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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - Il Tempo - La Repubblica Rassegna Stampa
22.03.2011 Libia: Europa divisa sulla guerra. Gheddafi pronto a usare scudi umani
Cronache e commenti di Gian Marco Chiocci, redazione del Foglio, Mattia Ferraresi, Fabio Perugia, Fabio Scuto

Testata:Il Giornale - Il Foglio - Il Tempo - La Repubblica
Autore: Gian Marco Chiocci - Redazione del Foglio - Mattia Ferraresi - Fabio Perugia - Fabio Scuto
Titolo: «Ecco la mappa della rete del terrore libico - La guerra disunita di Libia - Combattere come un Liberal - Pdl diviso sull'intervento. Ma ora la guerra va vinta - Scudi umani come in Iraq e Serbia, ecco l´ultima arma dei dittatori»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 22/03/2011, a pag. 7, l'articolo di Gian Marco Chiocci dal titolo " Ecco la mappa della rete del terrore libico ". Dal FOGLIO, a pag. 1, l'articolo dal titolo " La guerra disunita di Libia  ", a pag. I, l'articolo di Mattia Ferraresi dal titolo " Combattere come un Liberal  ". Dal TEMPOa pag. 11, l'articolo di Fabio Perugia dal titolo " Pdl diviso sull'intervento. Ma ora la guerra va vinta ". Da REPUBBLICA, a pag. 16, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo " Scudi umani come in Iraq e Serbia, ecco l´ultima arma dei dittatori ", preceduto dal nostro commento.
Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Gian Marco Chiocci : " Ecco la mappa della rete del terrore libico "


