martedi` 13 maggio 2025
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



Clicca qui






Il Giornale - La Stampa Rassegna Stampa
24.03.2011 La guerra di Libia non deve distrarci da ciò che succede in Medio Oriente
Analisi di Fiamma Nirenstein, Giorgio Israel, Vittorio Dan Segre. Cronaca di Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Giorgio Israel - Vittorio Dan Segre - Maurizio Molinari
Titolo: «Tutti i tiranni che minacciano il mondo - Basta una crisi a mostrare che Obama è peggio di Carter - ta l’ostilità dei turchi a svelare i limiti dell’Europa - La missione di Barack: un patto con gli arabi»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 24/03/2011, a pag. 11, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Tutti i tiranni che minacciano il mondo ", a pag. 9, gli articoli di Giorgio Israel, Vittorio Dan Segre titolati " Basta una crisi a mostrare che Obama è peggio di Carter " e " Basta l’ostilità dei turchi a svelare i limiti dell’Europa ". Dalla STAMPA, a pag. 6, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo "La missione di Barack: un patto con gli arabi ".
Ecco i pezzi:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Tutti i tiranni che minacciano il mondo"


Fiamma Nirenstein

Tutti presi dalla guerra in Libia, ormai le rivoluzioni mediorentali ci sembrano so­lo lo sfondo della guerra libica.
E invece tutto brucia, e quei fuochi ci segnalano il tempo di capire il Medio Oriente: il mon­do arabo è entrato in una epo­ca nuova e con esso anche il Mediterraneo. Oggi purtrop­po balza agli occhi un evento solo apparentemente estra­neo all’attualità: l’esplosione a Gerusalemme dell’autobus numero 74, un morto e 31 feri­ti di cui tre molto gravi. Un ritor­no al terrorismo islamista che ha fatto duemila morti nella Se­conda Intifada. È il messaggio di Hamas, insieme alla piog­gia di missili su tutto il sud di Israele e alla strage di Itamar, a Israele ma anche a quello che chiama il Mubarak palestine­se, ovvero Abu Mazen.I siti pa­lestinesi chiedono l’unificazio­ne Hamas­ Fatah e la contesta­zione radicale di Israele. Ha­mas, parte della Fratellanza Musulmana, bombarda e esplode, vuole trascinare tutto nel caos per accrescere il suo potere.
Poco lontano, in Siria, Bashar rampollo della dina­stia alawita fondata da Hafez quarant’anni fa,dopo dieci an­ni­di equilibrismo rischia di ca­dere giù. Aveva detto che lui non si preoccupava perché è in sintonia col suo popolo. Ieri nella città di Daraa, la più ribel­le ( ma la rivoluzione è anche a Homs, a Der El Zor, sobborgo di Damasco), Qamishli -città curda-, Baniase e Aleppo) le forze dell’ordine hanno fatto una strage in una moschea. L’hanno fatto con premedita­zione, tagliando l’elettricità e facendo irruzione al buio. Hanno ammazzato 15 perso­ne, fra loro anche Ali Ghasab Al Mahmid, un dottore accor­so per soccorrere i feriti. As­sad, capo del partito baathista, è il vero rappresentante degli interessi iraniani in Medio Oriente, snodo delle armi per Hezbollah e Hamas, ospite, a Damasco, del terrorismo inter­nazionale, campione di