Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 15/03/2011, a pag. 1-4, l'intervista di Fausto Biloslavo a Muammar Gheddafi dal titolo " Ora l'Occidente la pagherà ". Dal FOGLIO, a pag. 4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Ora è troppo tardi anche per salvare i ribelli libici da Gheddafi ", a pag. 1-4, l'articolo di Rolla Scolari dal titolo " Che cosa vogliono i ribelli libici? Ecco le loro risposte (e un sospetto)".
Ecco i pezzi
Il GIORNALE - Fausto Biloslavo : " Ora l'Occidente la pagherà "

Muammar Gheddafi
Tripoli - La telefonata da Bab al Azizya, la cittadella fortificata al centro di Tripoli dove vive Muammar Gheddafi, arriva in mattinata. «Tieniti pronto, il leader ti aspetta» dicono gli uomini del Colonnello. In realtà passeranno oltre quattro ore prima di intervistare in esclusiva il nemico numero uno della comunità internazionale. Bab Al Azizya ha diversi muri di fortificazione e ad ogni passaggio unità speciali, che assomigliano ai marines per l'equipaggiamento, ti passano ai raggi X. Poi ti fanno attendere in una palazzina usata come anticamera per gli ospiti servendo tè alla menta. Oltre ai reticolati, le feritoie e i blocchi anticarro spunta ogni tanto qualche postazione messa in piedi di recente con i sacchetti di sabbia.
Ad un certo punto i pretoriani di Gheddafi mi scortano nella cerchia più interna della cittadella fortificata. Ed il mondo cambia. Un vasto prato verde, palme, poche guardie armate ed un'incredibile mucca pezzata, che bruca l'erba, neanche fossimo in Svizzera. L'intervista si fa rigorosamente sotto una grande tenda in mezzo al piccolo parco. Dentro è colorata di verde e spartana, a parte gli enormi condizionatori ed una tv al plasma. Il colonnello in tenuta da beduino color terra arriva al volante di una macchinetta elettrica. Mi presento con un «Salam aleik» («la pace sia con te») e lui sorride. Ordina subito niente foto e telecamere. Solo i suoi uomini possono scattare qualche immagine. Ci sediamo su delle poltrone un po' impolverate attorno ad un tavolino basso. Fra noi solo un telefono ed un pulsante, forse per far intervenire le guardie che non si fanno vedere.
Gheddafi sembra di buon umore e da vicino appare in forma, anche se con qualche ruga di troppo ed i capelli riccioluti visibilmente tinti. Non solo è alla mano, ma ogni tanto ridacchia alle domande più scabrose. Cerco sempre di incrociare il suo sguardo, ma ad un certo punto inforca gli occhiali da sole a goccia. Nell'intervista con Il Giornale ne spara di tutti i colori.
Le sue truppe marciano su Bengasi, la roccaforte ribelle. Siete pronti a riconquistare la Cirenaica con la forza militare o utilizzando anche il negoziato?
«Dialogo con chi? Il popolo è dalla mia parte. La gente ci chiede di intervenire dicendo “liberateci da queste bande armate”. Negoziare con i terroristi legati ad Osama Bin Laden non è possibile. Loro stessi non credono al dialogo, ma pensano solo a combattere e ad uccidere, uccidere ed uccidere. La sua idea della situazione a Bengasi è completamente sbagliata. La popolazione ha paura di questa gente e dobbiamo liberarla».
Scusi, ma il capo del Consiglio nazionale dell'opposizione, Mustafa Abdel Jalil, era il ministro della Giustizia libico fino a poche settimane fa. Non tutti i ribelli sono terroristi...
«La gente di questo Consiglio è come se fosse ostaggio di Al Qaida. Li stanno temporaneamente usando. Il Consiglio è una facciata, non esiste. Alcuni militari che ne fanno parte ci hanno detto che non avevano alternative: o accettavano o li avrebbero sgozzati come faceva Al Zarqawi (il terrorista di Al Qaida ucciso in Irak nda)».
Quanto tempo ci vorrà per riconquistare la Cirenaica in mano ai ribelli?
«Non hanno speranze, per loro è una causa oramai persa. Ci sono solo due possibilità: arrendersi o scappare via. Questi terroristi utilizzano i civili come scudi umani, comprese le donne».
