni sarebbero state perdonabili se accompagnate da un atteggiamento equanime e moralmente rigoroso.
E invece no. Non si è udita la voce di Obama a proposito della scandalosa presenza di stati canaglia nel Consiglio dei diritti umani dell'ONU; né si è udita in occasione delle innumerevoli minacce iraniane di distruggere Israele. Neppure egli è intervenuto in modo deciso in occasione della feroce repressione dei moti popolari in Iran. Dietro un confuso farfugliare e una mediocre realpolitik non è emersa alcuna strategia. Però, quando si sono scatenati i moti in Egitto, Tunisia e Libia, Obama si è svegliato assumendo toni da capopopolo dell'islam. Ha chiesto perentoriamente l'avvento della democrazia, ha intimato all'alleato (fino a poche ore prima) Mubarak di farsi da parte. Se l'idea di Bush di impiantare la democrazia in paesi che non l'hanno mai conosciuta poteva essere avventata, pensare che l'avvento della democrazia possa essere garantito dal gioco dei movimenti spontanei, in ambiti in cui l'unica forza organizzata è quella dell'integralismo islamico, è avventurismo puro. Il 1˚ marzo, in un atto di ipocrisia collettiva la Libia è stata espulsa dal Consiglio dei diritti umani, come se fino al 28 febbraio avesse avuto le credenziali per farne parte e come se molti altri stati membri non meritassero lo stesso trattamento.
Ora Obama, mentre indossa idealmente un basco alla Che Guevara, da un lato dice che Gheddafi se ne deve andare, dall'altro che non deve essere mandato via con la forza. Egli partecipa all'intervento armato purché si limiti a qualche sculacciata. Questi impulsi contraddittori hanno aggravato la cronica incapacità decisionale dei paesi europei ormai in piena confusione di orientamento e di coordinamento. Non è chiaro fino a che punto e per quanto tempo gli USA vogliano andare avanti. Si interviene senza che sia chiaritoilfineesenzaelementiperde-cidereseilmovimentoribellepuòrap-presentareunasvoltapositivaofarpre-cipitarelaLibiadallapadel anellabrace. Al confronto la guerra irakena di Bush rappresenta un modello di chiarezza di obbiettivi e di coerenza dei mezzi impiegati. Eppure ormai la scomparsa di Gheddafi dalla scena è una necessità indiscutibile: l'idea che il raìs resti in sella, anche come interlocutore dimezzato ma pieno di rancori, configura uno scenario da brividi. Ma proprio circa la possibilità di conseguire questo obbiettivo nascono le più grandi perplessità.
L'unica cosa chiara è che tutti - e non solo l'Italia che non può per i precedenti storici - escludono l'intervento di terra. Ma non occorre essere von Clausewitz per sapere che nessuna guerra può concludersi senza una definizione della situazione sul terreno, pena il prodursi di uno stato endemico di conflitto di lunga durata con conseguenze devastanti, in particolare per il nostro paese che pagherebbe un prezzo ingiusto, come se l'acquiescenza nei confronti di crudeli dittature non fosse stata (e non fosse) una prassi comune a tutti i paesi occidentali.
In questo panorama desolante di crisi dell'occidente, aggravata dall'impasto didemagogia e debolezza della presidenza americana, si staglia il problema energetico reso evidente dal dramma giapponese. Sono quarant'anni che l'occidente elude la sfida di mobilitare la propria supremazia tecnologica per rendersi indipendente dal petrolio. Anche se la vicenda giapponese impone un esame delle condizioni di massima sicurezza nella costruzione di nuove centrali, non è sensato comportarsi in modo irrazionale. Perche non si parla dei danni colossali, anche in termini di salute, provocati da incidenti legati al petrolio come il disastro nel Golfo del Messico o l'inquinamento da idrocarburi?
Ma c'è di peggio. La dipendenza dal petrolio ha contribuito a creare classi dirigenti islamiche aggressive, come quella iraniana, e a finanziare un terrorismo attivissimo, come dimostra l'attentato di ieri a Gerusalemme. Il petrolio ha comprato mezza Europa e parte degli Stati Uniti. Le celebri università inglesi si sono ridotte a centrali di propaganda antioccidentale, e in alcuni paesi europei le regole della democrazia liberale si adattano a convivere con quelle della sharia. La dipendenza dal petrolio è ormai causa ed effetto di questi processi drammatici. Ci si chiede quando verranno alla ribalta classi politiche capaci di guardare oltre la punta del naso e di gestire con decisione, lungimiranza e coniugando dignitosamente realismo e senso morale, un'evoluzione che può avere conseguenze epocali presto per l'Europa e poi per gli Usa.
Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Basta l’ostilità dei turchi a svelare i limiti dell’Europa "

Vittorio Dan Segre
Quattro giorni dopo l’inizio della «guerra umanitaria» contro Gheddafi la situazione invece di schiarirsi si complica con una nuova crisi dentro lacrisi all’interno della Nato, dopo che Obama ha ottenuto da Parigi e Londra il consenso di affidare all’Alleanza la guida delle operazioni. Questo crea una seria tensione con la Turchia. Contrario all’affidamento alla Nato della condotta dell’azione militare contro Gheddafi, il premier Erdogan, considerato un eroe dalla «strada» araba, era convinto che fosse sorta per lui l’occasione per riaffermare il rinato ruolo imperiale ottomano nel Mediterraneo, lavando, fra l’altro,l’onta della conquista italiana della Libia nella guerra del 1911 contro Costantinopoli. Forte dei suoi legami con Gheddafi da cui aveva ricevuto nel 2010 un premio di 250mila dollari per i suoi meriti in difesa dei diritti umani e degli enormi investimenti turchi in Libia, Erdogan aveva fatto tre settimane fa a Sarkozy in visita a Ankara una di quelle proposte che «non si possono rifiutare»: l’invio di un «corpo di pace» turco in Libia per risolvere la rivolta di Bengasi. In cambio si chiedeva l’abbandono da parte francese del veto all’entrata della Turchia nella Unione europea. Il netto rifiuto ricevuto è stato preso come un insulto. Oltre a peggiorare il rapporti della Turchia con la Nato, di cui è membro storico e a proibire l’uso delle basi turche dell’alleanza atlantica, questa tensione che si aggiunge alla collaborazione con l’Iran e agli scontri con Israele inietta nella crisi libica e nei rapporti turco americani un elemento di pericolosa tensione.
La situazione è aggravata da due fatti.Il primo consiste nell’incapacità del Consiglio nazionale libico formato a Bengasi dall’ex ministro della giustizia di Gheddafi, Abdel Jalil, riconosciuto per primo dalla Francia come governo della Libia, di estendere la sua autorità non solo al di là della Cirenaica ma su tutte le tribù della Libia orientale e del Fezzan. Parigi, Londra e Washington pensano di dare un ruolo agli eredi del regime monarchico senussita abbattuto da Gheddafi nel 1969, i quali però sono divisi fra il principe Seyyid Idris bin Abdulla al Senussi residente a Roma e il principe Muhammad al Senussi residente a Londra.
La coalizione rischia di perdere il sostegno della Lega araba che ondeggia fra il deciso appoggio dell’Arabia Saudita alla liquidazione di Gheddafi e le remore del Segretario generale egiziano Mussa, attento agli umori della piazza cairota, ostile all’intervento delle Nazioni unite e auto candidato alla presidenza dell’Egitto in virtù del suo feroce anti israelianismo e corteggiamento dei Fratelli musulmani.
Una nuova grana per la coalizione anti Gheddafi si sviluppa ora in seno della Unione africana che con l’aiuto dei quattrini libici ha soppiantato la più seria Organizzazione dell’unione africana. I leader della Ua, largamente beneficiari dei favori di Gheddafi, dopo avergli fornito parte delle truppe mercenarie africane si schierano ora decisamente in favore del dittatore libico contro l’intervento dell’Onu e della coalizione europea, rilanciando i soliti slogan anti colonialisti.
In questo sono imitati da Putin che denuncia l’intervento militare in Libia come una «nuova crociata » mentre la diplomazia russa vede nell’operazione «Odissea all’alba» una specie di ripetizione dell’operazione franco inglese contro l’Egitto nel 1956. Ne prevede la stessa fine e auspica che essa riapra la strada al ritorno russo nel mondo arabo. Quanto alla Cina anch’essa, contraria all’intervento militare, attende di coglierne i frutti estendendo il suo controllo sulle ricchezze del continente africano con l’aggiunta del petrolio libico.
