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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera Rassegna Stampa
23.03.2011 Non bisogna avere paura di combattere la guerra in Libia
analisi di Fiamma Nirenstein, Magdi C. Allam, Paola Peduzzi, Alessandro Giuli, Mattia Ferraresi, Amy Rosenthal, Fiorenza Sarzanini

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Corriere della Sera
Autore: Fiamma Nirenstein - Magdi C. Allam - Paola Peduzzi - Alessandro Giuli - Mattia Ferraresi - Amy Rosenthal -Fiorenza Sarzanini
Titolo: «Il pericolo? Avere paura della guerra - Prima del raìs cambiamo questa inutile Europa - Storia vera della guerra libica - Guerra da Liberal - Nuovo medio oriente - Terrorismo, gli 007 inglesi allertano la coalizione»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 23/03/2011, a pag. 1-8, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Il pericolo? Avere paura della guerra ", a pag. 1-3, l'articolo di Magdi Cristiano Allam dal titolo " Prima del raìs cambiamo questa inutile Europa ". Dal FOGLIO, a pag. 1-I, l'articolo di Paola Peduzzi e Alessandro Giuli dal titolo " Storia vera della guerra libica ", a pag. I, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Guerra da Liberal  ", l'articolo di Amy Rosenthal dal titolo " Nuovo medio oriente ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, l'articolo di Fiorenza Sarzanini dal titolo " Terrorismo, gli 007 inglesi allertano la coalizione ".
Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Il pericolo? Avere paura della guerra"


Fiamma Nirenstein

«Non avere paura e non sgomentarti» dice Dio a Gio­suè (8:1) e questa esortazio­ne si trova 40 volte solo nel Vecchio Testamento: è un imperativo fondamentale e indispensabile della cultura del nostro mondo. Lo è nella cultura ebraica, lo è nella cultura cristiana, ha ispirato tutti i loro sviluppi laici sia conservatori che progressisti, è un leitmotiv della letteratura di ogni tempo, e la moderna bandiera del risorgimento e delle rivoluzioni. Senza questa esortazione non siamo niente. Perché la paura è un sentimento naturale, tutti la proviamo specialmente davanti a una situazione di conflitto. Oggi, bisogna cercare di non avere paura della guerra, proprio perché guardandosi intorno si vede, si legge, si respira nella politica troppo sgomento. Il coraggio intellettuale e anche fisico hanno costruito la cultura della democrazia, così funambolica e strana. Lo sgomento che si percepisce è pericoloso per la nostra riuscita e per il nostro prestigio internazionale. A volte è travestito da ragionevolezza, a volte da cinismo, a volte da prudenza, a volte da ignavia. E invece, quando volano i Tornado lo spirito pubblico deve nutrirsi solo di coraggio. La paura è un sentimento sensato ma guai, oggi, a farne una bandiera, una politica, renderebbe il gioco facile per i prepotenti e i malvagi se le lasciassimo compiere il suo corso.

Quando si va in guerra il dovere della politica è creare lo spirito pubblico che porta alla vittoria. Abbiamo certo ragione a temere gli spauracchi di cui si parla in questi giorni, la furbizia francese che sottende alla spaccatura europea, una marea di profughi, la perdita dei nostri rapporti economici con la Libia, l’avvento di un regime peggiore di quello di Gheddafi, la paura di una nuova Somalia quasi attaccata geograficamente al nostro Paese. Ma dobbiamo smetterla di preoccuparci adesso che abbiamo un compito da eseguire, quello di salvare la popolazione libica e di conseguenza cercare di sottrarre a Gheddafi tutto il potere, e mi stupisce che proprio la Lega, che tanto spesso fa mostra di virile coraggio stavolta sia così pubblicamente angosciata. Che ne vuole fare di questa angoscia? Spingere a tornare a casa? Spaccare il governo? Sono certa che le risposte sarebbero negative.

Proprio la paura, condivisa da tutto il resto del mondo e soprattutto dalla tentennante politica di Obama, ci ha fatto compiere il primo errore, quello del ritardo che ora dobbiamo recuperare. L’Italia è il Paese che per posizione geografica ed economia ha più interessi in giuoco, più stake come si dice e quindi, anzi, questa guerra ci deve trovare appassionati e decisi. Non ci vogliamo trovare vicino rovine fumanti da cui emerge un mondo caotico che può danneggiarci, guai a lasciar perdere, siamo i più interessati a introdurre un principio d’ordine nel caos.

