Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 14/03/2011, a pag. 1-14, l'editoriale di Magdi Cristiano Allam dal titolo " Le rivolte arabe non sono per la democrazia ". Dalla STAMPA, a pag. 1-33, l'editoriale di Enzo Bettiza dal titolo " Gheddafi spiazza l'Occidente ".
Ecco i due pezzi:
Il GIORNALE - Magdi Cristiano Allam : " Le rivolte arabe non sono per la democrazia "

Magdi C. Allam
Avendo avuto l’onore di essere incluso nella lista nera dei nemici del regime libico con una nota ufficiale dell’«Ufficio popolare della Grande Jamahirya Araba Libica Popolare Socialista» a Roma il 6 marzo del 2006, sarò il primo a rallegrarmi per la fine della tirannia di Gheddafi. Tuttavia mi domando se il sedicente «Consiglio nazionale di transizione» corrisponda effettivamente all’alternativa democratica garante dei valori inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà, oppure se sarà semplicemente una versione più edulcorata di un sistema di governo sostanzialmente autoritario condiviso dai partiti di opposizione, in primis gli integralisti islamici, in cambio della spartizione del potere?
Mi chiedo inoltre se gli Stati Uniti e l’Unione europea, che anche in questa circostanza dimostrano di essere succubi di un’ideologia di stampo sessantottino che s’infervora per i moti di piazza e le rivoluzioni attribuendo loro automaticamente e acriticamente una valenza democratica, siano veramente interessati all’emancipazione dei popoli arabi ed islamici nel senso dell’adesione piena e convinta ai diritti fondamentali della persona, o mirino essenzialmente a una qualsivoglia forma di stabilità politica appiattita sulla dimensione della sicurezza interna e il controllo delle frontiere, pur di aver garantiti con chiunque andrà al potere gli interessi materiali?
Se sull’imperativo di contrastare il genocidio perpetrato da Gheddafi contro il suo popolo siamo tutti d’accordo, siamo però certi che l’aiuto militare ai ribelli libici, l’eventuale imposizione della «zona di interdizione aerea», del «blocco navale» o dei «bombardamenti mirati» si tradurranno nell’avvento della democrazia? Ci siamo chiesti da dove siano spuntati all’improvviso armi e miliziani in tutta la Libia che stanno di fatto ingaggiando una vera e propria guerra militare sfidando gli aerei e i carri armati di Gheddafi? Non è forse opportuno vincolare sin d’ora il nostro contributo al rovesciamento della dittatura all’impegno pubblico del «Consiglio nazionale di transizione» a dar vita ad uno Stato laico fondato sulla separazione dei poteri che escluda sul nascere la prospettiva della teocrazia islamica, che aderisca ad una concezione sostanziale della democrazia che fa propria la Carta dell’Onu per i diritti della persona, che rispetti le risoluzioni e i trattati internazionali compreso il riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza?
Se guardiamo a quanto sta accadendo in Tunisia e in Egitto, i due Paesi dove la rivolta popolare è riuscita ad allontanare i presidenti Ben Ali e Mubarak, di fatto sostanzialmente non è cambiato nulla perché il potere resta saldamente nelle mani delle forze di sicurezza e dell’esercito, impegnati a coinvolgere i partiti dell’opposizione nell’amministrazione dello Stato, concedendo un ruolo più significativo agli integralisti islamici di Ennahda e dei Fratelli Musulmani. In Egitto il vero paradosso è che i promotori della rivolta popolare hanno gioito per il colpo di stato militare considerandolo l’avvio del processo democratico nonostante Mubarak governasse a nome delle Forze armate. Di fatto da 7mila anni il potere è fortemente centralizzato per la necessità vitale di controllare la gestione dell’acqua del Nilo da cui dipende la vita degli egiziani. «Un dono del Nilo», lo definì Erodoto nel IV secolo avanti Cristo, e da allora nulla è sostanzialmente cambiato nella successione al potere di autocrati anche se formalmente non si chiamano più faraoni. In questo braccio di ferro tra l’istituzione che incarna un potere sostanzialmente laico e l’alternativa teocratica islamica, l’Occidente deve fare una scelta. Se ci limiteremo a impedire un cambiamento reale, finiremmo per ritrovarci a breve con la riesplosione dei moti della piazza. Se rincorreremo acriticamente le suggestioni dei burattinai che istigano le folle, finiremmo per consegnare loro il monopolio del potere trasformando le elezioni in una passerella che favorirà i nemici della democrazia. Il vero problema è che, da un lato, noi conosciamo poco o nulla della realtà dell’islam politico e fatichiamo a capire che loro ragionano in termini coranici e non cartesiani, mentre dall’altro non sappiamo neppure noi quale modello di democrazia offrire loro perché la nostra stessa democrazia è in crisi profonda per il venir meno della certezza delle nostre radici, dei nostri valori e della nostra identità.
La STAMPA - Enzo Bettiza : " Gheddafi spiazza l'Occidente "

Enzo Bettiza
La riconquista di Brega, porta d’ingresso alla Cirenaica isolata, ultimo caposaldo degli insorti disorganizzati e allo sbaraglio, segna il decisivo punto di svolta a favore delle truppe di Gheddafi nell’avanzata verso la metà secessionista della Libia. Ogni ora che passa accresce sempre più il riconsolidamento del regime repressivo del Colonnello, dei suoi accoliti e soprattutto dei suoi figli addestrati al comando militare e alle pubbliche relazioni. Un’occhiata alla carta geografica basta a darci l’istantanea della situazione. Bengasi, roccaforte dei ribelli, è nel mirino. Dopo la caduta di Ras Lanuf, centro petrolifero da cui i ribelli intendevano lanciare un attacco simbolico contro Sirte, città natale di Gheddafi, soltanto l’intervento unanime della comunità internazionale avrebbe potuto arrestare questa riscossa implacabile del raiss.
Ma l’unanimità non c’è stata, non c’è, ed è azzardato sperare che ci sarà nei prossimi giorni. Lo stesso concetto di «comunità internazionale» si sta rivelando vacuo e quasi sinonimo del nulla di fatto. Quelli che davano per certa o imminente la fine della dittatura libica, a cominciare dal presidente Obama, dovranno rivedere il loro affrettato pronostico e fare i conti, come ai tempi di Miloševic e del Kosovo, con la paralisi dell’Onu e l’inusitata tenuta di potere di un dittatore spietato e caparbio. L’Occidente appare diviso in tre blocchi. Uno interventista costituito dalla Francia e dalla Gran Bretagna, il secondo più neutralista formato dall’Italia e dalla Germania, il terzo attendista rappresentato dagli Stati Uniti. Le loro posizioni diversificate si elidono a vicenda e il risultato finale, che abbiamo sotto gli occhi, è la mancanza di un’azione salvifica nei confronti dei rivoltosi e bellica contro i blindati e i cacciabombardieri di Tripoli. Si prenda a esempio la questione, certo delicata, della «no fly zone» che, attuata sul serio, comporterebbe vere azioni di guerra e quindi di protezione del governo provvisorio di Bengasi: attacchi dal cielo e dal mare agli arsenali, ai porti, alle caserme, alle piste di decollo in mano ai soldati del regime. Tantissimi politici e strateghi occidentali ne parlano quotidianamente, ma nessuno finora ha agito, nessuno dà l’impressione di voler agire davvero.
All’inerzia oratoria dell’Occidente si sommano, giustificandola, le solite e ormai storiche fibrillazioni di cui danno spettacolo le Nazioni Unite durante le crisi planetarie. Scomuniche, minaccia di sanzioni, embarghi, ingerenze umanitarie. Stati Uniti, gran parte dell’Unione europea, Germania in testa, s’appellano di continuo, come ai tempi della crisi jugoslava, al salvacondotto internazionale dell’Onu quale giustificativo per operazioni d’intervento concreto in Libia. Ma si tratta di comoda finzione diplomatica. Tutti sanno benissimo che il problema della «no fly zone», quando e se sarà portato al Consiglio di sicurezza - quello dei cinque, il solo che conta - verrà con ogni probabilità bocciato dai veti o aggirato dai sofismi della Cina e della Russia. L’una e l’altra tifano per la controffensiva lealista e si direbbe non vedano l’ora di usurpare il posto, per esempio, dell’Italia nei grandi commerci petroliferi con una Tripoli vittoriosa.
Già il figlio più politicizzato del raiss, Saìf al Islam, in una recente intervista al «Corriere della Sera» ha evocato la possibilità di un’opzione energetica in favore dei cinesi, minacciando gravi ritorsioni contro governanti e investitori italiani accusati di «tradimento» e «complicità con i terroristi cirenaici». Minacce mirate che, assieme a quella di sommergere la Penisola con migliaia di fuggiaschi africani, non si dovrebbero prendere tanto alla leggera. Un Muammar Gheddafi condannato come criminale in Occidente ma inaspettatamente resuscitato, grazie ai veti di Pechino e di Mosca, alla sommità di tonnellate d’oro nero porrà grossi e tremendi quesiti all’Italia e all’Europa nel suo insieme. Come ha scritto sul «Foglio» Carlo Panella, correremo il rischio di avere alle porte di casa uno «Stato pirata» governato da «un imprenditore del terrorismo».
Si capisce meglio, anche se duole capirlo, la prudenza con cui i governi di Roma e di Berlino hanno cercato di trattare, fin dall’inizio, una crisi che non definirei «rivoluzionaria» ma, piuttosto, un condensato spontaneo di collere tribali contro una tirannide tribale e personale insieme. Il tutto, com’era in parte prevedibile, non poteva che insabbiarsi in una rivolta disperata e abbandonata a se stessa. Una rivolta non ad armi pari. Il clan di potere che, aggredito, sembrava destinato al collasso corre invece armatissimo verso Bengasi e Tobruk alla riconquista del tempo e dello spazio perduto. Nelle prossime ore comprenderemo se i giochi resteranno aperti o se si sono già chiusi.
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