perse­cuzione dei dissidenti, e con­vinto come Gheddafi, che con le cattive si ottiene tutto. Se i ri­voluzionari resistono, lo scon­tro sarà duro e se Assad perde cambieranno gli equilibri del­l’area. Doveroso notare però che in piazza non ci sono solo i giovani democratici ma an­che islamisti che minacciano di fare della Siria, ricca di missi­li russi e di armi chimiche, una bomba contro Israele e l’Occi­dente. Eppure, si battono per la libertà anche loro, ripresen­tandoci il dilemma che ci pro­viene anche dallo Yemen, il Pa­ese per 32 anni dominato da Ali Abdallah Saleh. L’opposi­zione sostiene che ormai i mor­ti, da venerdì quando le forze di sicurezza hanno sparato sui manifestanti a Sana’a, siano cento. Saleh è determinato e crudele. Si sa però con certez­za Al Qaeda è molto forte e che il possibile successore potreb­be essere il generale Ali Moh­sen al Ahmar, legato all’Arabia Saudita, un salafita superisla­mista. Per proseguire il nostro conturbante volo sull’area,ve­diamo qualche manifestazio­ne persino in Arabia Saudita: le famiglie dei desaparecidos nelle carceri di Ryiad si presen­tano disperati in piazza.
Le for­ze saudite rispondono con la forza. E compaiono anche nel­le piazze del Bahrain, dove re­primono la popolazione sciita in rivolta contro il regime sun­nita suo amico. Anche là, com­prendere le rivendicazioni dei rivoltosi non vuol dire ignora­re gli attacchi iraniani ai saudi­ti accusati dal regime più re­pressivo del mondo, appunto, di reprimere.
Non è finita:a Beirut,e nessu­no se n’è accorto, il 13 marzo si è radunata in piazza una folla valutata a un milione di perso­ne pe­r festeggiare il sesto anni­versario dell’uscita della Siria dal Libano e per chiedere agli Hezbollah di consegnare le ar­mi. Ecco finalmente dunque una piazza democratica: può avvenire però solo dove la tra­dizione democratica esiste già. Così è per la manifestazio­ne tenutasi a Istanbul per la li­bertà di stampa. 68 giornalisti sono stati arrestati dal gover­no di Erdogan, e qualche me­se prima erano stati rastrellati 300 fra militari, avvocati, pro­fessionisti accusati di cospira­zione. In piazza c’erano, il 13 marzo, almeno 1000 dimo­stranti.
Anche la rivoluzione egizia­na non è ancora finita, e il refe­rendum sulla Costituzione ha dimostrato che i Fratelli mu­sul­mani probabilmente vince­ranno le prossime elezioni. In­fine, anche il re Abdullah di Giordania non ride: la sua scel­ta di un nuovo primo ministro, Al Bakhit, ex ambasciatore in Israele, non è stata apprezzata dai Fratelli Mussulmani e dai Palestinesi, questi ultimi mag­gioranza in Giordania, e non la accettano neppure molte tri­bù del regno. Alta marea dun­que, nel Mediterraneo. Prepa­riamoci alla lunga traversata, la terra non è in vista, non solo Gheddafi è pericoloso, non in­gaggiamoci in classifiche fra la pericolosità di questo e quel dittatore, o di Al Qaeda compa­rata ai Fratelli Musulmani. Non ci sono buoni in vista, se non pochi dissidenti laici, in­tellettuali, femministe e giova­ni liberali, ancora fragili come vetro.
www.fiammanirenstein.com