Ci sono molti buoni motivi per non avere paura. Andiamo dal minore al maggiore: la Francia, grande giocatore in competizione, non è certo un gran giocatore di politica mediorientale, questa sua escalation non la porterà da nessuna parte. L’ultima immagine rilevante della Francia durante queste rivoluzioni di popolo è quella del ministro degli esteri francesi ospite da Ben Ali quando questi venne cacciato dalla folla, e la fallimentare invenzione di Sarkozy, l’Unione Mediterranea... Non sembra esserci per lui orizzonte oltre le elezioni.

Non mi angoscerei neppure per l’Eni, le sue radici in Libia sono solide. Preoccupiamoci piuttosto del ruolo prossimo venturo dell’Europa in un Mediterraneo irriconoscibile. E’ un gioco molto grande: due navi iraniane ne hanno solcato le acque, come Pizie malefiche, entrando dal Canale di Suez per la prima volta dalla rivoluzione khomeinista. Altri grandi movimenti preparano grandi giochi cui dobbiamo prendere parte, pena la nostra emarginazione dal Mare Nostrum. Noi non potevamo - sarebbe bello che lo capisse la Lega se non vuole pensare al pericolo islamico in maniera provinciale - non partecipare al grande gioco del mondo che volta pagina e parteciparvi nella funzione a noi più propria: quella della difesa della libertà.

Un ciclo storico si chiude, l’Italia, l’Europa non possono portare la giustificazione dei genitori, il papà americano è malato anche lui. Se un dittatore decima la sua popolazione, tanto deve bastare all’Occidente democratico per intervenire in nome dei suoi principi, pena la sua rispettabilità. Tutti si chiedono, e non solo per la Libia, chi verrà dopo i dittatori al tramonto e in particolare dopo Gheddafi. La verità è che può andare davvero molto male: può darsi che il desiderio di libertà non coincida affatto con quello di democrazia e che i Fratelli Mussulmani e gli amici dell’Iran dovranno diventare la nostra interfaccia islamica nei prossimi anni. Sarà durissima.

E allora? Sarebbe capitato in ogni caso, sia col nostro intervento e la nostra approvazione, per esempio in Egitto, che senza. Per ora, devono cadere i dittatori, questo è il nostro credo, la nostra guerra. E quelli che verranno domani e che sono in ogni caso la nuova classe dirigente del mondo arabo, islamisti o meno che siano, sapranno che noi abbiamo una nostra guerra, un nostro credo. Un nostro coraggio. I nostri Tornado. Quando il dubbio ci attanaglia e la paura ci aggredisce, pensiamo che solo un cambiamento in senso democratico è quello che ci interessa, e il futuro indica la strada della volontà e del coraggio.

www.fiammanirenstein.com

Il GIORNALE - Magdi C. Allam : " Prima del raìs cambiamo questa inutile Europa "


Magdi C. Allam

Appena un anno e mez­zo fa, era il primo set­tembre 2009, i velivoli militari francesi, ita­liani, portoghesi e serbi sfrec­ciarono sui cieli di Tripoli per rendere omaggio a Gheddafi condividendo la festa per il quarantesimo della sua rivo­luzione. Le nostre Frecce Tri­colori si esibirono in Libia uf­ficializzando un vincolo spe­ciale con un regime con cui abbiamo immaginato di aver instaurato un matrimonio in­dissolubile simboleggiato dal fiume di petrolio, di gas, di fondi sovrani e di commes­se ch­e ci avrebbe uniti amore­volmente per l'eternità.

Oggi i nostri aerei sono tornati su­gli stessi cieli per bombarda­re­le strutture militari e logisti­che che gli abbiamo venduto e per uccidere il tiranno che fino all'altro ieri esaltavamo e non esitavamo a prostrarci al suo cospetto pur di avere la sua firma in calce all'asse­gno. La guerra che abbiamo scatenato contro la Libia sta dimostrando che siamo a tal punto screditati da non poter impartire lezioni di moralità a un dittatore la cui ferocia ha portato le Nazioni Unite a denunciarlo per crimini contro l'umanità. Il cosiddetto «Vertice di Parigi per il sostegno del popolo libico», che lo scorso 19 marzo ha sancito l'avvio della guerra, si sta rivelando un vero e proprio complotto ordito da Sarkozy per far risalire le sue quotazioni interne dopo il crollo della sua popolarità nei sondaggi e nelle urne, assumendo formalmente la guida della difesa degli interessi petroliferi dell' Europa dopo che Gheddafi aveva annunciato che avrebbe rimpiazzato le multinazionali occidentali con i cinesi e i brasiliani.

