La Libia è l'argomento che apre tutti i giornali di oggi, 19/03/2011. Tralasciamo le cronache, che tutti avranno seguito, per riprendere i due commenti più interessanti, quello di Fiamma Nirenstein, perchè dobbiamo sbarazzarci di Gheddafi, e quello di Christian Rocca, che vede in Obama il regista occulto dell'azione militare.
Ecco gli articoli:


Il Giornale-Fiamma Nirenstein: " L'Italia si ritrova al fronte per forza "

Fiamma Nirenstein
Siamo a una bella svolta, cerchiamo di non averne paura. Si muovono le portaerei nel Mediterraneo, la Nato si organizza, le basi militari sono in agitazione. La strada della no fly zone e dell’estromissione di Gheddafi dalla tavola delle Nazioni dopo le sue azioni sanguinose di questo ultimo mese e dopo la parole di pazzesca minaccia, ha fatto il suo corso, e oggi ne siamo parte integrante. Anche il Parlamento italiano tutto, nelle sue Commissioni esteri e difesa convocate d’urgenza, ha ratificato la scelta del governo. Ai tempi della Serbia, nel ’99, il governo si mosse senza chiedere il permesso a nessuno. La scelta è maturata lentamente, con sofferenza, con i soliti tentennamenti di Obama, con l’Europa spaccata a metà, fra guasconate francesi e atteggiamenti troppo astuti e alla fine melensi della Germania. Poi tutti sono arrivati a decidere insieme che con Gheddafi non si può andare avanti. Ognuno avrà un ruolo diverso,ma l’insieme dei Paesi occidentali si è schierato insieme, ha avuto la forza di evitare i veti di Cina e Russia, si è trascinato dietro la Lega Araba, la Nato, tanti Paesi fuori dell’UE che vogliono unirsi all’impresa. È un principio elementare quanto indispensabile e per niente ovvio nel nostro tempo: i dittatori sanguinari non possono essere sopportati, anche se la realpolitik talora spingerebbe a chiudere tutti e due gli occhi. La risoluzione 1973 del consiglio di sicurezza dell’ONU batte molti record: non si era mai vista tanta convergenza intorno a una risoluzione basata su uno dei principi fondanti dell’ONU, la «responsabilità di proteggere», che le Nazioni Unite avevano da tempo dimenticata, tutte prese nelle loro maggioranze automatiche che invece spesso proteggono i dittatori in assemblea e nelle commissioni, per esempio dei diritti umani o per le donne. E invece stavolta siamo arrivati a una stessa conclusione noi del mondo democratico: gli Stati Uniti, la Francia, l’Inghilterra, l’Italia abbiamo imposto la nostra visione del mondo e abbiamo costretta la vecchia carcassa a dire alcune cose che ci stanno a cuore, e noi italiani l’abbiamo fatto un po’ eroicamente, pieni di preoccupazione. Gheddafi abita molto vicino, ci sta quasi attaccato addosso, quel braccio di mare è così piccolo, valanghe di immigrati possono riversarsi da noi se dovesse cominciare un bombardamento aereo o d’altro tipo; senza Gheddafi non sappiamo cosa può accadere, ma un raìs ferito e sopravvissuto potrebbe fare di noi l’oggetto del suo odio più accanito.
Eppure l’Italia unica è andata a Bengasi a portare aiuto umanitario, unica ha stabilito contatti con i ribelli. Giocando a dadi sulle loro vere intenzioni, certo, ma ci faremo i conti quando saranno salvi. E noi avremo più forza per farceli.
L’apprezzamento è stato grande. Ci siamo fatti paladini presso l’Unione Europea di quel pattugliamento del Mediterraneo che ora pare debba essere un pilastro del cessate il fuoco base del lavorio internazionale.
Ci sono due cose molto importanti che non sappiamo: come finirà e chi sono coloro che vogliono sostituire Gheddafi. Ma sappiamo però, di nuovo, che siamo vivi. Fino a ieri lo erano solo l’Iran che approfittando della confusione attanaglia con le sue chele il canale di Suez e porta armi a Gaza tramite la Siria, e l’Arabia Saudita, che a sua volta contro il pericolo sciita manda i suoi mercenari in Bahrein a aiutare il re. Due grandi forze in movimento. E noi, dove eravamo finora? Adesso fra mille rischi ci siamo, secondo i nostri principi e su una larga base unitaria. Anche i successori di Gheddafi, se ci saranno, dovranno rispettarci di più e credete a una giornalista che si occupa di mondo arabo da molti anni: il rispetto è tutto da quelle parti. E anche i dittatori come Assad di Siria, o i prepotenti, come gli hezbollah in Libano, saranno meno temuti dalla loro povera gente, e da noi stessi. Da lontano, c’è chi guarda e protegge, e siamo noi. O almeno, stiamo studiando per questo.
IlSole24Ore-Christian Rocca: "E il sasso è di Obama (che nasconde la mano)"


Gheddafi Obama Christian Rocca
Per ora, è un capolavoro politico di Barack Obama. Anche se non sembra. La risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che ha autorizzato per motivi umanitari l'uso della forza in Libia, ma non l'invasione terrestre, è il prodotto di una contraddittoria, a tratti scombinata, ma infine efficace strategia della Casa Bianca.
Sia pure in ritardo e tra mille tentennamenti, Obama è riuscito a far passare un'eventuale operazione militare americana per cambiare il regime di Gheddafi (regime change) come un'iniziativa della Lega Araba, come una richiesta della popolazione civile libica, come una bizzarra fissazione della Francia, come un'emergenza internazionale condivisa e vidimata da una risoluzione delle Nazioni Unite.
Il testo Onu non è stato presentato dagli Stati Uniti, ma dal Libano, un paese arabo e islamico. Gli sponsor sono stati la Francia e, più defilata, la Gran Bretagna. Cina e Russia non si sono opposti. I primi raid aerei saranno francesi, così come la leadership ideologica (a Bengasi hanno festeggiato con i tricolori di Francia). Le basi saranno italiane. Emirati Arabi e Qatar parteciperanno alle operazioni belliche.
I critici di Obama sostengono che l'America abbia perso lo status di leader mondiale. Ma a guidare gli eventi c'è sempre Washington. La preoccupazione di Obama è di non lasciare le impronte. Un'iniziativa made in Usa avrebbe scatenato alcune piazze islamiche, mobilitato le masse pacifiste europee e aperto un fronte politico interno molto pericoloso a un anno dalle elezioni.
Uno come George W. Bush avrebbe convocato più volte il paese in tv, spiegato l'obbligo morale dell'intervento e agito unilateralmente, attirandosi le accuse di arroganza imperiale. Bill Clinton sarebbe stato più suadente, avrebbe simulato un grande interesse per le liturgie della comunità internazionale e agli americani avrebbe trasmesso empaticamente la sofferenza delle vittime libiche, ma alla fine sarebbe intervenuto unilateralmente anche senza l'Onu, come fece in Kosovo.
Il modello Obama è diverso, più sfuggente. In Afghanistan ha triplicato il numero dei soldati rispetto a Bush, ma ha vinto ugualmente il Nobel per la Pace. Nel 2010 ha bombardato 117 volte in territorio pakistano (815 le vittime accertate). Quest'anno siamo già a 19 attacchi e a 104 morti. La Casa Bianca però non ne parla. Ufficialmente quei bombardamenti con i droni non esistono. Caso chiuso.
In origine Obama non aveva alcuna intenzione di intervenire. Sono stati gli eventi, l'emergenza umanitaria e la pressione internazionale a costringerlo. Obama non crede che la Libia sia strategica per gli interessi nazionali statunitensi. Non vuole impelagarsi in un'altra guerra con il quarto paese islamico in nove anni. Non è nemmeno certo di avere le risorse necessarie ad aprire un altro fronte.
Spinto da alcuni suoi collaboratori interventisti, come la Pulitzer Samantha Power che ha studiato la tragedia balcanica e come prevenire i genocidi, il presidente ha però colto l'occasione per riallineare gli interessi ai valori americani. «Gheddafi se ne deve andare», ha detto. Per alcune settimane è sembrato immobile, ma cercava il consenso. Ora tutto è pronto, anche se il ritardo costerà caro.
Il regime libico ha cambiato tono. Il cessate il fuoco è perlomeno ambiguo, ma c'è la sensazione che la voce grossa dell'Onu possa convincere Gheddafi a lasciare. Ai tempi di Saddam, l'Onu si è tirata indietro. Al Consiglio di Sicurezza, del resto, c'era un uomo di Chirac, non di Sarkozy. Nel 2003 Saddam si era convinto che l'opposizione della Francia, il no della Germania e la mobilitazione pacifista occidentale avrebbero fermato Bush, Blair e gli altri paesi della coalizione dei volenterosi. Ora Gheddafi non è più in grado di fare quella scommessa.
Obama spera che il Colonnello lasci o che la parte più ragionevole del regime lo tolga di torno. Ma la speranza non è una strategia. Quando i caccia si alzano in volo e le navi lanciano i missili l'esito non è mai scontato. Il capolavoro politico di Obama sarà sottoposto a un test più difficile. Ma il precedente iracheno dimostra che la sfida vera si apre dopo la caduta del regime. Saranno pronti, questa volta, i piani per il dopo Gheddafi, per la stabilizzazione e per la ricostruzione della Libia?
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