Il GIORNALE - Giorgio Israel : " Basta una crisi a mostrare che Obama è peggio di Carter "


Giorgio Israel

La domanda da porsi è se il peg­g­ior Presidente degli Stati Uniti del do­poguerra sia stato Jimmy Carter o Ba­rack Obama. Come Carter, Obama ha dato prova di debolezza e titubanza di­sastrose. Coniugando tali 'doti' con una notevole prosopopea retorica ha raggiunto livelli comici, per esempio nel celebre discorso del Cairo dove, con tono da salvatore dell'umanità, propose castronerie come l'attribuzio­ne all'isla­m della scoperta della polve­re da sparo e della stampa.
Tanto gene­rose concessioni sarebbero state per­don­abili se accompagnate da un atteg­giamento equanime e moralmente ri­goroso.
E invece no. Non si è udita la voce di Obama a proposito della scan­dalosa presenza di stati canaglia nel Consiglio dei diritti umani dell'ONU; né si è udita in occasione delle innume­revoli minacce iraniane di distruggere Israele. Neppure egli è intervenuto in modo deciso in occasione della feroce repressione dei moti popolari in Iran. Dietro un confuso farfugliare e una mediocre realpolitik non è emersa al­cuna strategia. Però, quando si sono scatenati i moti in Egitto, Tunisia e Li­bia, Obama si è svegliato assumendo toni da capopopolo dell'islam. Ha chiesto perentoriamente l'avvento della democrazia, ha intimato all'allea­to (fino a poche ore prima) Mubarak di farsi da parte. Se l'idea di Bush di im­piantare la democrazia in paesi che non l'hanno mai conosciuta poteva es­sere avventata, pensare che l'avvento della democrazia possa essere garant­i­to dal gioco dei movimenti spontanei, in ambiti in cui l'unica forza organizza­ta è quella dell'integralismo islamico, è avventurismo puro. Il 1˚ marzo, in un atto di ipocrisia collettiva la Libia è stata espulsa dal Consiglio dei diritti umani, come se fino al 28 febbraio avesse avuto le credenziali per farne parte e come se molti altri stati mem­bri non meritassero lo stesso tratta­mento.
Ora Obama, mentre indossa ideal­mente un basco alla Che Guevara, da un lato dice che Gheddafi se ne deve andare, dall'altro che non deve essere mandato via con la forza. Egli parteci­pa a­ll'intervento armato purché si limi­ti a qualche sculacciata. Questi impul­si contraddittori hanno aggravato la cronica incapacità decisionale dei pae­si europei ormai in piena confusione di orientamento e di coordinamento. Non è chiaro fino a che punto e per quanto tempo gli USA vogliano anda­re avanti. Si interviene senza che sia chiaritoilfineesenzaelementiperde-cidereseilmovimentoribellepuò­rap-presentareunasvoltapositivaofarpre-cipitarelaLibiadallapadel anellabra­ce. Al confronto la guerra irakena di Bush rappresenta un modello di chia­rezza di obbiettivi e di coerenza dei mezzi impiegati. Eppure ormai la scomparsa di Gheddafi dalla scena è una necessità indiscutibile: l'idea che il raìs resti in sella, anche come interlo­cutore dimezzato ma pieno di rancori, configura uno scenario da brividi. Ma proprio circa la possibilità di consegui­re questo obbiettivo nascono le più grandi perplessità.
L'unica cosa chiara è che tutti - e non solo l'Italia che non può per i pre­cedenti storici - escludono l'interven­to di terra. Ma non occorre essere von Clausewitz per sapere che nessuna guerra può concludersi senza una defi­nizione della situazione sul terreno, pena il prodursi di uno stato endemi­c­o di conflitto di lunga durata con con­seguenze devastanti, in particolare per il nostro paese che pagherebbe un prezzo ingiusto, come se l'acquiescen­za nei confronti di crudeli dittature non fosse stata (e non fosse) una prassi comune a tutti i paesi occidentali.
In questo panorama desolante di cri­si dell'occidente, aggravata dall'impa­sto di­demagogia e debolezza della pre­sidenza americana, si staglia il proble­ma energetico reso evidente dal dram­ma giapponese. Sono quarant'anni che l'occidente elude la sfida di mobili­tare la propria supremazia tecnologi­ca per rendersi indipendente dal pe­trolio. Anche se la vicenda giapponese impone un esame delle condizioni di massima sicurezza nella costruzione di nuove centrali, non è sensato com­­portarsi in modo irrazionale. Perche non si parla dei danni colossali, anche in termini di salute, provocati da inci­denti legati al petrolio come il disastro nel Golfo del Messico o l'inquinamen­to da idrocarburi?
Ma c'è di peggio. La dipendenza dal petrolio ha contribui­to a cr­eare classi dirigenti islamiche ag­gressive, come quella iraniana, e a fi­nanziare un terrorismo attivissimo, co­me dimostra l'attentato di ieri a Geru­salemme. Il petrolio ha comprato mez­za Europa e parte degli Stati Uniti. Le celebri università inglesi si sono ridot­te a centrali di propaganda antiocci­dentale, e in alcuni paesi europei le regole della democrazia li­be­rale si adattano a convi­vere con quelle della sharia. La dipendenza dal petrolio è ormai causa ed effetto di questi processi dram­matici. Ci si chiede quando verranno alla ribalta classi politiche capaci di guardare oltre la punta del naso e di gestire con decisione, lungimiranza e co­niugando dignitosamente realismo e senso morale, un'evoluzione che può avere conseguenze epocali presto per l'Europa e poi per gli Usa.