Non teme che un attacco alle grandi città in mano ai ribelli possa finire in un bagno di sangue?
«Dobbiamo combattere il terrorismo. Per questo stiamo avanzando rapidamente prima di evitare massacri».
Però state negoziando con le cabile, le tribù libiche, per evitare il peggio...
«I terroristi non stanno a sentire né le cabile, né il sottoscritto, né lei. L'ordine alle nostre truppe è di circondarli, metterli sotto assedio. Poi spero e prego Allah che accettino la resa senza combattere mettendo in mezzo i civili. Se si arrenderanno non li uccideremo».
Misurata, la terza città del paese, è già assediata. Come andrà a finire?
«I terroristi verranno processati, ma la gente normale, che è stata fuorviata, verrà perdonata. Ci sarà clemenza se abbasseranno le armi».
La comunità internazionale pensava fin dall'inizio che lei fosse spacciato...
«Non sanno cosa accade veramente in Libia (e comincia a ridacchiare). Il popolo è con me. Il resto è propaganda. Posso solo ridere».
La Libia aveva un ottimo rapporto con l'Italia e lei personalmente con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Come giudica la netta presa di distanza e le mosse del governo italiano?
«Sono realmente choccato dall'atteggiamento dei miei amici europei. In questa maniera hanno messo in pericolo e danneggiato una serie di grandi accordi sulla sicurezza, nel loro interesse e la cooperazione economica che avevamo».
Con Berlusconi c'era anche un rapporto personale...
«Sono talmente choccato, mi sento tradito: non so che dire a Berlusconi».
Ma è vero che ci sono contatti con il governo italiano?
«Io non ho più alcun contatto con l'Italia e Berlusconi. C'è, però, la possibilità che il ministero degli Esteri libico e altre autorità siano in contatto con gli italiani».
L'Eni ha grandi contratti e joint venture per lo sfruttamento del petrolio e del gas in Libia. Cambierà qualcosa?
«Penso ed auspico che il popolo libico riconsidererà i legami economici e finanziari e anche quelli nel campo della sicurezza con l'Occidente».
Significa che volete rescindere i contratti energetici con l'Italia?
«Quando il vostro governo sarà sostituito dall'opposizione ed accadrà lo stesso con il resto del'Europa il popolo libico prenderà, forse, in considerazione nuove relazioni con l'Occidente».
Lei ha lanciato l'allarme: una marea di immigrati invaderanno l'Europa e per prima l'Italia. Il pericolo è reale?
«Se al posto di un governo stabile, che garantisce sicurezza, prendono il controllo queste bande legate a Bin Laden gli africani si muoveranno in massa verso l'Europa. E il Mediterraneo diventerà un mare di caos. Per il momento la striscia di Gaza è ancora piccola, ma si rischia che diventi grande. Tutto il Nord Africa potrebbe trasformarsi in una sorta di Gaza. Per Hamas è una buona notizia».
A livello internazionale si sta parlando di imporre alla Libia una zona di non sorvolo e la Francia sembrava pronta a bombardare. Qual è la sua reazione?
«Penso che il signor Sarkozy ha un problema di disordine mentale (ed il Colonnello si batte il dito indice sulla tempia per spiegarsi meglio). Ha detto delle cose che possono saltar fuori solo da un pazzo».
Pensa che gli americani torneranno a bombardare la Libia come nel 1986?
«Se diventano matti, come Reagan, lo faranno. Noi combatteremo e vinceremo. Una situazione del genere servirà solo ad unire il popolo libico».
Se supererà la crisi è pronto a fare un passo indietro lasciando spazio a suo figlio Seif al Islam e a riforme?
«Lo decideranno i libici attraverso i Comitati popolari ed il Congresso del popolo (una specie di Parlamento nda). Le riforme vanno bene e pure per mio figlio, se la scelta verrà dal popolo l'accetterò».
Il presidente tunisino Ben Ali è fuggito. Quello egiziano lo hanno costretto a ritirarsi a Sharm el Sheik. Non ha paura di finir male? (Gheddafi capisce la domanda e fa una risata)
«Sono ben diverso da loro. La gente sta dalla mia parte e mi da la forza. Non ho paura».
Neppure di venir processato per crimini di guerra?