Un complotto a cui hanno aderito gli Stati Uniti, i Paesi europei, la Lega Araba e persino l'Onu con modalità ispirate dal loro termometro politico interno, con l'obiettivo di riscattare se stessi e non il popolo libico che si ritrova ad essere doppiamente tradito. Prima è stato abbandonato a se stesso pagando un alto tributo di vittime quando Gheddafi ha usato l'aviazione e i carri armati per recuperare il controllo delle città cadute nelle mani degli insorti; poi si è ritrovato a continuare a morire bombardato sia dall'esercito libico sia dagli aerei che dovrebbero liberarlo dalla dittatura. Se non siamo intervenuti quando avremmo dovuto e se siamo intervenuti soltanto quando abbiamo fiutato odor di vendetta da parte del Gheddafi trionfante, ciò si spiega con il fatto che i tempi dell'interventonon sono stati dettati dalla volontà di aiutare il popolo libico a conquistare la libertà e la democrazia, bensì dalle ragioni interne di ciascun Paese occidentale.

Non stupisce pertanto che di fronte alla resistenza di Gheddafi e lo spettro di un conflitto lungo, costoso e sanguinoso, la cosiddetta «Coalizione dei volenterosi » si sia disgregata riducendosi ad una indecorosa armata Brancaleone in cui ciascun alleato persegue un interesse diverso e talvolta contrastante. La lezione da trarre è che prima di cambiare Gheddafi dobbiamo cambiare l'Europa. E per cambiare l'Europa dobbiamo dare un'anima all'Europa che si sostanzi del riconoscimento delle nostre radici giudaico- cristiane, della fede nei valori non negoziabili che sono il fondamento della nostra umanità, dell'orgoglio della nostra identità cristiana che tutela la vita, la dignità e la libertà di tutti, siano essi credenti o meno. Quest'Europa si presenta puntualmente a ranghi sparsi ed è incapace di unirsi sul piano della politica estera, della difesa, della sicurezza, dell'immigrazione e dell'integrazione, perché ci vergogniamo di noi stessi, non sappiamo chi siamo, non conosciamo la rotta da seguire e non individuiamo il punto di approdo.

Il discredito internazionale dell'Europa in particolare e dell' Occidente in generale che la guerra in Libia sta producendo, ci fa toccare con mano che stiamo vivendo una fase accelerata del declino della nostra civiltà, la civiltà della persona concepita come produttore di materialità per consumare sempre di più, dove l'euro ci è stato presentato come la massima realizzazione della costruzione dell' Europa unita. Se l'islam si affermerà sempre più come il riferimento ideologico e identitario dominantesull'altra sponda del Mediterraneo, ciò si dovrà al fatto che noi abbiamo fallito nel proporci come depositari di una civiltà credibile con valori e regole universalmente valide.

Prima ci siamo screditati dimostrando di essere interessati solo ai beni materiali legittimando i dittatori che ce li garantivano; poi abbiamo accresciuto il nostro discredito bombardando la Libia solo dopo che Gheddafi ha ripreso il controllo delle città e ha annunciato che non tutelerà più i nostri interessi materiali. Ci stiamo comportando come chi scioccamente non sa neppure salvaguardare se stesso, perché di fatto siamo diventati a tal punto succubi della materialità da non essere più capaci di volerci del bene.

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Guerra da Liberal "