Il GIORNALE - Vittorio Dan Segre : " Basta l’ostilità dei turchi a svelare i limiti dell’Europa "


Vittorio Dan Segre

Quattro giorni dopo l’inizio della «guerra umanitaria» contro Gheddafi la situazione invece di schiarirsi si complica con una nuova crisi dentro lacrisi all’inter­no della Nato, dopo che Obama ha ottenuto da Parigi e Londra il consenso di affidare all’Alleanza la guida delle operazioni. Que­sto crea una seria tensione con la Turchia. Contrario all’affidamento alla Na­to della condotta del­l’azione militare con­tro Gheddafi, il pre­mier Erdogan, consi­derato un eroe dalla «strada» araba, era con­vinto che fosse sorta per lui l’occasione per riaffer­mare il rinato ruolo imperia­le ottomano nel Mediterraneo, la­vando, fra l’altro,l’onta della con­quista italiana della Libia nella guerra del 1911 contro Costanti­nopoli. Forte dei suoi legami con Gheddafi da cui aveva ricevuto nel 2010 un premio di 250mila dollari per i suoi meriti in difesa dei diritti umani e degli enormi in­vestimenti turchi in Libia, Erdo­gan aveva fatto tre settimane fa a Sarkozy in visita a Ankara una di quelle proposte che «non si posso­no rifiutare»: l’invio di un «corpo di pace» turco in Libia per risolve­re la rivolta di Bengasi. In cambio si chiedeva l’abbandono da parte francese del veto all’entrata della Turchia nella Unione europea. Il netto rifiuto ricevuto è stato pre­so come un insulto. Oltre a peg­giorare il rapporti della Turchia con la Nato, di cui è membro stori­co e a proibire l’uso delle basi tur­che dell’alleanza atlantica, que­sta tensione che si aggiunge alla collaborazione con l’Iran e agli scontri con Israele inietta nella crisi libica e nei rapporti turco americani un elemento di perico­losa tensione.
La situazione è aggravata da due fatti.Il primo consiste nell’in­capacità del Consiglio nazionale libico formato a Bengasi dall’ex ministro della giustizia di Ghed­dafi, Abdel Jalil, riconosciuto per primo dalla Francia come gover­no della Libia, di estendere la sua autorità non solo al di là della Ci­renaica ma su tutte le tribù della Libia orientale e del Fezzan. Pari­gi, Londra e Washington pensa­no di dare un ruolo agli eredi del regime monarchico senussita ab­battuto da Gheddafi nel 1969, i quali però sono divisi fra il princi­pe Seyyid Idris bin Abdulla al Se­nussi residente a Roma e il princi­pe Muhammad al Senussi resi­dente a Londra.
La coalizione rischia di perdere il sostegno della Lega araba che ondeggia fra il deciso appoggio dell’Arabia Saudita alla liquida­zione di Gheddafi e le remore del Segretario generale egiziano Mussa, attento agli umori della piazza cairota, ostile all’interven­to delle Nazioni unite e auto can­didato alla presidenza dell’Egitto in virtù del suo feroce anti israelia­nismo e corteggiamento dei Fra­telli musulmani.
Una nuova grana per la coalizio­ne anti Gheddafi si sviluppa ora in seno della Unione africana che con l’aiuto dei quattrini libici ha soppiantato la più seria Organiz­zazione dell’unione africana. I leader della Ua, largamente bene­ficiari dei favori di Gheddafi, do­po a­vergli fornito parte delle trup­pe mercenarie africane si schiera­no ora decisamente in favore del dittatore libico contro l’interven­to dell’Onu e della coalizione eu­ropea, rilanciando i soliti slogan anti colonialisti.
In questo sono imitati da Putin che denuncia l’intervento milita­re in Libia come una «nuova cro­ciata » mentre la diplomazia rus­sa vede nell’operazione «Odis­sea all’alba» una specie di ripeti­zione dell’operazione franco in­glese contro l’Egitto nel 1956. Ne prevede la stessa fine e auspica che essa riapra la strada al ritor­no russo nel mondo arabo. Quan­to alla Cina anch’essa, contraria all’intervento militare, attende di coglierne i frutti estendendo il suo controllo sulle ricchezze del continente africano con l’ag­giunta del petrolio libico.
L’elemento più negativo per la coalizione e per l’Europa in que­sto momento è la capacità di resi­stenza dimostrata da Gheddafi ma soprattutto dal suo clan. Poi­ché la guerra non può essere vin­ta con gli aerei e l’invio di truppe europee o americane è escluso, il dittatore libico è convinto di es­sere in grado di organizzare la guerriglia con l’aiuto delle tribù a lui fedeli nel sud della Libia. È una guerra che i beduini sono ca­paci di condurre con successo, senza bisogno di dispendioso materiale bellico, perfezionabi­le nell’epoca moderna col terro­rismo. L’impoverimento della popolazione libica e il milione e mezzo dei suoi lavoratori stranie­ri (africani, egiziani e asiatici in­cluso i 30mila cinesi) non potrà che aumentare la pressione sul­l’Europa.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " La missione di Barack: un patto con gli arabi"