«Qualsiasi commissione internazionale può venire in Libia a rendersi conto sul terreno cosa è accaduto veramente».
Non teme di finire come Saddam Hussein? (Il traduttore a questa domanda sbianca e ci gira attorno parlando più vagamente del destino dell'Iraq. Il colonnello capisce e ridacchia)
«No, no, la nostra guerra è contro al Qaida, ma se loro (gli occidentali) si comportano con noi come hanno fatto in Iraq, la Libia uscirà dall'alleanza internazionale contro il terrorismo. Ci alleiamo con al Qaida e dichiariamo la guerra santa».
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Ora è troppo tardi anche per salvare i ribelli libici da Gheddafi "

Carlo Panella
Roma. Con sconcertante insipienza, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha iniziato a mettere in agenda la “no fly zone” sulla Libia, senza trovare un accordo, nel giorno in cui i corrispondenti sul terreno constatano che ormai non servirebbe a nulla. Libération così riassume il disastro dei ribelli: “Non è una ritirata, è uno sbandamento”. Le brigate di Khamis Gheddafi, riconquistata Ras Lanuf, sono ora in grado di riprendere Adabiya e Tobruk con le sole forze di terra e quindi di stringere a tenaglia e conquistare Bengasi anche senza aviazione. L’unica variante è la scelta del Consiglio nazionale libico di resistere a oltranza nella capitale della Cirenaica – scelta suicida – oppure di sgomberare il campo, tentando magari un domani una guerriglia nel retroterra della Cirenaica, sulle orme di Omar al Mukhtar. La sconfitta della ribellione libica e l’imminente vittoria di Muammar Gheddafi rappresentano così l’ennesimo prezzo pagato al multilateralismo caro a Barack Obama e alla sinistra mondiale (gollisti inclusi). Sono passati 25 giorni dall’inizio della rivolta, ma già dal terzo giorno Mohamed Shalgham, dimettendosi dal ruolo di ambasciatore libico all’Onu, chiedeva una rapida “no fly zone”. Subito però la già ondivaga Casa Bianca si è dovuta confrontare col veto della Lega araba e della Organizzazione del consiglio islamico (inclusa la Turchia, paese della Nato) che pretendeva che questa venisse attuata da un paese “cristiano”, in ossequio al divieto shariatico fondamentalista. Nel frattempo, al Jazeera e al Arabiya replicavano lo stile mistificante (pochi fatti, molta enfasi, demonizzazione dell’avversario, esaltazione dei “martiri” ribelli) rodato per anni nei reportage contro Israele, ottenendo il risultato perverso di far credere agli stessi ribelli di godere di una forza che non avevano, sottacendo la continuità dell’appoggio a Gheddafi di molte tribù e di non disprezzabili settori della popolazione e fornendo alla comunità internazionale un quadro assolutamente non veritiero. Così, quando ha ceduto la strategica Ras Lanuf, con ampio e indisturbato impiego dell’aviazione, il mondo ha scoperto che il fronte ribelle è improvvisamente collassato. Frutto sì della determinazione e della ferocia delle brigate di Gheddafi ma anche di una strategia avventurista dei ribelli che si sono impegnati su un fronte vastissimo, non hanno concentrato le loro forze in una difesa di Bengasi e hanno così permesso al colonnello di sviluppare una facile strategia del carciofo. Seguendo i propri tempi, e non quelli della realtà, con intermezzi tragicomici di un Nicolas Sarkozy e un David Cameron che minacciano un’azione militare solitaria, tanto elettoralistica quanto cinica (e impraticabile con le loro sole forze), il multilateralismo ha infine “deciso di iniziare a decidere” su come soccorrere i ribelli di Bengasi troppo tardi. Ora Gheddafi potrà liberamente sviluppare una nuova fase della sua politica corsara.