L’elemento più negativo per la coalizione e per l’Europa in questo momento è la capacità di resistenza dimostrata da Gheddafi ma soprattutto dal suo clan. Poiché la guerra non può essere vinta con gli aerei e l’invio di truppe europee o americane è escluso, il dittatore libico è convinto di essere in grado di organizzare la guerriglia con l’aiuto delle tribù a lui fedeli nel sud della Libia. È una guerra che i beduini sono capaci di condurre con successo, senza bisogno di dispendioso materiale bellico, perfezionabile nell’epoca moderna col terrorismo. L’impoverimento della popolazione libica e il milione e mezzo dei suoi lavoratori stranieri (africani, egiziani e asiatici incluso i 30mila cinesi) non potrà che aumentare la pressione sull’Europa.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " La missione di Barack: un patto con gli arabi"

Maurizio Molinari
Convincere gli arabi a partecipare a Odyssey Dawn, spingere i turchi a togliere il veto al ricorso alla Nato e porre fine alla rissa fra gli alleati europei: sono i tre fronti del negoziato sul quale Barack Obama è impegnato, con l’obiettivo di arrivare in fretta all’accordo sulla formazione del comando multilaterale cui il Pentagono lascerà la guida dell’intervento.
Sono le difficoltà di tale trattativa ad aver obbligato Obama a partire in anticipo da El Salvador - rinunciando alla visita alle rovine Maya - per dedicarsi sull’Air Force One a una teleconferenza con Joe Biden, Robert Gates e Hillary Clinton. Gates ha fatto tappa a Mosca e al Cairo arrivando alla conclusione che «le trattative sono complicate» perché «stiamo tentando di creare un centro di comando e controllo senza precedenti» oltre al fatto che «lo stiamo facendo in corsa», ad attacco avviato. Le difficoltà a cui allude riguardano il piano di creare un comando a due teste: una militare, gestita dalla Nato, ed una politica, alla guida delle operazioni. È uno sdoppiamento di responsabilità che richiama il modello applicato dall’Onu in alcune missioni dei caschi blu e in questo caso la Casa Bianca lo ritiene utile per far coincidere due necessità: lasciare le operazioni militari in mano alla Nato, l’unica con i mezzi per gestirle, e coinvolgere a pieno titolo i Paesi della Lega Araba, per assicurare la veste multilaterale.
Ma gli ostacoli abbondano, e a rendersene conto è il vicepresidente Biden che sta tentando di ottenere la partecipazione alle operazioni dai leader di Algeria, Kuwait, Giordania e Emirati. In alcune occasioni lo stesso Obama ha fatto seguire interventi diretti ma senza esito. Il Qatar è l’unico dei 22 membri della Lega Araba che finora ha accettato di inviare aerei e le ripetute giravolte di Amr Moussa, segretario generale, sulla no fly zone aumentano l’incertezza. A complicare la trattativa c’è il fatto che tre dei più stretti alleati appaiono fuori gioco: l’Egitto è in piena transizione politica, lo Yemen in preda ai disordini e l’Arabia Saudita non è intenzionata ad aiutare Obama, imputandogli mosse errate sulle rivolte arabe.
Fino a quando il tassello arabo mancherà, la Turchia di Erdogan - contraria perfino alle sanzioni a Gheddafi - continuerà a esitare nel dare l’avallo all’uso delle strutture militari Nato, avvalorando così le perplessità di Parigi, favorevole ad affidare Odyssey Dawn a un comando esterno all’Alleanza. Per questo ieri Obama ha chiamato per la seconda volta il premier turco, sottolineando come un patto Nato-arabi potrebbe far cadere i dubbi di Ankara su una «guerra occidentale in Libia». Le dispute fra europei sono nel portafoglio di Hillary che ne segue la moltiplicazione. Il risultato è una fibrillazione che fa temere a Obama di non riuscire a risolvere «in alcuni giorni» il nodo del comando. Senza contare i dubbi che lui stesso fa trapelare sui ribelli, dicendo alla Cnn «spero che si organizzino».
Da qui l’offensiva del Congresso che mette alle strette il Presidente: i repubblicani lo accusano di aver trascinato la nazione in un conflitto mai autorizzato, i democratici esitano a difenderlo, e la replica di Obama che «i nostri aerei e le nostre navi presto lasceranno il compito ad altri» si basa sul veloce trasferimento dei comandi. Il Presidente è dunque fra due fuochi: per placare il Congresso deve riuscire a creare rapidamente una coalizione Nato-arabi che non ha precedenti. Nel tentativo di rassicurare il Congresso, Gates dice «potremmo raggiungere l’accordo entro sabato».
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