Muammar Gheddafi

Non occorre scomodare principi machiavellici e strateghi militare cinesi per sapere che il fine, se c'è una guerra da fare, giustifica qualsiasi mezzo. Specie se il conflitto si prospetta impari e letale. Quel che potrebbe accadere in Italia, al di là dei warning dei nostri ministri della guerra per ora allarmati dalle reazioni del Nemico sul fronte bellico (plausibili secondo il ministro La Russa solo attentati isolati) e umanitario (invasioni certe di immigrati secondo Maroni) preoccupa le «antenne» dell’intelligence europea che hanno ben presente la «rete» che da anni, su Roma e non solo, cura i segreti e i servizi del Rais. «Rete» antica, efficace, capillare, oggi completamente rinnovata e ramificata nell’economia oltreché nel commercio militare. Rete conosciuta per metà. Che se fino a ieri Tripoli monitorava con difficoltà provando a frenare l’exploit del fronte interno integralista (collegato al network qaedista del «Lifg-Gruppo Combattente islamico libico» alleato ai resti del «Gruppo Salafita per il combattimento» estirpato dall’esercito di Gheddafi al confine con il Ciad nel 2004) adesso è costretta a farci i conti. Senza dirlo, senza pubblicizzare la mossa della Volpe del deserto che s’è venduta ai Crociati. In ballo, ed è il timore degli analisti, è l’alleanza impura, da consolidare in chiave antiamericana, alimentando questo radicalismo antioccidentale che Gheddafi ha iniziato a cavalcare offrendo il fianco ad Al Qaeda nei suoi deliri comizianti. Per non finire il pellicceria, la Volpe tenta l’azzardo coi Fratelli Musulmani, con gli emissari salafiti, coi gruppi militarizzati inneggianti ai tanti martiri libici caduti in Iraq e Afghanistan. Per quanto può, scarcera dalle segrete di Abu Salim terroristi e cattivi maestri. Continua sulla linea della liberazione indiscriminata di colonnelli del calibro di Lifg Sami Saadi e del guerrigliero Abdelhakim Bellai. Insomma, le gioca tutte anche se la partita sembra segnata. Solo la «Rete» europea può salvarlo. Attentati mordi e fuggi. Non convenzionali, come quelli che alcune intercettazioni rivelate dal Messaggero avrebbero allarmato la Germania. Terrore puro. Senza firma, perché lui, il beduino Mohammar, ufficialmente è e resta la vittima, il tiranno che s’è fatto agnellino nella lotta alla proliferazione nucleare e nella lotta al terrorismo qaedista che ha obbligato gli Usa a «sacrificare» moralmente i morti americani alla discoteca La Belle di Berlino, e gli inglesi a passare sopra ai 300 cadaveri della Pan Am con la riconsegna dell’assassino al-Megrahi. Bombe in Europa per cessare gli attacchi in patria. Fonti d’intelligence non smentiscono un certo nervosismo su questa «Rete» rimasta in sonno, ora sbandata perché estesa in tutto il Vecchio Continente, e attratta da Derna, vero centro propulsore del radicalismo di Osama. Attraverso cani sciolti eterodiretti da pupari di mestiere, gli 007 temono un ritorno di fiamma, assai meno «gestibile» a livello di apparati di sicurezza, degli anni Ottanta. Quelli, per intendersi, coincidenti con le bombe a Bologna e Ustica, quelli dell’assoluta arrendevolezza dei nostri servizi segreti ai voleri dei sicari di Gheddafi a cui passarono gli indirizzi segreti degli esuli libici, uccisi uno ad uno, ma proprio uno ad uno, in una delle pagine peggiori della nostra storia democratica. Coi governanti italiani incapaci di ribellarsi alle minacce economiche. Fifoni e piagnucoloni difronte ai diktat del vicino nordafricano che li voleva ammazzare tutti e subito, gli infami. Quella «rete» agiva in tandem col Sismi che fece loro sparare in faccia a 5 connazionali della Resistenza. Il nostro incaricato d’affari arrivò a scrivere a Roma che se c’è da sacrificare qualcuno che lo si facesse in fretta, perché i rapporti commerciali rischiavano il black out. Storia antica, dimenticata. Storia vergognosa. Che gli analisti oggi hanno il coraggio di riesumare e rivisitare per dire che i tempi cambiano ma i sistemi restano. L’arma del ricatto, della paura, dell’infiltrazione, del sangue, può essere la stessa perché l’aria è la stessa. La «rete», ovviamente, ha cambiato uomini e pelle. E il nuovo che avanza giustifica mezzi impensabili solo qualche mese fa, come una possibile, tacita, futuribile e temporanea alleanza con il vice Osama, Abu Yahya al-Libi, nemico (finora a parole) di Gheddafi. Qui non si tratta di temere un nuovo attentato kamikaze sullo stile poco professionale di quello andato a segno alla caserma Perrucchetti di Milano del 12 ottobre 2009. E nemmeno di studiare l’entourage dei kamikaze libici-italiani andati a immolarsi per la guerra santa santa (Mohamed Aouzar, Nourredir Lamor, etc). Si tratta di capire perché tanti libici (otto arrestati a Qurnà in Algeria) tre presi a Bagdad mentre stavano per far saltare un supermercato, altri 25 sorpresi in Egitto (prim’ancora l’icona Abu Lalthi al-Libi ucciso in Pakistan) siano dati in movimento verso una nuova, definitiva, emigrazione Jihadista che guarda sopratuttto all’Italia. Se si pensa che dell’archivio dei combattenti iracheni rinvenuto a Sinjiar, un quinto erano di Derna e Bengasi, per i nostri 007 c’è poco altro da aggiungere. Siamo i traditori per Gheddafi, che non sappiamo se volevere dead or wanted? Importa poco. Al Qaeda e le sue quindici legioni sono a duecento miglia da Lampedusa. Dove il mare è pescoso, e la «Rete», coi suoi disperati, da sempre tira su squali affamati.

Il FOGLIO - " La guerra disunita di Libia "


Nicolas Sarkozy

Bruxelles. L’operazione militare contro Muammar Gheddafi è un “successo” perché ha evitato “un bagno di sangue”, ha detto ieri il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé. Le notizie in arrivo dal fronte dicono che l’esercito del colonnello si è ritirato da alcuni settori di Bengasi, di Ajdabiya e Misurata, ma gli attacchi delle truppe regolari continuano a Zenten e Yefren nonostante il regime abbia annunciato il cessate il fuoco. Un altro scontro si svolge fra i paesi che partecipano alla missione. La Francia vorrebbe il regime change a Tripoli e spinge per mantenere la guida della missione. Questo atteggiamento irrita Stati Uniti e Germania, mentre il governo italiano chiede alla Nato di rilevare il comando delle operazioni – un’ipotesi sostenuta anche dal capo della Casa Bianca, Barack Obama. Il segretario alla Difesa americano, Robert Gates, ha annunciato ieri che Washington ridurrà presto il proprio impegno, e ha aggiunto che uccidere Gheddafi “sarebbe un errore”. Per Obama, nessuna risoluzione dell’Onu autorizza a cacciare il rais. I problemi sono cominciati già sabato, nel primo giorno di bombardamenti. Secondo fonti del Foglio, la Francia avrebbe violato un patto che prevedeva di aspettare ancora qualche ora prima di lanciare l’attacco. Nicolas Sarkozy ha “telecomandato un’escalation pericolosa” con “bombardamenti anarchici”, dice un diplomatico di un grande paese europeo. L’iniziativa “è stata tanto veloce perché rispondeva all’agenda politica di una sola capitale, Parigi. E le ragioni umanitarie non c’entrano nulla”. Nella riunione di ieri dei ministri degli Esteri dell’Unione europea, c’è stato “un duro scontro franco-tedesco”, rivela al Foglio un ambasciatore europeo. La Germania ha pesantemente criticato Parigi per aver forzato la mano del Consiglio di sicurezza dell’Onu e accelerato un intervento troppo rischioso. Ogni volta che Juppé parlava, la risposta del ministro degli Esteri tedesco, Guido Wersterwelle, “era nein”, spiega l’ambasciatore. La Norvegia ha sospeso la partecipazione in attesa di chiarimenti sul comando delle operazioni. Persino il Regno Unito, finora allineato alle posizioni francesi, ha sostenuto il passaggio alla Nato. Ma Sarkozy non intende cedere. Per il ministro degli Esteri francese Juppé, l’alibi è la Lega araba, che “non vuole che l’operazione sia piazzata sotto la responsabilità della Nato”. L’obiettivo di Parigi è una nuova Libia: “Quando il regime crollerà?”. Secondo Juppé, i bombardamenti porteranno “all’indebolimento del regime, che si spaccherà. Una volta che il periodo di intervento militare sarà ben avanzato, pensiamo di riunire i diversi partner per definire una soluzione politica”. Ieri, nonostante le bombe, la città strategica di Ajbadiya era ancora nelle mani delle forze che difendono il colonnello Gheddafi, che hanno respinto un attacco ribelle. L’esercito governativo ha continuato a bombardare la regione a sud ovest di Tripoli, nelle cittò che sono controllate dall’opposizione. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito a porte chiuse: Cina e Russia ritengono che la coalizione abbia violato il mandato della risoluzione 1.973 sulla “no fly zone” e l’uso della forza “per proteggere i civili”. Il premier russo, Vladimir Putin, ha accusato l’occidente di portare avanti una “crociata medioevale”, ma il presidente, Dmitri Medvedev, lo ha smentito e ha offerto una mediazione con il colonnello. Anche la Turchia ha chiesto “spiegazioni” ai partner della Nato. Ora è soprattutto la coalizione antiGheddafi a mostrare i segnali di una spaccatura dovuta all’autonomia della Francia.

Il FOGLIO - Mattia Ferraresi : " Combattere come un Liberal "


Mattia Ferraresi

New York. Come ha notato anche Vittorio Zucconi su Repubblica, l’operazione “Odyssey Dawn” è lontana dall’unilateralismo delle guerre di George W. Bush fin nella scelta lessicale: le poche forze americane non sono sulle coste della Libia per instaurare la “Giustizia infinita” né per rendere duratura una libertà che i ribelli del regime di Gheddafi hanno cercato faticosamente di conquistare scoperchiando a loro rischio il calderone di Tripoli; anche la “Tempesta del deserto” di Bush senior nel Golfo, un’operazione tutto sommato chirurgica, suona minacciosa al confronto con un’odissea che all’alba porterà non si sa chi non si sa dove. Per Barack Obama e la sua Amministrazione democratica quella in Libia è una guerra dal volto umanitario, operazione contro un tiranno benedetta dall’Onu e salutata dal pensiero della sinistra liberal americana come l’abbrivio di un percorso di liberazione senza l’ingombro morale dell’esportazione della democrazia. In generale Obama non è un soldato riluttante, anche se è stato vissuto dai suoi sostenitori come il salvatore pacifico di un mondo americano sfregiato dall’irriverenza unilateralista del suo predecessore. In due anni di governo ha avuto diverse occasioni per dimostrarlo: in Afghanistan il presidente ha aumentato il numero delle truppe affidandole, peraltro, alla guida generale simbolo della dottrina Bush, David Petraeus; in Pakistan i droni della Cia piovono sul suolo alleato con una frequenza sconosciuta all’Amministrazione repubblicana. Nello Yemen, molto prima dell’ondata di rivolte mediorientali, ha approvato per la prima volta operazioni clandestine per eliminare i capi di al Qaida nella penisola araba; in Iraq il presidente ha travestito la permanenza militare da ritiro in grande stile, giocando con le competenze politiche, le divise mimetiche e quelle del dipartimento di stato e il ruolo dei contractor. Con questi precedenti, l’operazione “Odyssey Dawn” è un ritorno alla guerra democratica che spicca per non avere nulla a che fare con la storia presidenziale di Obama, fatta di conflitti portati avanti così come erano stati ereditati, con le stesse difficoltà e lungaggini, persino ripetendo gli stessi errori, ma anche con la stessa carica universalista per cui l’America è titolata a portare la bandiera del mondo libero contro il fanatismo e le sue dichiarazioni di guerra. In Libia è in atto una riedizione della guerra multilaterale benedetta dal codice onusiano e condivisa con alleati interessati ora a fare da capifila ora a cedere al passo allo zelo altrui in nome di interessi nazionali. Come hanno riportato i giornali americani, Obama ha cercato fin dall’inizio di lasciare l’iniziativa agli europei: la Libia è un problema dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, non dell’America. Ma Obama non è riuscito a dire di no alle pressioni esterne né a quelle interne, così la ricerca del consenso si è protratta per un mese, con alterne vicende e con sostegni prima dati e poi tolti, fino a che il presidente americano si è fatto vincere da una incerta via multilaterale. E’ una guerra che si spera sia veloce, fatta rigorosamente dall’alto, sganciando bombe strategiche ma programmaticamente orfana di un progetto e di uno scopo precisi: l’anodino Obama ha detto ieri che “la politica degli Stati Uniti è quella di costringere Gheddafi ad andarsene, ma questo non è il mandato della risoluzione dell’Onu”. Un cortocircuito politico che ripropone la domanda che l’establishment americano si sta ripetendo in queste ore: perché l’America dovrebbe impegnarsi in uno scenario ancor meno che secondario nella geografia degli interessi americani (a Washington le rivolte in Yemen e nel Bahrein sono ben più gravide di conseguenze dirette per gli equilibri politici e petroliferi, mentre un americano colto, come scrive il Daily Beast, “farebbe fatica a trovare la Libia sulla cartina geografica, anche con il nome scritto sopra”)? “Odyssey Dawn” è una guerra condotta in stile clintoniano, più sussurrata all’orecchio di Obama dalla consigliera-attivista Samantha Power e dall’ambasciatore all’Onu, Susan Rice, che dal capo del Pentagono, Bob Gates, e dai ranghi della sicurezza nazionale; come gli interventi clintoniani degli anni Novanta, l’operazione libica ha il pregio politico immediato di risultare non soltanto tollerabile ma persino desiderabile – date le condizioni sul campo, s’intende – dalla sinistra liberal, perché assomiglia a un breve ciclo di chemioterapia a cui si affida la speranza di far scomparire il tumore. Nemmeno la fantasia del più perverso dei Michael Moore sarebbe stuzzicata dall’intervento multilaterale con scopo prevalentemente di sicurezza, un conflitto “di giorni e non di settimane”, come ha ripetuto il capo dell’esercito americano Mike Mullen nel giro dei talk show domenicali, prima di concedere ai suoi interlocutori la possibilità che Gheddafi possa essere non soltanto il passato della Libia, ma anche il suo futuro. Peter Beinart, analista politico della New America Foundation, think tank di Washington vicino al mondo liberal, dice che l’intera operazione è “influenzata dall’eredità della guerra in Bosnia: è stato il successo della Nato che ha convinto molti in occidente che un intervento analogo in Ruanda avrebbe potuto avere successo, ed è la stessa guerra che ha convinto l’Europa a intervenire con una guerra umanitaria in Kosovo nel 1999”. Quelli che alla Casa Bianca hanno consigliato a Obama di assecondare le pressioni per un intervento sono gli stessi che negli anni di Clinton invocavano la guerra umanitaria fatta con i bombardamenti aerei, simbolo paradossale di clemenza bellica se paragonati alle invasioni via terra degli esportatori di democrazia. Si va, si sculaccia il dittatore e si torna a casa: un progetto che piace alle anime belle ma che di solito trascina con sé paludi in cui qualcuno rimane invischiato. Nel caso della Libia Obama ha fatto una deroga alla sua consuetudine bellica, accettando a malincuore l’attivismo che il presidente francese, Nicolas Sarkozy, non ha saputo trattenere nemmeno di fronte alla cautela americana. Fonti a Washington dicono che l’appoggio americano a “Odyssey Dawn” è arrivato contro il volere del Pentagono, che sconsigliava in modo netto al presidente di infilarsi in un potenziale pantano che non avrebbe concesso né vantaggi strategici né – come conferma il vaghissimo mandato Onu – di sollevare un dittatore dal trono che ha occupato per quarant’anni a spese del suo popolo. A quel punto lo zelo francese ha costretto l’America a coinvolgersi in un conflitto a bassissima priorità, facendosi legare le mani da un mandato multilaterale che è l’ideale del presidente Obama soltanto a parole.

Il TEMPO - Fabio Perugia : "Pdl diviso sull'intervento. Ma ora la guerra va vinta"


Fiamma Nirenstein

Posizioni divergenti. Il dibattito dentro al Popolo della libertà non si ferma. Da una parte un pezzo di maggioranza che governa e fa volare i caccia bombardieri sopra i cieli libici. Dall'altra il fronte degli anti-interventisti. Le divisioni sul ruolo italiano nella guerra al regime di Muammar Gheddafi restano vive. Anche nel Pdl. Ci pensa Margherita Boniver, inviato speciale del ministro degli Esteri per le emergenze umanitarie, a marcare le differenze. Lo fa durante il convegno dell'associazione Summit di Fiamma Nirenstein che s'interroga sulle posizioni d'Israele di fronte alla rivoluzione dei Paesi musulmani. «Un intervento militare condotto da 4-5 nazioni con il beneplacito "peloso" della Lega araba non è stata una grande idea», dice la Boniver che avrebbe preferito percorrere la via diplomatica fino in fondo. Gli va dietro, mantenendo un profillo più prudente, anche il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto che dopo aver chiarito: «Non siamo in guerra con la Libia ma stiamo atNirenstein Dassù «I nuovi leader arabi «La Francia non sa smettano di incitare interpretare il M.O. i popoli contro Israele» Prendiamo l'iniziativa» tuando una risoluzione Onu», esplicita la sua «preoccupazione per la mancanza di un'idea di percorso». Ma oltre le divisioni, a pochi chilometri dall'Italia, un conflitto è in atto. Dal convegno della Nirenstein s'alza una voce: la guerra in Libia va vinta senza indugi. E bisogna proteggere Israele. In ballo c'è il futuro geopolitico del Mediterraneo. Il direttore di questo giornale Mario Sechi, tra gli oratori del panel, lo spiega a chiare note: «Noi vogliamo che i dittatori cadano. E per evitare che a loro si sostituiscano le forze del male l'Occidente deve esserci. Ecco perché è stato giusto intervenire. Oggi c'è bisogno di una politica neo-coloniale perché non è detto che dalle rivolte arabe nasca la democrazia». Sechi ricorda il passaggio di due navi iraniane, poche settimane fa, nel canale di Suez: «Se non ci muoviamo lo spazio del Mediterraneo se lo prendono Paesi come l'Iran. Quello che succede in Nord Africa ci deve svegliare. Gli Stati Uniti sono una potenza in declino: o l'Europa si muove - spiega Sechi - o perderemo quello che un tempo era il Mare Nostrum». La posizione di Sechi è condivisa dalla padrona di casa: «Sono per l'interventismo - dice Nirenstein, vice presidente della commissione Esteri - e l'Occidente ha fatto bene a farsi vivo. Ci siamo finalmente accorti che la questione del mondo arabo è il mondo arabo». La parlamentare non è però convinta dalle parole di chi, come Crosetto, parlava della prima rivoluzione islamica senza bruciare bandiere israeliane e americane. «In questi mesi a Gheddafi hanno dato dell'ebreo. Ad Abbas dicono che è servo di Israele e il volto di Mubarak viene marchiato in modo dispregiativo con la Stella di David. La teoria della cospirazione ebraica esiste ancora». E per questo che Nirenstein invita tutti i presenti (da Khaled Fouad Allam alla Boniver, dal deputato Gianni Vernetti a Pinhas In-bari, giornalista e analista del think tank israeliano «Jerusalem Center for Pub-blic Affairs») a firmare una lettera in cui sarà chiesto a tutti i nuovi gruppi dirigenti arabi che ribaltano i regimi e chiedono la democrazia di rinunciare all'incitamento alla teoria della cospirazione ebraica e israeliana. La lettera sarà divulgata nei prossimi giorni. Ma come vive Israele lo tsunami arabo? Per Yossi Kuperwasser, direttore del ministero degli Affari strategici israeliani, Gerusalemme «è felice di vedere questa ondata di democrazia in Medio Oriente. Sarà più facile trovare la pace se il potere è in mano al popolo. E chiaro che ci sono anche dei rischi, per questo il mondo libero deve impegnarsi e far sl che questo processo porti a una vera democratizzazione». Il messaggio è chiaro: l'Europa e gli Stati Uniti devono restare vigili anche oltre la caduta dei dittatori. Bisogna andare in fondo al problema ed evitare la nascita di nuovi regimi. «C'è bisogno allora di una politica attiva - spiega Gianni Vernetti, ex sottosegretario agli Esteri -. L'Italia oggi deve rovesciare la propria politica estera e rimodellarla sul Mediterraneo. Il nostro sforzo sarà utile a contenere anche il problema iraniano e assicurare maggiore sicurezza a Israele». E se è il futuro del Mare Nostrum, e non solo dei paesi arabi, ad essere in gioco, allora «non possiamo lasciare l'iniziativa alla Francia». La direttrice dei rapporti internazionali dell'Aspen Institute, Marta Dassù, è «preoccupata per il coinvolgimento iperattivo di Parigi che non hai mai saputo interpretare il Medio Oriente». L'Italia deve giocare in prima linea. «Non so quanto tempo ci vorrà per sconfiggere Gheddafi - dice Dassù - ma penso che il rals non abbia tutta questa forza per continuare a lungo la guerra. Il nostro interesse nazionale è che il regime del colonnello cada il prima possibile». Al di là delle divisioni interne.

La REPUBBLICA - Fabio Scuto : " Scudi umani come in Iraq e Serbia, ecco l´ultima arma dei dittatori "


Notiamo che, finalmente, si scrive a chiare lettere che Hamas ha utilizzato scudi umani nella guerra contro Israele e che Hezbollah ha fatto lo stesso nel 2006, durante la guerra del Libano.

GERUSALEMME - Quando l´Iraq invase il Kuwait il 2 agosto del 1990 ritenendolo nient´altro che una sua provincia, iniziò la prima crisi planetaria del "dopo guerra fredda". E quando la comunità internazionale si preparò a rispondere con la forza al regime di Saddam, il raìs reagì con una mossa che pensava fosse dissuasiva: il sequestro di migliaia di cittadini stranieri che si trovavano in Iraq per i motivi più disparati, dal lavoro al turismo. Presi di notte negli hotel, nei compound, nelle foresterie delle loro compagnie per essere trasportati e sparsi per tutto il Paese.
Alcuni furono impiegati come scudi umani presso arsenali, installazioni militari, fabbriche strategicamente importanti, postazioni radar che erano nel mirino della coalizione internazionale. Lo scopo della mossa di Saddam era duplice: da una parte convincere i Paesi della vasta coalizione che si stava formando a non bombardare gli obiettivi iracheni perché questo avrebbe causato la morte degli scudi umani. Dall´altra, creare una frattura nell´ambito di ciascuno Stato occidentale fra i governi e le rispettive opinioni pubbliche.
La stessa mossa che sta tentando adesso in Libia il colonnello Gheddafi nella città di Misurata, consapevole che l´opinione pubblica occidentale non può accettare la morte di civili non coinvolti nel conflitto, non sono "volontari" ma sono stati portati lì con camion e auto sotto la minaccia delle armi e dopo saranno abbandonanti al loro destino, quello di carne da cannone.
Saddam aprì la strada a questa feroce "arma" non combattente a dispetto della Convenzione di Ginevra. Quello del 1990 fu il più grande sequestro di ostaggi civili mai avvenuto, oltre diecimila di decine di nazionalità diverse, e in questa vicenda emersero chiaramente i caratteri distintivi di ciascuna nazionalità. Ci fu chi reagì invocando il diritto internazionale e chi con fatalismo, qualcuno col negoziato sottobanco. I Giapponesi, ad esempio, affrontarono il sequestro con distaccato stoicismo e quando arrivò il momento dei primi rilasci alcuni diplomatici si rifiutarono di essere liberati per condividere le sorti dei loro connazionali.
Quando la comunità internazionale ricorse alle sanzioni economiche verso il regime iracheno, quest´arma spuntata si rivelò come sempre inutile e controproducente. L´ultimo a soffrire la fame fu Saddam, mentre i primi ad avvertire negativamente gli effetti delle sanzioni furono invece gli ostaggi rinchiusi negli alberghi di Bagdad, il Rashid, il Mansur, il Babilon, il Palestine.
Una scelta disperata che non salvò il regime iracheno dalla sua fine, nemmeno quando Saddam tentò ancora volta la stessa mossa nel 2003.
Gli scudi umani furono anche l´ultima difesa opposta dalla Serbia di Milosevic per salvare le infrastrutture del Paese dai caccia della Nato: catene umane sui ponti, presenze costanti nelle fabbriche, insomma gli "scudi umani" che rappresentavano l´impotenza e il patriottismo, la sconfitta e la sfida. E la convinzione, mai ammessa ma segretamente coltivata, che l´Alleanza non avrebbe rischiato una strage. Quella convinzione crollò nell´aprile del 1999, insieme alle strutture della più grande industria jugoslava, la Zastava di Kragujevac. Sei missili distrussero gran parte dello stabilimento, lungo due chilometri.
Se fosse stato presidiato da migliaia di operai, come raccontavano i media di Belgrado, sarebbe stato un massacro. Ma qualcuno là dentro c´era davvero, se crediamo al bilancio diramato dalla tv serba ci furono 124 feriti, alcuni dei quali gravi.
Nella guerra moderna - al di sotto di certe latitudini - non c´è quasi più differenza fra militari e civili nel conflitto. Che dire degli Hezbollah libanesi che nella guerra del 2006 con Israele, piazzavano le loro batterie di lancio nelle zone più densamente abitate di Beirut e Sidone per evitare il bombardamento di risposta, che invece puntuale è sempre arrivato? Dei qaedisti afghani che mascherano le loro riunioni dietro matrimoni e feste che si tengono nei villaggi sulle montagne del Waziristan? Una trappola in cui i droni dell´esercito americano sono caduti troppo spesso prima di capire appieno «lo sporco gioco». O dell´Operazione "Piombo Fuso" a Gaza alla fine del 2008?
Milleduecento palestinesi uccisi ma solo quattrocento erano miliziani di Hamas. Il resto civili, "scudi umani" inconsapevoli perché gli integralisti come i loro "colleghi" libanesi sparavano dal cuore dei centri abitati della Striscia, quasi convinti che la reazione alla morte dei civili avrebbe suscitato la reazione dell´opinione pubblica mondiale e portato più benefici politici che non la battaglia in campo aperto.
L´ostaggio è un arma che non spara, ma nella convinzione di chi sente di combattere l´ultima battaglia è una risorsa da sfruttare fino all´ultimo, senza nessuna remora. Del resto non si diventa dittatori per caso, la vita appartiene sempre al raìs di turno.

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