Il FOGLIO - Rolla Scolari : " Che cosa vogliono i ribelli libici? Ecco le loro risposte (e un sospetto) "

Bengasi. L’avanzata delle forze di Muammar Gheddafi continua, destinazione Bengasi, mentre il colonnello mostra in tv un ribelle pentito, ipotizzando per lui e per chi si pente un’amnistia. Dalla loro roccaforte i rivoltosi rispondono che andranno fino alla fine, e la comunità internazionale, così riluttante a riconoscerli come interlocutori, inizia ad aprirsi a missioni diplomatiche alla luce del sole per prendere i contatti. Ma il tempo stringe, le navi cariche di rifugiati sono partite verso l’Italia, una è stata fermata su richiesta del Viminale, ma fonti dicono che in viaggio ce ne sono altre ventuno: e ora che sul campo Gheddafi mostra tutta la sua forza – non l’aveva mai persa, in realtà – la diplomazia deve trovare altri strumenti di pressione. Di certo c’è che l’obiettivo principale è capire chi sono i ribelli, e che cosa vogliono (oltre alla fine del regime di Gheddafi). I segnali sono contraddittori, alcuni chiedono un intervento, come il leader più conosciuto all’estero, l’ex ministro Mustafa Abdul Jalil, altri un sostegno umanitario e militare (armi), tutti guardano all’Europa come interlocutore principale e soprattutto tutti ci tengono a sottolineare – in modo tanto enfatico da risultare quasi sospetto – che al Qaida non c’è in Libia e che l’estremismo islamico è un’invenzione di Gheddafi. Tra i corridoi del tribunale di Bengasi, quartier generale dei ribelli, avvocati e giudici lavorano assieme a giovani catapultati in prima fila a parlare di amministrazione cittadina, di relazioni internazionali, di islam. Issam Gheriani è uno dei volti più noti al tribunale, uno psicologo diventato portavoce della protesta. Per lui, America ed Europa hanno pensato ai propri interessi, “succede ovunque”, dice pragmatico, “tutti hanno fatto affari con Saddam Hussein, come con Gheddafi”. La maggior parte dei libici ha festeggiato la caduta dell’ex rais iracheno, ma “non per la fine che ha fatto l’Iraq” (una fine tra l’altro determinata anche dai tanti islamisti libici che andarono a combattere con al Qaida contro le forze americane). La comunità internazionale è preoccupata, teme che il caos apra la porta all’estremismo. I ribelli fanno però notare – conoscono bene le paure all’estero – che le principali città dell’est della Libia sono sotto controllo e insistono sul carattere laico della rivoluzione. Non c’è nessun religioso né rappresentante di movimenti islamisti tra i 31 membri del nuovo Consiglio nazionale, sottolineano. “La Libia è sempre stata moderata”, dice Gheriani. Per strada però ci sono poche donne, per la maggior parte velate. Eppure, insiste Gheriani e confermano anche attiviste vicino ai ribelli, le donne che studiano e lavorano in Libia sono più degli uomini. Al tribunale di Bengasi, la maggior parte degli avvocati è donna, dice Selwa Bugaighis, del consiglio civico locale. E’ un avvocato ed è una delle poche donne non velate. “C’è incomprensione sull’hijab, il velo islamico – continua Gheriani – Non è un simbolo di estremismo e non è obbligatorio. Qui è più un ‘dress code’, come la tunica per gli uomini”. “La Libia è una società laica, c’è un po’ di tutto – dice Ayman Gheriani, 31 anni – Io prego e digiuno, ma viaggio anche all’estero ed esco con le ragazze. Non c’è una contraddizione. Seguiamo tutti l’islam e ciò che ci è stato lasciato dal nostro Profeta, il Corano, ma non siamo estremisti e non vogliamo certo un regime teocratico”. Muftah, 30 anni, professore di inglese, è uno dei giovani che ogni giorno si ritrovano al tribunale per aiutare i membri del comitato del 17 febbraio. Spera ancora in una “no fly zone” con l’appoggio degli Stati Uniti: “Il presidente Obama si è comportato da amico anche prima della rivoluzione”. Ma con l’Europa “ci sono interessi comuni, noi vendiamo il petrolio e loro ci forniscono la tecnologia”, spiega Muftah, sottolineando la necessità che i governi stranieri intervengano per fermare le violenze, ma è contrario a un intervento militare, come accaduto in Iraq nel 2003. “Saddam era un dittatore e si è meritato quello che gli è successo. L’intervento militare, però, è stato brutale, lungo, e non ha portato alla creazione di istituzioni. Gli iracheni hanno vissuto in un caos completo. Per questo non vogliamo interventi stranieri qui”.
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