Sulla STAMPA di oggi, 20/03/2011, a pag.1/2, Maurizio Molinari, inviato a Brasilia, analizza l' "operazione Odissea all'alba", il ruolo dell'America di Obama, mentre sul GIORNALE, a pag.13, Rolla Scolari riferisce sul referendum costituzionale in Egitto. Si vota per la prima volta liberamente ma il referendum divide il Paese: i giovani liberali la vogliono nuova ma i Fratelli musulmani e l’esercito sono alleati per andare alle urne a giugno. Anche perché sono gli unici organizzati per vincere.
Ecco gli articoli:
La Stampa-Maurizio Molinari: " Il terzo fronte di Obama,parte Odissea all'alba"


Operazione Odissey Down Maurizio Molinari
È una pioggia di missili americani e britannici a dare inizio all’attacco militare alla Libia di Muammar Gheddafi, autorizzato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu con la risoluzione 1973. L’operazione «Odyssey Dawn» (Odissea all’alba) è condotta da una coalizione di cinque Paesi: Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia e Canada.
L’ obiettivo della coalizione fissato dalle Nazioni Unite è «proteggere i civili con qualsiasi mezzo» imponendo una «no fly zone» per impedire alle forze del colonnello di eliminare i ribelli, ridotti sulla difensiva nelle città assediate di Bengasi e Misurata.
Le avvisaglie dell’offensiva sono arrivate nel tardo pomeriggio di ieri, quando i caccia francesi hanno bersagliato in almeno quattro raid decine di tank e blindati libici attorno a Bengasi. I blitz sono serviti alla coalizione per alleviare la pressione sui ribelli assediati e verificare il funzionamento dei sistemi antiaerei libici. Alle 21.10 italiane il presidente americano, Barack Obama, ha parlato alla nazione da Brasilia dove si trova in visita, per far sapere che l’attacco era partito: «Ho autorizzato un’azione militare limitata in Libia e siamo parte di un’ampia coalizione». poi ha sottolineato che l’intervento «non lo abbiamo voluto noi ma il colonnello Gheddafi, che 24 ore fa ha ignorato anche l’ultima opportunità di evitarlo» venendo meno all’impegno di rispettare il cessate il fuoco ordinato dall’Onu.
«Sono al corrente dei rischi che questa decisione comporta ma non potevamo rimanere inermi davanti a un tiranno che ha minacciato di colpire i civili senza pietà» ha aggiunto Obama, ribadendo che l’America «non impiegherà truppe di terra» e ha scelto di prendere parte a un’operazione che ha tre caratteristiche: «È guidata da una coalizione, si propone di difendere i civili e avviene sotto l’egida della comunità internazionale». È dunque assai diversa dalla guerra in Iraq del 2003.
Mentre Obama parlava dal Brasile, nelle acque del Mediterraneo centrale «Odissea all’alba» debuttava agli ordini del generale Carter Ham e dell’ammiraglio Samuel Locklear III. A coordinare le attività aeronavali è la Uss Mount Withney, ammiraglia della VI Flotta, che guida 25 navi e sottomarini dalle quali sono piovuti almeno 110 missili su 20 obiettivi. Dal Pentagono è l’ammiraglio William Gortney a spiegare la dinamica delle operazioni: «La Libia dispone di un sistema di difesa aerea integrato, le cui installazioni lungo la costa sono oggetto di un attacco multifase». Significa che i missili puntano a neutralizzare le difese antiaeree del colonnello, così come gli aeroporti da dove i suoi jet decollano per colpire i ribelli.
Il portavoce del Pentagono sottolinea che, oltre al lancio dei missili da parte di navi e sottomarini - americani e britannici - è in atto anche un «attacco elettronico» che punta alla neutralizzazione dei centri di comando e controllo dai quali Gheddafi invia ordini alle truppe. «La durata delle operazioni non è prevedibile» precisa il Pentagono, spiegando che la prima ondata «continuerà per 6-12 ore» per essere seguita da «verifiche sugli effetti ottenuti» e passare poi alle «fasi successive», che vedranno gli aerei dei cinque alleati pattugliare i cieli libici.
«A condurre le operazioni siamo noi perché nessun altro possiede i mezzi necessari per farlo» precisa il Pentagono, aggiungendo che «poi il comando passerà alla coalizione». Resta da vedere se la «no fly zone» basterà per fermare le forze lealiste, in evidente vantaggio rispetto ai ribelli. Il blitz francese suggerisce l’intenzione di applicare anche una «no drive zone», per impedire i movimenti dei lealisti. Sarkozy e Cameron hanno confermato la partecipazione agli attacchi dei rispettivi eserciti e Juppé ha aggiunto che l’« obiettivo è aiutare i libici a liberarsi di un dittatore», cioè rovesciare Gheddafi.
La scelta di Obama porta per la prima volta nella Storia le forze americane a essere impegnate su tre fronti militari caldi: 100 mila uomini in Afghanistan impegnati contro i taleban e circa 50 mila in attesa di essere ritirati dall’Iraq. Per questo il ministro della Difesa, Robert Gates, si era opposto all’intervento ma a prevalere sono state le posizioni di John Kerry, capo della commissione Esteri del Senato, sulla necessità di evitare «gravi errori» simili a quelli commessi da Bill Clinton in Ruanda nel 1994 e da George H. Bush nella primavera del 1991 in Iraq, quando il ritardo nell’agire portò alle stragi di civili.
Se Obama ha scelto l’opzione della «no fly zone», caldeggiata anche dai leader repubblicani del Congresso, è anche sulla base dei risultati della missione in Europa e Maghreb del Segretario di Stato, Hillary Clinton, che ha informato la Casa Bianca del «sostegno degli alleati europei e arabi», lasciando intendere che la Lega Araba potrebbe presto associarsi alla coalizione. Proprio per spingere le nazioni arabe a intervenire Hillary ribadisce da Parigi che «il ruolo americano è appoggiare la coalizione» con una scelta di termini che archivia l’espressione «guida americana dell’attacco» adoperata da Bill Clinton, Bush padre e Bush figlio per gli interventi nei Balcani e Medio Oriente condotti dalla fine della Guerra Fredda. È tale elemento di rottura rispetto al passato che distingue la posizione Casa Bianca: «Non agiamo da soli ma sosteniamo una coalizione» ribadisce Ben Rhodes, consigliere strategico di Obama.
Il Giornale-Rolla Scolari: " Ma il futuro del Medio Oriente si gioca in Egitto "


Referendum al Cairo Rolla Scolari
Cairo. Carta d'identità alla mano, centinaia di persone fanno la coda in una scuola del centro del Cairo, non lontano da piazza Tahrir, il luogo simbolo della rivoluzione di gennaio. Ieri, gli egiziani sono andati alle urne per il primo voto libero della storia del Paese. Hanno espresso il loro parere su una serie di emendamenti costituzionali che limitano il mandato del presidente, ampliano le condizioni per le candidature elettorali, arginano l'imposizione di leggi di emergenza.
«Fuori, fuori», hanno gridato in coro uomini e donne quando il governatore del Cairo, Abdel Azim Wazir, in visita al seggio, ha saltato la fila assieme alla sua numerosa scorta. «Sei come tutti noi» ha urlato Alia Shoieb, una signora vestita con i colori della bandiera egiziana. «Credevo che queste cose appartenessero al passato», le ha fatto eco George Ishaq, uno dei leader della rivoluzione, anche lui in attesa di votare. Soltanto qualche mese fa, nell' Egitto del presidente Hosni Mubarak, sarebbe stato impossibile assistere a scene come questa: centinaia di persone in ordinata attesa davanti ai seggi si rivoltano contro i privilegi di un funzionario pubblico.
Altrove, però, l'entusiasmo per il voto libero si è scontrato con un'altra realtà. L'ex premio Nobel per la Pace Mohammed el Baradei è stato infatti protagonista di un violento assalto che ricorda come gli esiti della rivoluzione siano ancora incerti. Un gruppo di islamisti ha lanciato ieri sassi contro l'ex capo dell'Agenzia internazionale per l'Energia atomica mentre si recava al seggio in un quartiere periferico della capitale, impedendogli di votare.
Mentre il mondo intero è concentrato sui tragici eventi in Libia, in Egitto si gioca una partita decisiva per il futuro della regione e i destini delle rivoluzioni arabe. Il referendum di ieri è stato il primo esercizio democratico dopo le rivolte popolari che stanno cambiando la faccia di Nord Africa e Medio Oriente, ma i risultati delle rivoluzioni sono ancora da definire.
In queste settimane gli egiziani sono stati impegnati in un inedito dibattito sul futuro della Costituzione e del Paese. «Finalmente non si parla più soltanto di calcio - dice Ahmad Shahwan, un giovane leader locale dei Fratelli musulmani - Al centro delle conversazioni c'è la vita politica del Paese».
Le forze vive della piazza si sono divise sul referendum. I gruppi giovanili laici e liberali che hanno portato avanti per giorni una capillare campagna per il «no» si oppongono a ogni cambiamento alla Carta fondamentale. Un'inspettata alleanza conservatrice vede invece uniti per il «sì» due antichi rivali: il partito che fu di Mubarak e i Fratelli musulmani, gruppo islamista e storica opposizione al governo centrale.
«No», è scritto su adesivi incollati ai pali della luce nella capitale, su volantini distribuiti agli incroci. «Vogliamo una Costituzione nuova», spiega Ahmed Gohary, uno dei giovani leader della rivolta, vicino a el Baradei.
Il partito Nazional democratico e i Fratelli musulmani invece appoggiano gli emendamenti e sostegono che votare «sì» sia il solo modo per far ripartire il Paese. L'approvazione degli emendamenti sarebbe seguita da elezioni parlamentari già a giugno. I due gruppi sono gli unici movimenti politici in Egitto capaci di mettere in piedi una campagna elettorale in poche settimane. Anche per questo, favoriscono una veloce corsa al voto.
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