Paul Berman

New York. Paul Berman è uno degli intellettuali che con più forza hanno giustificato con argomenti liberal le invasioni di Afghanistan e Iraq, salvo poi ricredersi su tempi e mezzi con le quali sono state condotte. Professore alla New York University, Berman ha scritto di recente “The Flight of the Intellectuals”, seguito del volume “Terror and Liberalism”, il testo di riferimento dei falchi liberal nella guerra al terrore. Al Foglio Berman non nasconde la sua approvazione e anche l’entusiasmo per l’iniziativa di Obama in Libia: “E’ stata una decisione giusta e fra l’altro inevitabile per gli Stati Uniti, specialmente dopo l’approvazione della Lega araba”. Il volto della guerra di Libia non è di quelli che trascinano la sinistra in piazza, salvo sparute eccezioni bacchettate dalla sinistra stessa. Odyssey Dawn è un’operazione troppo accorta e ispirata a principi umanitari per suscitare il rancore dei liberal americani, che in questi giorni stanno ingaggiando una specie di gara per trovare le definizioni giuste, fare distinzioni tecniche, spaccare capelli bellici in quattro per poter sostenere il padre di tutti i distinguo in materia: questa non è una guerra à la Bush e forse è a tal punto sicura, aerea e ben ordita che non è nemmeno una guerra. Per il fronte dei falchi liberal – quello degli interventisti di sinistra della guerra in Iraq in cerca di redenzione politica – la risoluzione 1.973 dell’Onu e il disordinato ma compatto fronte occidentale è l’occasione per elaborare un ragionamento semplice: dopo la fiducia mal riposta nella guerra in Iraq, l’attacco a quel tiranno impunito di Gheddafi che soffoca nel sangue un contagioso fenomeno di rivolta è l’occasione perfetta per tornare alla guerra democratica, quella che si fa con gli aerei, la coalizione occidentale in concerto (le voci stonate fanno parte del gioco) e con la candida benedizione dell’Onu, poco importa se le sue risoluzioni sono vaghe e ciascuno le interpreta un po’ come gli va. Si torna al modello di Clinton e della guerra in Bosnia, ma anche e soprattutto al non-modello del Ruanda, dove il presidente democratico non intervenì generando un senso di colpa a sinistra che riemerge di fronte alla possibilità odierna di far fuori un dittatore (il mandato dell’Onu non lo prevede, ma il presidente, Barack Obama, non svela un segreto quando dice che l’obiettivo di fondo degli Stati Uniti è il regime change). Se poi persino la voce liberal e crudamente antibushiana del New York Times parla nell’editoriale solenne di ieri di “momento straordinario nella storia recente”, loda quel multilateralismo che qualche pagina più in là l’opinionista conservatore David Brooks smonta pezzo per pezzo, e invita tra le righe a forzare i limiti imposti dalla lettera della risoluzione 1.973, allora il fronte più malleabile dei falchi liberal è perfettamente titolato a considerare l’operazione Odyssey Dawn la migliore delle guerre possibili. L’Amministrazione non è arrivata tardi? “Sì – dice Berman – per il popolo della Libia è riprovevole e tragico che ci sia voluto così tanto per intervenire, ma Obama ha aspettato che ci fossero le migliori circostanze politiche possibili. Aspettando ha in qualche modo dimostrato di avere imparato la lezione dell’Iraq: non avere il giusto supporto politico può portare a un disastro, anche in una guerra giusta contro un tiranno”. Diverse fonti del Pentagono sostengono però che gli stessi generali siano furiosi con il presidente per questa operazione, il che non sembra un buon auspicio politico. “Non mi stupisce che i militari siano riluttanti, loro ragionano in termini di convenienza bellica e quindi sanno quanto è rischioso e dispendioso questo conflitto. Ma le sue ragioni sono superiori e del resto è per questo che nelle democrazie occidentali i civili controllano i militari: ci sono ragioni che superano i calcoli della gerarchia del Pentagono, che pure rispetto moltissimo, e l’operazione in Libia non è una questione militare”. Il bello della seconda fila Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, ha fatto e sta facendo di tutto per mettere il suo marchio su questa guerra, lasciando agli Stati Uniti – che pure la guidano – l’immagine di partner di seconda linea, cosa che Berman approva decisamente: “Sono felice che siamo in seconda fila, perché così non sembra che l’operazione sia un’idea americana a cui gli alleati vengono in qualche modo costretti a partecipare. Sarkozy ha fatto una cosa buona e poco m’importa se l’abbia fatta per interessi nazionali: ci ha evitato il problema dell’unilateralismo di Bush e ci ha permesso di entrare nell’operazione con il sigillo di tutti i gradi della diplomazia, dalla Lega araba all’Onu”. La risoluzione 1.973 di per sé non garantisce affatto di risolvere i problemi con il colonnello Gheddafi e per questo Berman spera che adesso tutti gli alleati si dedichino all’arte dell’“utile ipocrisia”, forzando nei fatti i confini di un testo rigido per “proteggere davvero la popolazione della Libia, il che comporterà nel medio periodo non soltanto la distruzione dei mezzi militari di Gheddafi ma anche quella di un cambiamento del regime stesso”. Però la coalizione appare già piuttosto fragile. “E’ fragile come tutte le altre coalizioni, gioca con le ambiguità verbali e ciascuno coltiva i propri interessi, è normale: ma il primo passo è stato fatto nello spirito giusto e si spera che nessuno cerchi di tradirlo”.

Il FOGLIO - Paola Peduzzi, Alessandro Giuli : " Storia vera della guerra libica"


Paola Peduzzi, Alessandro Giuli

Ecco la storia vera della campagna (disunitaria) occidentale di Libia, dal 17 febbraio a oggi, trentaquattro giorni per arrangiare un consenso multilaterale a una missione dal comando oscillante e dagli obiettivi per lo meno incerti. L’inizio. La giornata della collera del 17 febbraio, indetta sull’onda della (fu) primavera araba, si trasforma in una protesta contro il regime di Muammar Gheddafi: la Cirenaica, mai domata da Tripoli, si ribella e Bengasi diventa la capitale del dissenso, affiorano i rancori di un paese spezzato geograficamente a metà e politicamente in oltre 150 tribù. I rivoltosi avanzano sulla litoranea, obiettivo Tripoli, il trionfalismo delle tv arabe li incoraggia, ma la controffensiva di Gheddafi è già iniziata. Il colonnello compare in televisione con grande frequenza, ride fragorosamente (ma livido) quando i giornalisti occidentali lo intervistano sul lungomare e gli chiedono se ha intenzione di lasciare il potere. I ribelli non sarebbero arrivati mai fino a Tripoli. La posizione americana. L’Amministrazione Obama fa della cautela la sua dottrina. Approva rapidamente le sanzioni con gli altri paesi del Consiglio di sicurezza, ma dà l’impressione d’essersi destata tardi e di non voler andare oltre. Il Pentagono è contrario all’intervento per una serie di ragioni: la Libia non ha un peso strategico rilevante per Washington – lo ha per l’Europa, e infatti gli Stati Uniti premono sugli europei perché prendano l’iniziativa; Gheddafi era stato riportato alla ragionevolezza nel 2006, dopo aver rinunciato alla corsa all’atomica, e poi nel 2008, quando ha stipulato con l’Italia berlusconiana un trattato strategico sul controllo dell’immigrazione e chiuso il contenzioso secolare ex coloniale; l’America è già coinvolta su altri fronti più sensibili e di significato strategico (da ultimo l’Egitto, assieme allo Yemen infiltrato dai qaidisti, l’Afghanistan talebano e il Pakistan), teme che un conflitto in Libia possa essere strumentalizzato come “la solita guerra degli americani contro i musulmani”. Per il Pentagono non è nell’interesse nazionale una campagna di Libia. Bob Gates, capo del Pentagono, sostiene che soltanto uno senza cervello ora aprirebbe un altro fronte in medio oriente e così sbugiarda quelli che parlano della “no fly zone” come una soluzione semplice e immediata: “Parlano a vanvera, è un atto di guerra”. Il dipartimento di stato di Hillary Clinton è più aperto all’opzione militare, ma vuole un mandato chiaro dell’Onu e la partecipazione dei paesi della regione. Obama alza i toni, dice che Gheddafi “se ne deve andare” e che quel che sta facendo al suo popolo è “inaccettabile”, ma ribadisce che è necessario il consenso internazionale per una missione. Crescono le pressioni del mondo diplomatico e dei media – soprattutto liberal, oltre che neocon –, e Obama cede. Al Consiglio di sicurezza dell’Onu del 17 marzo, viene votata la risoluzione 1973 per l’intervento umanitario “a protezione dei civili”, con alcune astensioni significative (Germania, Cina, Russia, Brasile e India). L’America entra in guerra, anche se, dopo due giorni, dice di non volere il comando della missione e non appena può annuncia che la prima fase dell’operazione “è verso la sua conclusione”. Le pressioni francesi. Nicolas Sarkozy decide di rifarsi una nuova immagine di commander in chief in Libia, dopo che le crisi in Tunisia e in Egitto avevano colto di sorpresa l’ambiguo e imbambolato governo di Parigi. A Tripoli, Sarkozy ha soltanto da guadagnarci e così lavora per un cambio di regime contro Gheddafi: la Francia è il primo paese – al momento il solo – a riconoscere i ribelli di Bengasi come unici interlocutori della comunità internazionale e, dopo un’iniziale cautela, si allea con gli inglesi di David Cameron per reclamare un intervento militare. I britannici valutano la possibilità di imporre una “no fly zone” unilaterale e i francesi danno il loro appoggio. All’Eliseo “le pressioni umanitarie” sono forti, gravitano intorno alla moglie del presidente, Carla Bruni (già dirimente su altri dossier come quello riguardante Cesare Battisti), e hanno in Bernard-Henri Lévy uno dei maggiori sostenitori dell’intervento. Sarkozy vuole rafforzare la presenza francese in Libia, penalizzata dall’influenza economico-politica dell’Italia, e capitalizzare la morsa contro Gheddafi in vista delle presidenziali dell’anno prossimo. Il mondo della gauche lo sostiene, la sua popolarità cresce, ma non tutto gli è concesso dagli alleati. Il ruolo degli inglesi, il rifiuto tedesco. Quasi in una rievocazione della campagna di Suez del ’56, gli inglesi dichiarano di voler agire in Libia con i francesi e con chi ci sta, costituendo una coalizione di volenterosi. Ottengono anche il consenso della Lega araba (pure se, parole a parte, al momento nessun paese arabo è ancora intervenuto), sono sospettati di aver dislocato truppe speciali (Sas) in Cirenaica per affiancare gli insorti e segnalare obiettivi militari nemici. I tedeschi sono freddi: già soffrono il peso eccessivo della presenza in Afghanistan; hanno una posizione geografica che permette loro di defilarsi senza troppi drammi (hanno annunciato il ritiro dalle operazioni Nato nel Mediterraneo); non vedono di buon occhio l’attivismo francese, così divisivo; i rapporti commerciali con la Libia sono deboli. Nei vertici sul comando della missione, la crisi tra tedeschi e francesi è stata palpabile. Il ruolo dell’Italia. Roma ha tenuto fin dall’inizio due canali diplomatici aperti: con il regime e con i ribelli. L’Italia è il primo importatore di petrolio dalla Libia; ha interessi economici corposi nel paese; le nostre spiagge sono il primo punto d’approdo per migliaia di immigrati in fuga dal Maghreb; abbiamo un reticolo di basi militari indispensabili per il controllo del Mediterraneo e un rapporto intermittente, post coloniale e di lunga data con Gheddafi. Le fonti italiane invocano cautela. Il governo Berlusconi, di fronte alle pressioni internazionali e al voto dell’Onu, s’imbarca malvolentieri nella missione, concedendo prima le basi, poi offrendo mezzi aerei e infine chiedendo un comando congiunto della Nato per coordinare una missione senza testa e senza obiettivi condivisi. Come consigliato dall’ambasciatore Sergio Romano e dall’analista Piero Ostellino sul Corriere della Sera, l’Italia sta cercando alleanze alternative, fa leva sui tedeschi e sui russi che non vedono di buon occhio la missione. L’Italia come l’America. Al terzo giorno dall’inizio delle operazioni – cominciate dai francesi con impaziente anticipo su quanto stabilito dagli alleati – Roma e Washington richiedono la stessa cosa: un comando della Nato, una prospettiva politica, un piano d’azione coordinato. Volentieri o no, dopo qualche traccheggiamento, Sarkozy ieri sera ha dato ascolto a Obama.

Il FOGLIO - Amy Rosenthal : " Nuovo medio oriente "


Bernard Lewis

Roma. Le proteste contro i dittatori, la primavera araba, lo scontro con i regimi, la repressione, la guerra, la mancanza di un progetto per il futuro. Il medio oriente e il Maghreb sono “accomunati dal medesimo sentimento di scontento e rabbia. Sono stufi della corruzione e dell’oppressione. Sentono di essere stati trattati in modo ingiusto”, dice al Foglio il professore emerito di Princeton Bernard Lewis, tra i più illustri studiosi di islam e medio oriente al mondo. “Secondo i principi musulmani – spiega Lewis – il fine di un buon governo è la giustizia. Il dibattito nel mondo arabo, e più generalmente in quello musulmano, ruota attorno alla questione della giustizia e dell’ingiustizia. Se si pone la questione in questi termini, diventa più facile comprendere i processi mentali e politici che caratterizzano il mondo musulmano”. Sottolineando le differenze tra il discorso politico in occidente e nel mondo musulmano, Lewis spiega: “In passato, nel mondo islamico la parola ‘libertà’ non era usata con un significato politico. La libertà era un concetto esclusivamente legale, giuridico. Un individuo era libero se non era uno schiavo. I musulmani non hanno impiegato i concetti di libertà e schiavitù come metafore di buono e cattivo governo, come si è invece fatto in occidente. I concetti impiegati per definire buono e cattivo governo sono quelli di giustizia e ingiustizia. Un buon governo è un governo giusto, un governo in cui viene rigidamente applicata la legge sacra, comprese le restrizioni che essa impone all’autorità sovrana”. Quale significato ha la parola “democrazia” nel mondo musulmano? “E’ difficile rispondere a questa domanda. Si tratta di un concetto politico che non ha mai trovato alcun posto in tutta la storia del mondo arabo e musulmano”. Se le cose stanno così, viene da domandarsi se l’islam sia compatibile con la democrazia. “Direi che è difficile, ma possibile – risponde Lewis – L’islam non è contro la democrazia in quanto tale. Ma dobbiamo stare attenti a come si definisce la democrazia. Non deve necessariamente essere il nostro tipo di democrazia, che si fonda in sostanza su regolari e periodiche elezioni”. Lewis fa una breve pausa e poi aggiunge: “Se si osserva la storia del medio oriente nel periodo islamico classico, e se si esamina in particolare la sua letteratura politica, si nota che risultano contrarie a regimi autoritari o assoluti. I musulmani, fin dal’inizio della loro storia, hanno dato grande importanza a ciò che essi stessi definiscono con il termine di ‘consultazione’. Lo stesso profeta Maometto, come attesta il Corano, diceva che, prima di intraprendere un’azione, bisogna discuterne con tutta la gente interessata, ascoltare il loro parere e cercare di raggiungere un qualche tipo di accordo. Questo principio è stato seguito e applicato nel mondo islamico per molti secoli, proprio perché era caratterizzato da sistemi di governo molto meno autoritari di quelli presenti nel mondo occidentale premoderno. I governanti islamici (sultani, califfi, ecc.) si affidavano alla consultazione, almeno con certi gruppi sociali ben consolidati: i religiosi, le corporazioni artigianali, i capi tribali, i proprietari terrieri”. Un consiglio alla Casa Bianca Ora però i regimi ci sono e la transizione nei paesi in cui i dittatori sono caduti è difficile. In Egitto l’opposizione ha appena dimostrato, con la sconfitta al referendum costituzionale di sabato scorso, di non essere organizzata né pronta ad assumersi responsabilità politiche nel futuro immediato. “I Fratelli musulmani sono la principale minaccia alla transizione – spiega Lewis – E’ un movimento islamico radicale estremamente pericoloso. Se vanno al potere, le conseguenze per l’Egitto possono essere disastrose”. Ecco perché Lewis propone, al posto di elezioni precipitose, un graduale sviluppo democratico, da realizzarsi per mezzo di istituzioni locali di autogoverno. “Per una soluzione di questo tipo c’è una lunga e concreta tradizione in tutta la regione, che risale direttamente alla tradizione islamica della consultazione”. Ora che a Tripoli si cerca di capire che strategia adottare con il colonnello Muammar Gheddafi, non si fa che parlare di esportazione della democrazia e “freedom agenda” di bushiana memoria. “La politica dell’esportazione della democrazia – dice Lewis – sta producendo ottimi risultati. In America c’è un vecchio proverbio che dice: ‘No news is good news’, ma i media ne hanno rovesciato i termini e ora una buona notizia non è più notizia. In Iraq, per esempio, si fanno le elezioni e milioni di persone vanno a votare sapendo di rischiare la vita per questo. Quanti americani o europei andrebbero a votare se sapessero di dover rischiare la vita?”. La democrazia ormai c’è, “i media moderni (radio, televisione, Internet, ecc.) hanno reso più rapide le comunicazioni e la diffusione delle informazioni – dice Lewis – Credo che i media moderni siano una delle principali ragioni del crollo dell’Unione sovietica, esattamente come lo sono state per il rovesciamento dei dittatori della Tunisia e dell’Egitto”. Poi ci sono le donne: “Rappresentano la più grande speranza per il mondo musulmano”. Bernard Lewis conclude con un consiglio all’America e all’occidente. “In questo momento, in buona parte del medio oriente, l’impressione è che gli Stati Uniti siano un amico inaffidabile e un nemico inoffensivo. Dovrebbe essere il contrario”.

CORRIERE della SERA - Fiorenza Sarzanini : " Terrorismo, gli 007 inglesi allertano la coalizione "


Muammar Gheddafi

ROMA— Fedelissimi del Raìs inseriti nelle comunità occidentali e determinati a sostenere il regime anche con azioni violente. Si muove in questa direzione l’allerta antiterrorismo che i servizi segreti inglesi hanno trasmesso agli apparati di intelligence «collegati» e coinvolti nell’intervento militare in Libia. Una segnalazione specifica e circostanziata dell’MI5 è stata inviata a Italia, Francia e Stati Uniti e agli altri Stati della Nato per informare dei risultati di un’attività di controllo svolta in territorio britannico ma con possibili ripercussioni in Europa. Perché uno dei timori dei responsabili della sicurezza riguarda proprio gli atti di protesta contro i raid che i seguaci del Colonnello potrebbero compiere nelle prossime settimane, soprattutto se la guerra dovesse avere tempi lunghi. «Azioni contro i colonialisti» Il notam parte venerdì sera, poche ore prima che scatti l’operazione «Odisseyy Dawn» . Riferisce l’esito di un monitoraggio effettuato dagli 007 britannici. Ed evidenzia il dibattito interno alla comunità libica, soprattutto in ambienti che vengono definiti «insospettabili» . Si tratta di personaggi perfettamente radicati nella realtà occidentale, ma che hanno mantenuto un legame forte con la terra d’origine e — questo sottolineano gli analisti — con l’establishment che ancora mostra di poter detenere il potere a Tripoli. Sono numerose le conversazioni intercettate, i soggetti sono stati pedinati, fotografati. Più volte questi uomini dicono che «bisogna combattere, ci dobbiamo impegnare per dare sostegno» . Poi entrano nei dettagli, parlano esplicitamente di «azioni contro il neocolonialismo» e aggiungono: «Dove siamo facciamo» . La relazione dei servizi segreti inglesi è ampia; cita date, circostanze, ambienti che in queste ore vengono tenuti sotto stretta sorveglianza. Soprattutto chiarisce che non si tratta di frasi captate casualmente, ma di un vero e proprio dibattito che si è sviluppato negli ultimi giorni ed ha avuto un’evoluzione quando si è capito che l’Onu avrebbe approvato la risoluzione per autorizzare l’intervento. Ed è proprio questo a classificarla come altamente «affidabile» . In Italia è stata ripresa dall’Aise, l’Agenzia per la sicurezza specializzata sull’estero, che comunque aveva già attivato analoghi accertamenti su eventuali fermenti all’interno della comunità libica nel nostro Paese. Più volte in questi giorni, analizzando i possibili rischi legati alla partecipazione dell’Italia ai raid, si è evidenziato il pericolo di attentati pur ritenendo — almeno in questa prima fase di conflitto — che la maggiore esposizione riguardi gli occidentali che si trovano in Libia e potrebbero diventare ostaggi del regime, merce di scambio preziosa proprio come è già accaduto altre volte in Iraq e in Afghanistan. È già successo con alcuni giornalisti stranieri e pure la cattura del rimorchiatore «Asso 22» viene ritenuta un atto ostile, anche se nessuna contropartita è stata ancora richiesta. I controlli sui flussi economici Tra le attività di prevenzione pianificate dagli apparati di intelligence ci sono i controlli sulle disponibilità finanziarie dei libici che si trovano in Europa. È un aspetto che nei report di queste ore viene sottolineato, facendo ben comprendere come questi «insospettabili» britannici — che tra l’altro non sono affatto giovani — potrebbero decidere di sostenere economicamente l’azione di altri. E dunque appoggiare il progetto di un gesto eclatante per aprire una crepa nella Coalizione internazionale che già dopo poche ore ha mostrato numerose divisioni. Si tratta di persone perfettamente inserite nella nuova realtà britannica, ma non per questo ritenute meno pericolose soprattutto perché in contatto con immigrati di seconda e terza generazione che hanno mostrato di avere una cultura fondamentalista islamica. In Italia non c’è stata alcuna segnalazione così specifica che riguardi il nostro territorio, ma questo non rassicura, tanto che ieri il prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro ha confermato la scelta di predisporre particolare misure di protezione su una lista di obiettivi ritenuti «altamente sensibili» . Nella capitale sono 1.000 i target sorvegliati, ma soltanto per alcuni— in particolare ambasciate e sedi diplomatiche degli Stati che partecipano ai raid— si è deciso di far scattare il livello di massima sicurezza. Nei suoi proclami Gheddafi ha annunciato più volte di volersi vendicare dei «traditori» e gli esperti sono concordi nel ritenere che non basteranno i dubbi sulla necessità dell’intervento manifestati pubblicamente dal premier e da alcuni esponenti politici per mettere al riparo il nostro Paese.

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