Maurizio Molinari

Convincere gli arabi a partecipare a Odyssey Dawn, spingere i turchi a togliere il veto al ricorso alla Nato e porre fine alla rissa fra gli alleati europei: sono i tre fronti del negoziato sul quale Barack Obama è impegnato, con l’obiettivo di arrivare in fretta all’accordo sulla formazione del comando multilaterale cui il Pentagono lascerà la guida dell’intervento.

Sono le difficoltà di tale trattativa ad aver obbligato Obama a partire in anticipo da El Salvador - rinunciando alla visita alle rovine Maya - per dedicarsi sull’Air Force One a una teleconferenza con Joe Biden, Robert Gates e Hillary Clinton. Gates ha fatto tappa a Mosca e al Cairo arrivando alla conclusione che «le trattative sono complicate» perché «stiamo tentando di creare un centro di comando e controllo senza precedenti» oltre al fatto che «lo stiamo facendo in corsa», ad attacco avviato. Le difficoltà a cui allude riguardano il piano di creare un comando a due teste: una militare, gestita dalla Nato, ed una politica, alla guida delle operazioni. È uno sdoppiamento di responsabilità che richiama il modello applicato dall’Onu in alcune missioni dei caschi blu e in questo caso la Casa Bianca lo ritiene utile per far coincidere due necessità: lasciare le operazioni militari in mano alla Nato, l’unica con i mezzi per gestirle, e coinvolgere a pieno titolo i Paesi della Lega Araba, per assicurare la veste multilaterale.

Ma gli ostacoli abbondano, e a rendersene conto è il vicepresidente Biden che sta tentando di ottenere la partecipazione alle operazioni dai leader di Algeria, Kuwait, Giordania e Emirati. In alcune occasioni lo stesso Obama ha fatto seguire interventi diretti ma senza esito. Il Qatar è l’unico dei 22 membri della Lega Araba che finora ha accettato di inviare aerei e le ripetute giravolte di Amr Moussa, segretario generale, sulla no fly zone aumentano l’incertezza. A complicare la trattativa c’è il fatto che tre dei più stretti alleati appaiono fuori gioco: l’Egitto è in piena transizione politica, lo Yemen in preda ai disordini e l’Arabia Saudita non è intenzionata ad aiutare Obama, imputandogli mosse errate sulle rivolte arabe.

Fino a quando il tassello arabo mancherà, la Turchia di Erdogan - contraria perfino alle sanzioni a Gheddafi - continuerà a esitare nel dare l’avallo all’uso delle strutture militari Nato, avvalorando così le perplessità di Parigi, favorevole ad affidare Odyssey Dawn a un comando esterno all’Alleanza. Per questo ieri Obama ha chiamato per la seconda volta il premier turco, sottolineando come un patto Nato-arabi potrebbe far cadere i dubbi di Ankara su una «guerra occidentale in Libia». Le dispute fra europei sono nel portafoglio di Hillary che ne segue la moltiplicazione. Il risultato è una fibrillazione che fa temere a Obama di non riuscire a risolvere «in alcuni giorni» il nodo del comando. Senza contare i dubbi che lui stesso fa trapelare sui ribelli, dicendo alla Cnn «spero che si organizzino».

Da qui l’offensiva del Congresso che mette alle strette il Presidente: i repubblicani lo accusano di aver trascinato la nazione in un conflitto mai autorizzato, i democratici esitano a difenderlo, e la replica di Obama che «i nostri aerei e le nostre navi presto lasceranno il compito ad altri» si basa sul veloce trasferimento dei comandi. Il Presidente è dunque fra due fuochi: per placare il Congresso deve riuscire a creare rapidamente una coalizione Nato-arabi che non ha precedenti. Nel tentativo di rassicurare il Congresso, Gates dice «potremmo raggiungere l’accordo entro sabato».

Per inviare la propria opinione a Giornale e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti


segreteria@ilgiornale.it
lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT