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Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele 06/04/2025

Jordan Peterson intervista Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele
Video con sottotitoli italiani a cura di Giorgio Pavoncello

Jordan B. Peterson intervista il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla storia di Israele e sul diritto degli ebrei alla loro terra ancestrale, la Terra d'Israele, situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questa è la risposta alla narrazione falsa araba e alla loro assurda rivendicazione della terra di Israele, la patria del popolo ebraico da tempo immemorabile. La risposta a qualsiasi rivendicazione araba su una terra che chiamano "Palestina". La terra di Israele, che hanno invaso, non è mai stata terra araba e non sarà mai loro.



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Il Giornale - Il Foglio - La Stampa Rassegna Stampa
09.03.2011 Libia, la Nato deve intervenire contro Gheddafi
Analisi di Fiamma Nirenstein, Giulio Meotti. Intervista a Frank Anderson di Maurizio Molinari

Testata:Il Giornale - Il Foglio - La Stampa
Autore: Fiamma Nirenstein - Giulio Meotti - Maurizio Molinari
Titolo: «Se la Nato chiama non possiamo tirarci indietro - Gheddafi il filantropo - Il regime è sotto ricatto dei clan del deserto»

Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 09/03/2011, a pag. 1-14, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Se la Nato chiama non possiamo tirarci indietro ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Gheddafi il filantropo ". Dalla STAMPA, a pag. 3, l'intervista di Maurizio Molinari a Frank Anderson dal titolo " Il regime è sotto ricatto dei clan del deserto ".
Ecco gli articoli:

Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Se la Nato chiama non possiamo tirarci indietro "


Fiamma Nirenstein

Attenzione che la paura di appari­re come Bush non ci faccia diven­tare dei Chamberlain. Per ora, questo è il grande rischio di Oba­ma che a forza di cercare chiarez­za e legittimità ci fa sprofondare nella confusione. L’Europa, dato che la Francia e l’Inghilterra vor­rebbero una nuova risoluzione dell’Onu per autorizzare le opera­zioni, non aiuta a fare chiarezza. Ma c’è un punto solo che si distin­gue anche da lontano nella grande confusione concettuale e politica che circonda ormai la questione libica, ed è rosso sangue. I ribelli libici non stanno vincendo, si può dire eufemisticamente: nelle battaglie di ieri Ben Jawad è stata presa, Misurata è circondata di carri armati di Gheddafi, Zawiyah sembra siastata bombardata dall’aria, e il pozzo petrolifero di Ras Lanuf è stato a sua volta preso di mira dai Mig del rais. Di Tripoli, casamatta del capo, non si parla nemmeno, se non per dire che la polizia di Gheddafi mantiene un rigido e minaccioso controllo della città. È senza dubbio un segno di debolezza dei ribelli, anche se le notizie non sono chiare, che essi abbiano proposto a Gheddafi di lasciare il Paese entro 72 ore in cambio della promessa di non venire processato. C’è chi invece ha fatto sapere che la proposta è di Gheddafi e che i ribelli l’avrebbero sdegnosamente respinta, ma questo non torna con la figura e le dichiarazioni del Pazzo di Tripoli. Pure a casa nostra, comunque, regna la confusione, anche se si delinea una soluzione, la famosa no-fly zone, che potrebbe essere adottata dalla Nato. Preparativi sono già in atto. Al tempo della guerra alla Serbia,l’Alleanza Atlantica non ebbe bisogno del nulla osta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il grande fantasma che invece si erge come l’ombra di Banco sulla strada di Obama. Proprio lui, il presidente che più di ogni altro ha interiorizzato, anzi, incarna l’antagonismo alla dottrina Bush e sa che per questo ha ricevuto un premio Nobel per la Pace ( che oggi pesa come una catena di piombo), sa benissimo che la sua amicizia coi popoli arabi, centro della sua politica estera, potrebbe essere rovinata dalla sopravvivenza politica di Gheddafi. Un Gheddafi furioso, che ha di nuovo il controllo della Libia, è un lusso che non ci possiamo permettere se vogliamo evitare rappresaglie sulla popolazione e chissà quali ricatti petroliferi. Molti ormai dichiarano realistica la no-fly zone. La Libia con Gheddafi sopravvissuto diverrebbe uno Stato isolato e dominato da un tiranno pieno di spirito di vendetta. Per riconquistare le province in armi, Gheddafi compirebbe una strage che il mondo non dimenticherebbe. Gli Stati Uniti, la cui incertezza sta lasciando sempre più sorpresi e distaccati gli alleati e gli estimatori di un tempo, passerebbero alla storia come testimoni passivi di un probabile bagno di sangue. Robert Gates all’inizio si è dichiarato decisamente contrario a un intervento militare: «È una grande operazione in un grande Paese»; ma a Kabul, in una conversazione privata con il generale David Petraeus, che gli chiedeva se stava per lanciare una «specie di attacco contro la Libia», ha risposto: «Sì, esattamente».
Dunque, probabilmente, se Gheddafi non viene fulminato sulla via di Damasco, qualcosa del genere dovrà presto avere luogo. E se la Nato chiama, nessuno potrà tirarsi indietro. Negli Usa il fronte interventista si è allargato dal repubblicano John McCain al democratico John Kerry mentre si cerca di assicurarsi l’appoggio della Lega Araba,sperando che l’Arabia Saudita, sempre molto prudente, stavolta si prenda la maggiore responsabilità. Ma una no-fly zone vuol dire bombardare gli aerei del raìs a terra, neutralizzare tutti i sistemi antiaerei ormai molto sofisticati, essere pronti a colpire ogni velivolo che si alza. Senza pensare all’incerta sorte degli interessi petroliferi e di vario genere che fino a ieri erano tutti nelle mani di Gheddafi, e domani non si sa.
Ma al di là di tutte le considerazioni pratiche e anche al di là delle istituzioni internazionali, che certo hanno una loro grande forza, esiste da una parte una tradizione wilsoniana americana e dall’altra un senso di colpa europeo che si sommano insieme rendendo indispensabile una scelta. Nessuno può ignorare che là c’è un dittatore che vuole mantenere il potere costi quel costi. Come Saddam e Milosevic. Non è per moralismo che ricordiamo le stragi in Iraq e quelle in Bosnia, ma per non scordare che una serpe nutrita in seno ci ha morso e continuerà a morderci.
www.fiammanirenstein.com

Il FOGLIO - Giulio Meotti : " Gheddafi il filantropo "


Giulio Meotti

Roma. La London School of Economics è in grave imbarazzo. Una delle più note e prestigiose università del mondo ha conferito nel 2008 un dottorato a Saif al Islam Gheddafi, figlio del dittatore libico, generando malumori e polemiche. Poco dopo aver ricevuto il titolo, lo stesso Saif aveva fatto una donazione all’università pari a un milione e mezzo di sterline, attraverso la fondazione intitolata al padre. Cadono teste al vertice dell’ateneo. Ieri si è dimesso in gran fretta anche un premio Nobel che faceva parte del board of trustees della Gaddafi International Charity and Development Foundation, attraverso cui il regime faceva beneficienza a livello internazionale. Si tratta di Richard Roberts, premio Nobel per la medicina e una delle massime autorità internazionali nel campo della biochimica. Ogni giorno si aggiunge un pezzo alla ricca rete di filantropia e accreditamento internazionale del regime di Gheddafi tramite i gruppi dei diritti umani, le star dello spettacolo, gli scienziati e gli intellettuali blasonati. Un anno fa la Fondazione Gheddafi strinse un accordo economico e politico con l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, in cui il Palazzo di vetro accettava da Tripoli una mega donazione di cinquanta milioni di dollari per la costruzione di oltre mille case a Gaza. Altro mezzo milione sarebbe servito per la raccolta di beni alimentari per il mese sacro di Ramadan. Si scopre adesso che nel 2009 Sarah Leah Whitson, direttrice della divisione mediorientale della nota organizzazione dei diritti umani Human Rights Watch, fece visita al rais a Tripoli, sovvenzionata dal regime, per cantare le lodi della “primavera di Tripoli” su Foreign Policy. E’ nei guai Joseph Nye, il docente di Harvard che ha diretto la Kennedy School of Government, l’inventore della dottrina del “soft power”, perché nel 2007 e nel 2008 si è recato in Libia pagato dal Monitor Group, una società di consulenza incaricata dal rais di Tripoli di dare una sapida mano di rispettabilità al regime. Nye è ringraziato anche nella tesi tarocca del figlio di Gheddafi. Emergono i legami fra Gheddafi e molti accademici progressisti e intellettuali di grido, tra cui il celebre sociologo Anthony Giddens, già direttore della London School of Economics, che è stato in Libia due volte (nel 2006 e nel 2007) e al cui ritorno ha scritto due articoli. Il primo pubblicato su New Statement, El País e Repubblica e il secondo sul Guardian. Il professore, definito da alcuni “il più grande scienziato sociale espresso dalla Gran Bretagna dopo John Maynard Keynes”, in Libia è caduto nell’innamoramento: per Giddens, Gheddafi era “l’ultimo rivoluzionario insieme a Fidel Castro. Il progresso per la Libia sarà possibile solo quando Gheddafi sarà caduto? Penso l’opposto”. Giddens era arrivato anche a definire “democrazia rappresentativa” il modello progettato da Gheddafi nel suo delirante “Libro verde”, la versione beduina del Libretto rosso di Mao Tse Tung. Nello stesso articolo, Giddens si augurava che Gheddafi non lasciasse la scena politica e che il paese, sotto la guida del colonnello, potesse divenire “la Norvegia africana”. Il problema è che anche i soggiorni di Giddens in Libia venivano finanziati dal regime attraverso il Monitor Group. Il Guardian rivela che a mettere gli occhi sugli intellettuali sia stato Abd Allah al Sanusi, il capo dell’intelligence libica oggi protagonista delle repressioni militari. Nei guai c’è l’accademico Benjamin Barber, noto politologo liberal antiglobalizzazione della Rutgers University, che sul Washington Post ha lodato nel 2007 il modello Gheddafi. A domanda se il finanziamento per l’articolo sia arrivato direttamente dal rais, Barber ha replicato di no: “E’ arrivato dalla Fondazione Gheddafi”. Nella lista degli accademici prestatisi al rais ci sarebbe anche il politologo e sociologo statunitense Robert Putnam. Un canale importante attraverso cui il regime libico finanziava le cause dei diritti umani era la organizzazione non governativa Eaford, creata nel 1976 a Tripoli, anche se oggi si spaccia come una ong svizzera. Il suo attuale presidente è Abdullah Sharfelddin, uno degli avvocati che in Iraq avrebbe difeso Saddam Hussein. Tante le star dello spettacolo e della musica che adesso provano a correre ai ripari dopo i lauti concerti finanziati dal rais. La cantante canadese Nelly Furtado ha detto che, alla luce delle ultime vicende in Libia, avrebbe donato il milione di dollari ricevuto dal rais a un’associazione benefica. Ma non è l’unica star di Hollywood che ha ricevuto compensi stellari da Gheddafi. Ci sarebbero anche Beyoncé, Mariah Carey e Lionel Richie.

La STAMPA - Maurizio Molinari : " Il regime è sotto ricatto dei clan del deserto"


Frank Anderson, Maurizio Molinari

La crisi è un duello fra Gheddafi e le tribù»: così legge le cronache del conflitto libico Frank Anderson, che fu agente della Cia a Tripoli fino al 1970 e poi ha guidato il desk Medio Oriente nel quartier generale di Langley dal 1991 al 1995 prima di arrivare a presiedere il «Middle East Policy Council» di Washington. Come legge le indiscrezioni che circolano su una presunta trattativa fra Gheddafi e il consiglio dei ribelli?
«I ribelli negano di aver avuto contatti con lui o i suoi collaboratori. In particolare non vi sarebbe stata nessuna telefonata sulla presunta mediazione basata sull’offerta di Gheddafi di lasciare il potere in cambio di garanzie».
Allora quale può essere la genesi di tali notizie?
«Secondo i ribelli, sono notizie che arrivano dal clan di Gheddafi. Tentano in qualche maniera di rompere l’isolamento del colonnello, di rilegittimarlo e rimetterlo in gioco».
Che opinione si è fatta del fronte dei ribelli?
«La verità è che nessuno ne sa molto. L’unico ad avere realmente rapporti con loro è l’ambasciatore libico qui negli Stati Uniti, che ha scelto di voltare le spalle al regime».
Quanto contano le tribù nella guerra civile in atto in Libia?
«Molto, direi che sono decisive».
Perché?
«Per oltre quaranta anni Gheddafi ha governato la Libia distruggendo sistematicamente ogni tipo di istituzione. Il governo, i ministeri, il Parlamento e anche le forze armate sono stati in varia maniera depotenziati, indeboliti, frantumati. Anche dei poteri amministrativi locali è rimasto molto poco. L’unica forma di autorità sul territorio che Gheddafi non è riuscito a intaccare sono le tribù. Dunque sono loro ad essere decisive in questo momento».
Come si stanno comportando le tribù negli scontri in corso?
«Da quanto si comprende nessuna delle tribù libiche si è schierata con Gheddafi, tranne la sua che ha i propri territori nella zona della Sirte dove è nato lo stesso colonnello».
Perché le tribù sostengono la rivolta?
«Per il semplice fatto che dopo essere state per quarant’anni obbligate a ubbidire ai desideri del colonnello e della sua tribù, che è molto piccola, ora vedono la possibilità di rovesciare l’equilibrio di forze, prendendosi molte rivincite».
Insomma, lei non esclude un negoziato fra Gheddafi e le tribù...
«Niente affatto, tutto è aperto».
Cosa potrebbero chiedere le tribù al colonnello assediato?
«Le tribù non sono partiti politici o governi, i loro interessi corrispondono a quelli delle famiglie che le compongono. Dunque vogliono che i loro singoli membri vengano promossi, abbiano incarichi più importanti, maggiori beni e stipendi più alti. L’interesse di base di una tribù è quello di diventare più forte e più ricca, in qualsiasi maniera».
Cosa significa per Gheddafi trovarsi davanti ad una simile sfida?
«Essere pronto a tutto per sopravvivere».
Cosa intende dire?
«Che Gheddafi è pronto oggi a trattare con le tribù su tutto perché sa che solo loro potranno garantirgli di continuare a rimanere al potere. L’interrogativo è opposto, ovvero se Gheddafi è in grado di dare alle tribù la garanzia che gli eventuali accordi raggiunti verranno rispettati. Il colonnello debole potrebbe essere diventato poco credibile per i clan del deserto».
Un Gheddafi pronto a tutto significa anche disposto a negoziare con l’Occidente?
«Certo, Gheddafi è molto abile a cambiare posizioni, alternare idee e rovesciare situazioni. È un metodo di sopravvivenza grazie al quale è riuscito a conservare il potere più a lungo di altri governanti della regione. Non mi sorprenderebbe se tentasse di intavolare un negoziato con gli occidentali alla prima occasione. L’unica cosa che a lui preme in questo momento è sopravvivere, tutto il resto può essere oggetto di trattativa».

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